Un modo di dire blu di Prussia

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Il grammofono suona una canzonetta francese: il salmo di una Fata. La voce di Edoardo devia la rotta di un sole che vorrebbe andare a colpire il parabrezza. Si riflette negli occhi di una mancata Fata per formare una cornice di latta e cristallo. L’uomo intima l’ALT! L’uomo in divisa intima l’Alt alla Fata di Bennato. Osservo la coda presa in mezzo alle zampe di un pastore tedesco crocifisso di terrore. Il perdersi, tutto suo, in una strada di esistenze al volante. Fisso quell’appendice di manto blu di Prussia e penso a quel qualcuno che giunge alla porta con la coda in mezzo alle gambe. Un modo di dire prende corpo e ripensamento. Il modo di dire si fa modo di essere. Ho visto un modo di dire farsi creatura. Ho visto una creatura farsi modo di dire. Il pastore tedesco, precluso alla devozione, insegna il modo di dire alla Fata: gli animali istruiscono gli esseri umani.

  • da Inchiostrando qua e là sul manto blu di Prussia, pag. 354

Il borgo

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Arrivai in paese con un paio di capelli lunghi e due suole brune acconciate ai miei piedi. No: arrivai in paese con un paio di scarpe rosso cremisi e una lunga stola di capelli. Non sapevano chi fossi. E io lo stavo ancora stabilendo. Autrice? Schiccheracarte? Saggista? Schiccherafogli? Scrittore? Ex docente? Majorette mancata? Aspirante amazzone? Madre perduta? Moglie chimerica? Frustrazione in movimento? Fierezza in crescendo? Con tre chilometri all’andata e tre al ritorno, tra uliveti e cagnette bianche in combattimento per mio giubilo, decisi di essere tutto quello che non fui e il grande nulla che diventai: un camminatore sulla strada verso il borgo.

  • da “Il romanzo che non scrissi”

Elegia (naïf) della bellezza

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“Infanzia” by paola rizzi is licensed under CC BY-ND 2.0

Esiste un punto nel tempo in cui la bellezza si consuma in un vorticoso giro di dubbi. Il dogma si fa chimera, l’armonia vive in una ricerca forsennata. La bellezza è presenza impercettibile nell’esplosione gioiosa di un gesto. Nella traiettoria incerta di un gessetto sull’asfalto, nel segno che traccia i confini di un gioco con un nome altisonante: la campana, per esempio. Una tribù di impavidi ragazzini, conferendo potere a un ciottolo, si affronta a colpi di falcate. In un moto unico, il tracciato passa dalla campana al sorriso. La bellezza è presenza impacciata nell’idillico smercio di foglietti: tra le righe il primo assordante “mi piaci”. È l’aura del primo bacio, quello provato e riprovato per giorni su tutta l’accoglienza del dorso di una mano. Un cappotto di imbarazzo in attesa della seconda effusione.

Accade la bellezza nel perpetuo incanto che, sino alla bassa stagione dell’adolescenza, non si fa mai disincanto. È liturgia vissuta nella piena fiducia in nome di un Dio trovato senza alcuna ricerca. È nella voce innocente di tutte le cose: nei racconti sulla guerra di uno zio che fu prigioniero, nella fumante cucina regionale della nonna e in quel sacchetto pieno di cancelleria profumata ottenuta con la prima paghetta. È nelle corse sbrigliate verso ginocchia sbucciate, aggiustate alla rinfusa in attesa di un nuovo inizio. Cicatrici come stampi lenitivi per il sorriso adulto. È nelle prime feste in casa a base di dolci, pizzette e quella confezione di cola prontamente svuotata per il gioco della bottiglia: bacerai tutti, tranne l’oggetto del tuo desiderio. Nel primo abito plissettato preso proprio per l’occasione. Nell’illusione che quel velo di burrocacao, steso sulle giovani labbra, sortirà lo stesso effetto di un rosso Chanel. È in quello schiudere gli occhi davanti al mondo. Nell’occhieggiare maldestro e timido a quel fanciullo, certamente il figlio di James Dean, conosciuto al mare durante una partita a bigliardino. Nel rivederlo il giorno dopo e quello dopo ancora, sino all’agognato bacio, atteso tutta l’estate e accaduto puntualmente l’ultimissimo giorno di vacanza.

Accade la bellezza nel dono del il primo animale domestico, mortificato da un nome improbabile. Appellativo che scorderà quando si perderà nei tuoi occhi. Nell’assistere con meraviglia a quel miracolo che è il parto: la creatura pelosa si moltiplica in tanti altri improbabili nomi che, naturalmente, per la gioia dei genitori, terrai tutti indistintamente. Nel costruire capanne pericolanti dove rifugiarsi, non al riparo da qualcosa, ma in nome di una magia: la prima proprietà privata della vita, custodia esclusiva di uno spazio segreto. È nelle gite scolastiche di una città che non conquista, ma nel ricordo si fa meravigliosa quanto il repertorio musicale cantato a squarciagola sul pullman. È in un prato di campagna occupato dal rudere di un casale dove, furtivamente si accede, attraverso l’esplosione di una fantasia debordante: storie di fantasmi prendono vita nel rudere. È nel primo film al cinema, nella prima scarpetta rialzata di due soli fondamentalissimi centimetri. Nel primo bikini, indossato con tanto di sfoggio di un triangolino completamente vuoto.

Accade la bellezza nello sguardo riservato ai genitori, due supereroi bellissimi e invincibili, giunti sulla terra solo per proteggerti, in quel per sempre così difficile da pronunciare: per sempre! Accade la fede sconsiderata nella bellezza: la presenza che non cerchi, ma ritrovi in tutte le manifestazioni fanciullesche. Nel tempo giunge un punto esatto in cui lei si fa lontana, remota, nascosta. Al suo posto una consapevolezza: il dovere di trattenerla. La fede si fa fioca perché a quel bacio forse non ne seguirà un altro. Perché quel primo animale domestico dovrai scortarlo sul ponte dell’arcobaleno alla fine dei suoi giorni, nella scoperta di un’ineluttabilità che abbraccia tutti indistintamente. Perché quel bikini non è più tanto speciale. Perché quel burrocacao, che si è fatto rossetto scintillante, non muove gli stessi effetti. Perché al posto del rudere, oggi c’è un alveare di cemento. Perché il pullman non passa e non cantiamo più tutti assieme la melodia di quell’elefante che si dondolava sopra il filo di una ragnatela.

E allora sull’incanto di una reviviscenza è cruciale l’improba lotta al disincanto. Disillusione che, in tutta la sua potenza distruttrice, si stanzia nei posti lasciati vuoti dalla bellezza. Lanciare il cuore e lo sguardo sotto, sopra, intorno alla superficie delle cose per ritrovarne lentamente i primi granelli. Il primo chicco in una melodia che risuona in un aggeggio. Un quadratino inserito in un altro nell’abitacolo di un’automobile, risuona melodie sull’asfalto di una strada desolata o sull’umettato di una romantica notte di pioggia. Un granello in una lettera scritta da mesi e infine spedita. Un granello nella voce di un fratello che, davanti all’ennesimo tracollo sentimentale, ridimensiona il tutto con la battuta dell’occasione: “Dai, non importa. Non a tutti può piacere Janis Joplin!”. E in quella battuta c’è il granello più importante: l’ironia salvifica. La formula magica che scaccia via l’ultima lacrima, il sorriso su quell’errare dell’impeto che proprio non riesce a correggersi. Un granello ancora nell’adunanza con le amiche di sempre, a suon di strampalate teorie filosofiche che finiranno tutte nell’oscillazione tra un irremovibile «non lo chiamo più» e un coraggioso «va beh, magari un messaggino…»

Da grandi la bellezza si fa grande e come tale inafferrabile. L’impossibilità di sintetizzarla in un siero salvavita, la difficoltà di rinchiuderla nella scatola dell’infanzia e la vita che accade indipendentemente fuori dai venti incantati, tutto a generare resistenze e scivoloni. La bellezza pone trappole, prove di coraggio e nostalgia della fede che fu. Non più presenza costante nel cielo puerile, ma altalena del tempo in stagioni fluttuanti di incertezza. È nel barcollo confuso di un’esistenza che, tra fulminee cadute e flemmatiche risalite, ogni granello si fa spinta nell’accorpare ancora e, ancora una volta, un piccolo bottino di grazia. È il mancare l’appuntamento nichilista, il tenersi lontano dallo sconforto fatto stile, evitare la via più semplice del nulla che si traveste da tutto.

Accade la bellezza. Si indossa allo scadere di ogni stagione. Nelle pieghe di una gonna scesa sotto le ginocchia, nel rossetto sbafato, nel vento che muove capelli pittati a festa, nelle fossette fatte rughe, nella melodia e nel rumore, accade la bellezza. Accade nella travolgente fede di continuare a credere, nonostante alcun messaggero abbia mai donato l’indicazione più importante: la bellezza è silente.

  • 27 aprile 2016

Così lontani così vicini

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Così lontani così vicini

Disse il regista?

Scrisse il cantore?

No. Il grande No che prese tutte le promesse.

Così vicini.

Così lontani.

Tutto chiuso in una profezia: «Non dimenticateci!». Sapevano loro. Sognavamo noi. Dimenticavano gli altri.

Chi ha avuto la sventura di stare sotto il grido di una terra in rivolta, sente. Sente le urla della natura e sente la ciarla dell’essere umano. Chi è finito nel ventre di una terra rabbiosa, vede il colore oltre il nero della morte. Scruta il grande abito bianco. Osserva il piccolo taglio blu. Fatture indossate nel giorno della festa. Senza più la volta a far da sentinella a lutti inchiodati nell’oblio dell’anima morta. Scruto da lontano. Guardo le lacrime farsi cristalli, i cristalli farsi pietre e le pietre resistere al tempo della noncuranza.

Così lontano quel grande orgoglio che non accostò i così vicini.

  • Anche oggi sono le 3.36 e Franco ha comprato un chiodo nuovo.

 

La timidezza è un’altezza

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“micro in concert” by josenieto8 is licensed under CC BY 2.0

Recalcitro come una cavalla in piena doma. Nego l’intervista. L’intervistatore nega il rifiuto. Il rifiuto è il piccolo gesto della grande timidezza. L’intervistatore crede alla livrea di pavone. Decorata? Spaventata, si dice. Smarrita, pure. In favor di camera si spezza il fiato come sulle altezze. La timidezza è un’altezza. Non da scalare. Da abbracciare, forse. Non ho ruote da mostrare. Non ho vanti da vantare. Ho limiti da comprendere. O non comprendere. Ma la coda non so farla. La timidezza è fattura fuori moda. Ci devi essere anche quando non vuoi. Eh, ma non senti l’allettamento? No, mi vergogno (non dico). Penso al balbettare. Alla parola spezzata da una fantastica altezza. Perché immaginaria. Ma tanto fantastica quanto l’altezza e il fiato spezzato. Se non ci sei non sei. Posso esserci anche non essendo in favor? La timidezza è una tavola liturgica posta nel garbo della mia creatura. Reclama credenti in un mondo di oscurità psichedelica. Non essendoci, continuo a essere.

Parole stese al centro del Pantanal

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“Caratteri di stampa (da @pixabay) ~ 2012” by Ecosin ~ Redazione is licensed under CC PDM 1.0

Non voglio asciugare parole stese al centro del Pantanal

Non sono capace di scrivere un romanzo. Non so dare trama alla trama. Di tramare non mi riesce. Mi suggeriscono di asciugare. Non voglio asciugare parole stese al centro del Pantanal. Non voglio asciugare parole stese al vento del tran tran letteroso. Sì, letteroso. Se le cattedrali accolgono poveri petalosi caduti a terra, perché non prendersi ricchi fogli letterosi ascesi al cielo? Il cielo del grande dettame letterario. E letteroso. Voglio inondare parole di parole. Guardare alluvioni di avverbi trascinare via la corrente dell’asciugamento letteroso. Assistere ad aggettivi in piena, voglio. Vedo l’orpello di parole fatte di pizzo macramé. Chantilly come la crema. Parole cremose di pizzi. Umettate dal merletto chiacchierino.

Potrei scrivere un romanzo su un merletto chiacchierino che incontra un pizzo d’Irlanda. Ma non sono mai stata in Irlanda. E il pizzo diventa merletto taciturno. Tacere pensieri sul grande asciugamento letteroso. Tutti alla rincorsa del grande asciugamento. Suole consumate dal grande asciugamento letteroso. Non letterario. Indico il letteroso con precisione. Perché preciso è il ruolo dell’asciugamento letteroso nella volta letteraria. Secchezza di scuola a prendere giovani mani senza decorazioni. Giovani mani spalmate di brillantina Linetti. Oleare e asciugare. Sbandieratori di siccità. Anoressia della parola nutrita da sonde di regine asciugatrici. Troni letterari a farsi letterosi. Troni letterosi a fabbricar dettami in catena di smontaggio. Asciugati! Se intendi partecipare, asciugati! No, il mio maestro dice di coltivare l’orgoglio di non essere organica. E asciutta. Sono umida e feconda di parole bagnate di brina paratattica. Piogge estive di anacoluti e deittici a bagnare fogli di carne intingola. Sughi, condimenti e brodetti di pesce lemma pescato in alto mare. Lontani dalla riva asciutta. Asciugata alle onde Cavalcanti degli asciugatori. Un cablogramma invia messaggi da cavallucci marini. Un pesce di fattura equina si crede messaggero. Una cavalla di fattura umana si crede scrittrice. Preferisce scrittore. Ma riesce solo a battere gli zoccoli sul foglio creando fori e polvere sul campo preso dal salto agli ostacoli. Ostacolata da se stessa a scrivere di se stessa. Ma se non fai altro? E, dicevo, non sono capace di scrivere un romanzo. Potrei narrare di un cavalluccio marino che si crede un cavallo e tenta il dialogo con il merletto chiacchierino.

La mia penna è sanguinolenta. Il mio inchiostro è un unghia di cheratina in attesa. L’attesa della ferratura. Scrivo alla stato brado. Che mi lascino gli zoccoli inchiostrati di libertà. Espongo tessuti sottostanti al sole asciugante.

  • Pantanal, 13 aprile 2087

L’ufficio del tempo perduto

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“” by foto silenziose is licensed under CC BY-ND 2.0

Sento profumo di mele cotte. Il profumo è un classico. Il classico odore della dolcezza. Il sapore di un ‘come stai?’ Lontano l’ultimo ‘come stai?’ Remoto, nientemeno. Niente e meno di niente. Ricordo le puntuali valutazioni quotidiane. Mensili, anche. Annuali, pure. Spigolosa o squamosa come una spigola. Come se non bastassero le squame, anche discinta (senza squame), fai sempre quello che ti pare. Devo riuscire a fare quello che non mi pare. La libertà? È la parola bella. È la bella parola consumata. Il termine più abusato. Il meno frequentato. Lo dissi, la bellezza non si lascia avvicinare. Dicevo? La libertà. La libertà è essere liberi dalla dimostrazione. Che? Se ti sfinisci a dimostrare le azioni fatte, non sei libero. Se fai azioni per dimostrare di averle fatte, non sei libero. Dicevo? Come stai? Ricevo valutazioni fuori tema. Non esiste il tema. Ricevo valutazioni. Penna rossa a respingere il foglio. Bianco come le parole mai scritte. Penna nera a impennare il voto. Nero come la valutazione. Nondimeno non faccio altro che ascoltare. Ascolto vite che non vedo vivere. Ascolto per ore. Le ore di ascolto di vite in una vita diventano anni. Non mi rimborsano gli anni all’ufficio del tempo perduto. Ascolto anni di creature che vogliono – fortemente vogliono –  raccontare, dimostrare e infine valutare. Valutare chi non hanno mai ascoltato. Valutare se il mio orecchio è vuoto e le mie ovaie sono piene.  Eh, ma tu. C’è sempre un ma prima del tu. C’è sempre un eh a far da premessa. La premessa invalida il discorso. C’è sempre un’eccedenza nel racconto ascoltato, nell’orecchio ascoltante e nella parola che ora si decide a dire. C’è sempre la parola eccedente. Cattiva, anche. Sono cattiva. Anni di ascolto da scontare: di chi è la cattiveria? Smetto l’ascolto. Voglio diventare buona. Buona con me stessa. Leggo libri e bugiardini da frequentare. Meglio frequentare i bugiardi. I bugiardini non mentono. Metto la marmellata di fragole sopra le mele cotte. Mi rispondo che si sta bene in una casa profumata: fragranza di mele e fragole.

 

(Scritto al galoppo tra la piana del Rascino e il laghetto di Cornino)

Fede (di lei, la fede)

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“” by yes_yesterday is licensed under CC BY-NC-ND 2.0

L’amore è fede nell’amore senza fede

Non ho una fede al mio anulare sinistro a vidimare la presenza di un amore. Ho dieci fedi nel cuore a manifestare l’assenza di una fede. Di una, una soltanto. Le altre nove sigillate nella poca carne delle mie dieci dita. Di quel nove che non avvenne in chiesa. Di quel dieci che non si consumò nel mio bel Comune. Ho una fede di sangue incisa nel muscolo pulsante. Segreto di un mondo. Rivelazione dell’universo. Primo battito terreno dell’eternità. Ultimo segreto tra due dita svestite di preziosi. Legate dal segreto della grande verità: l’amore è fede nell’amore senza fede.

 

(Non ho fede nel sinonimo ma nel segreto ripetuto).

Di lei, i pensieri (II)

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“fu turismo ?” by PORTOBESENO is licensed under CC BY-NC-ND 2.0
  • continua da pag. 1114

[…] Solo così i vivi si mantengono sani. Se il morto non prendesse leggenda nella vita di un vivo, il vivo impazzirebbe. Ammattirebbe. Il morto si prende bellezza con la morte. Anche il morto più inviso alla vita, produce nel vivo un particolare che ne farà leggenda. Qualcuno si spara. Qualcuno si spara per affrettare la leggenda. Guarda Alain che preferisce il ferro alle pieghe della mia gonna bianco betulla. La leggenda non è vissero felici e contenti sotto un tavolo di betulla a forma di gonna. La leggenda è morirono felici e contenti.

Lascio Parigi e lo diceva uno bravo “brucio Parigi per te ma tu non bruci per me”. Lascio Parigi e faccio ritorno a Ortigia. Dimentico la fisarmonica e trovo il bel caffè. Granita di caffè, caffè alla nocciola, pistacchio nel caffè. Tutto è caffè. Caldo bollente e oscuro cristallino. Tutto è caffè e Voi. A Ortigia gli uomini mi usano il Voi. Cenni con il capo e offerte di Voi. Levito su ogni Voi afferrato. Preso nel cielo pistacchio di Ortigia. Germoglia l’addizione del voi. E l’addizione porta alla somma: trentaquattro Voi al giorno fa una donna scalza che crede di ancheggiare sui tacchi a spillo. Trentaquattro Voi al giorno fa una donna in magliettina a righe di Vestivamo alla marinara che si crede fasciata in un abito nero da sera. Il Voi è un abito di seta, una scarpa di marmo policromo, un gioiello affacciato sul barocco di un balconcino. Il Voi è un corteggiamento. Il Voi è un inchino erotico. La dama si lascia prendere dal Voi e libera dal ventre tutto l’erotismo dell’isola di Ortigia.

Il Voi è un granello di sabbia accampato su capelli bagnati da un mare rovente di cattedrali barocche. Tutto è salsedine e granita di caffè con panna senza ghiaccio. Tutto il pistacchio finisce stretto stretto nella grande brioche. Al bar non trovi la caffetteria. Al bar trovi il bar e Totò. Dimentica Alain. Totò sa che tu sei donna di continente. E contenente. Contenente tutti i caffè e gli amori mancati. Questa prepotenza degli amori mancati che torna a ripetersi. Reitera il reato di aver mancato. Stipata nel senso di colpa, scappa a reiterare. E l’amore manca.

È colpa della bellezza. Anche quella torna sempre a pesare. Chi contiene bellezza ne contiene troppa. E chi è carico di bellezza piega la schiena al fardello. Lo sguardo scivola verso il basso.  Chi è carico di bellezza non può che essere lasciato in solitudine dentro la sua bellezza chinata. Si ama meglio chi non porta bellezza. Perché la bellezza è un carico da scontare. Sei pesante! E quella è la bellezza. Si prende tutto lo spazio, lei. E loro non sanno riconoscerla. Non la vedono. Ma devono pur sentirla in qualche modo. Ne avvertono il peso. E fuggono. La bellezza nasce per creare isolamento. Non c’è spazio per l’amore. C’è lei e tanto basta. Poi quelli tornano canuti con il maglioncino ad aprire la frustrazione panciuta. Hanno avuto l’amore, forse. Ma no, la bellezza no. Sono padri e madri che dicono Beata Te! A te che parli una solitudine senza figli. Perché chi possiede amore dice Beata Te? Vogliamo fare un cambio? Ti offro una bella teca di cristallo in mezzo al deserto. La vuoi? È bellissima. Anche quando non hai nulla, dentro puoi metterci tutto il tuo nulla. Ti protegge dalla fredda notte desertica. Ti tiene al fresco. Fredda e algida. Non invecchi? Sei per sempre ragazza. Ragazza sola che vive dentro una fredda teca di cristallo. Beata te! Certo, non sono mica canuta io! E ancor meno panciuta di frustrazione. Sono adiposa di bellezza e grassa di solitudine. Uno scheletro morente. La bellezza trascina un segreto. Quale? L’inconsapevolezza. La creatura è bella perché non sa di esserlo. Qui si pianta la croce senza delizia. Qui si firma la ferita asciutta. Dall’inconsapevolezza sgorga il sangue. La bellezza sapiente non è bellezza. La bellezza sa di non sapere e fa il verso al filosofo. E il filosofo non può che volgersi al sole di Ortigia.

Di lei, i pensieri

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“sunday” by “Olivier Jules” is licensed under CC BY-NC-SA 2.0

Guardo Jeanne Moreau fumare una Gauloises

La voglia non è l’intenzione. La voglia è la voglia senza intenzione. Guardo un caffè alla tivù. Mi sale la voglia. Ma non ho intenzione di berlo. Le immagini si trasferiscono dentro la voglia. La voglia è un contenitore di immagini. Il mio caffè dovrà attendere la venuta del giorno. Le immagini sono notturne e distese. All’alba il caffè perde la voglia e guadagna l’intenzione. L’intenzione affretta all’automatismo di bere quel caffè tutte le mattine. La mattina non mi accorgo di bere la sensualità del caffè appena passato nella scorsa oscurità. Il mio caffè è un caffè che non ha trattenuto l’erotismo dell’immagine notturna. E distesa.

Le immagini sono erotiche. Eccitano il pensiero più del corpo. Il mio pensiero carnale. L’Io penetrabile. L’Io permeabile. Guardo Jeanne Moreau fumare una Gauloises. Vorrei fumare alla stessa maniera di Jeanne Moreau. Come fumano bene le donne nei film. Come fumano bene le donne francesi. Il regista indica precisamente come far scivolare la bionda tra l’indice e il medio. È in quel piccolo divisorio di carne e cartilagine che prende a vivere l’erotismo. Vorrei bere un caffè al Cafe de Flore. Parigi è la città delle caffetterie. Si oscura il gusto in favore di un musico che suona la fisarmonica. Le note del mesto amore di Noix de coco e Modì. Una musichetta francese tutta di fisarmonica risuona sui cappellini dei caffè parigini. Penso ad Alain. Potrei pensare a Maurice Ronet ma scelgo di pensare ad Alain. Entro nella pellicola per farmi notare. Ma lui non riesce a vedere nulla. Non vede se stesso e non guarda me che guardo se stesso. Vorrei aprire il suo ascolto alla fisarmonica e i suoi occhi alla mia gonna plissettata di ardore. Il finale coglierebbe una eco diversa. Non più l’eco di un tonfo. Il tonfo di un colpo di pistola. Alain a gemere forte prima di venirmi dentro. Dentro il mio erotismo plissettato di carne umida. La gonna scivola come la sigaretta di Malle. In mezzo alle cosce e sui piedi avvolti dalle pieghe di una storia che non ci sarà. Quanto sono belle le storie inenarrabili. Quanto sono grandi gli amori mancati. Si infilzano nel corpo come l’immagine di quel caffè mai preso. Alain è nel ricordo corporeo. La mia gonna nella sua leggenda. La morte consegna la leggenda alla vita.

  • continua a pag. 1115