
Jorge Luis Borges, uno dei grandi maestri della cultura latino-americana, figura come il più rappresentativo esponente di quella foggia letteraria che, tramite lo sviluppo dei fondamenti della realtà e l’impiego dei complessi richiami culturali, crea un universo paradossale e immaginario in cui il lettore non sempre è capace di giungere alla comprensione del vero significato.
Borges, nella sua opera, scarta ogni forma di suddivisione tra reale e irreale, tra verosomigliante e assurdo e, colliquando in unitarietà i dati storici e i principi narrativi, genera quadri inverosimili e sconcertanti in cui l’individuo si trova sovente in preda a fissazioni scioccanti e ostaggio di una realtà stretta da limiti fantastici e fallaci.
Parte della poetica di Borges è assicurata in un testo fondamentale – Carme presunto e altre poesie – da cui germinano apparizioni, reminiscenze e previsioni che offrono la fascinazione delle congetture, delle circostanze apparenti e delle chimere che turbano l’individuo lasciandolo in una situazione di indugio perpetuo sul suolo di riscontri impensabili.
Il ventre lucente per Borges è l’universo infinito dell’aspetto simbolico, il giardino verdeggiante della supposizione, da cui il poeta trae la sua grande poetica.
Insonnia
Di ferro,
di arcuate travature d’incommensurabile ferro conviene che
sia la notte,
affinché non la facciano scoppiare e la sventrino
le molte cose che i miei occhi ricolmi hanno visto,
le dure cose che intollerabilmente l’affastellano.
Il mio corpo ha fiaccato i livelli, le temperature, le luci:
dentro vagoni di una prolissa strada ferrata,
in un simposio di gente che si detesta,
nella linea slabbrata dei sobborghi,
in una villa afosa d’umide statue,
nella notte stracolma in cui s’affollano il cavallo e l’uomo.
L’universo di questa notte presenta la vastità
dell’oblio e l’inesorabilità della febbre.
Invano voglio svincolarmi dal corpo
e dall’incubo di uno specchio incessante
che lo moltiplica e l’assedia
e dalla casa che ripete i suoi patii
e dal mondo che prosegue fino a uno sminuzzato sobborgo
di stradoni dove il vento s’ammansa e di balordo fango.
Invano attendo
le disintegrazioni e i simboli che antecedono il sonno.
Prosegue la storia universale:
i minuziosi tragitti della morte nelle carie dentali,
le circolazioni del mio sangue e dei pianeti.
(Ho detestato l’acqua putrefatta di una pozzanghera,
ho abortito al tramonto il canto del passero.)
Le spossanti, interminate miglia della periferia verso il Sud,
miglia di pampa immonda e oscena, miglia di vituperio,
non voglion cader dal ricordo.
Plaghe sommerse, ranci ammassati come cani, pozze di
fetido argento:
io sono la sentinella detestabile di quelle immobili
postazioni.
Ferrospinato, terrapieni, cartacce, rifiuti di Buenos Aires.
Questa notte credo nella tremenda immortalità:
nessun uomo è morto nel tempo, nessuna donna, nessun
morto,
giacché questa inevitabile realtà di ferro e di fango
deve attraversare
l’indifferenza di quanti siano dormienti o
morti
quand’anche si occultino nella corruzione e nei secoli
e condannarli a una veglia terrificante.
Tosche nuvole color vinaccia infameranno il cielo;
albeggerà nelle mie palpebre serrate.
- 1936, Adrogué