Dobbiamo a Isabella Cesarini, autrice e saggista, la possibilità di conoscere una scrittrice, Clarice Lispector, che pur essendo una delle più grandi voci del 900 letterario, è con ogni probabilità sconosciuta al grande pubblico (pur essendo stata pubblicata da editori come Feltrinelli, Mondadori e Adelphi e sapendo che per grande pubblico intendiamo il piccolo pubblico dei consumatori di quei prodotti editoriali chiamati libri).
Il libro di Isabella Cesarini è Con la parola vengo al mondo (Tuga Edizioni, 2021, 122 pagine,16 euro) e si tratta di un’utilissima guida ai profani. Ma non è una guida nel senso usuale del termine: l’autrice unisce l’utile al dilettevole, la storia con l’avventura (intellettuale).
Clarice Lispector nasce in Ucraina nel 1920 e vive e muore a Rio de Janeiro nel 1977. Scrittrice, saggista, giornalista e traduttrice, la produzione letteraria della Lispector è refrattaria alla categorizzazione per generi. Del resto, come spiega Isabella Cesarini, la trama, la classica trama, nel caso della Lispector, è la cornice che inquadra il flusso di coscienza, anzi di linguaggio.
E’ invece facile isolare alcuni temi: il silenzio, la donna, la bellezza, l’infanzia. Forse in una parola: la vita. Come afferma l’autrice, Clarice Lispector scrive per eleggere un nuovo lessico: il linguaggio del silenzio”. Non solo: “Madre, figlia, amante, moglie, la figura della donna nell’opera di Clarice Lispector si colloca dentro un mistero”. La donna è un mistero come la scrittura, non si rivela mai completamente. Come la bellezza, che altro non è se non mancanza: “il vuoto lasciato è il gesto in cui la bellezza si manifesta, esattamente come fa la morte con la vita.
Proust parlava di “essenza carnale” per riferirsi a quelle idee, pensieri, sentimenti, emozioni che non riusciamo a inquadrare, a “vestire”. La stessa cosa pare si possa dire in riferimento alla produzione letteraria della Lispector e come sempre ci viene in soccorso proprio Isabella Cesarini, quando scrive che “La parola di Clarice è carnale quanto le creature narrate, sempre impegnate ad allontanarsi dal pensiero per poter vivere infine solo nei sensi”. Infatti La nausea di Sarte è diversa dalla nausea della Lispector: quella di Roquentin, il protagonista del romanzo filosofico (o l’alter ego di Sartre?) è una nausea mentale, astratta, non giunge alla carne, resta in una dimensione immateriale. Mentre “Clarice Lispector è corpo della parola carnale che torna nel grembo a ogni fine periodo, fine racconto, fine romanzo”. Ma in comune c’è il concetto di epifania, di svelamento indotto da un’esperienza, dalla visione di qualche cosa o da un evento particolare: torna il concetto di essenza carnale, torna la “cosalità” di Sartre e torna pure il Joyce di Gente di Dublino.
Ma non si pensi a una vita di depressione quando si pensa alla vita di Clarice Lispector, dal momento che “la scrittrice vive l’esaltazione dell’esistenza, una passione che giunge direttamente dalla voce del corpo”. E’ evidente che è centrale il concetto di carnalità della parola.
Il libro della Cesarini è fondamentale per iniziare a fare la conoscenza di questa ovattata scrittrice: ce ne illustra dapprima la vita, quindi la cala in una dimensione concreta (carnale!) e poi ci accompagna passo passo all’approfondimento di singole opere, non senza un’utile bibliografia finale. Impossibile, alla fine, non decidere di andare in libreria (o ordinare su Amazon……) il nostro primo libro della Lispector, con cui iniziare questo viaggio.
L’ultimo libro della scrittrice e saggista Isabella Cesarini da poco uscito per Tuga Edizioni, è un viaggio appassionato nella “Bellezza e scrittura di Clarice Lispector”, somma scrittrice brasiliana del Novecento. La Cesarini penetra nell’opera di Clarice in punta di piedi come si usa con un nostro maestro cui portiamo devozione. Con il suo stile di scrittura raffinato e piano al contempo la Cesarini ci spiega ogni segreto di Clarice partendo dalla biografia, via via entrando nella “parola bella” che si fa corpo e anima nelle straordinarie pagine della Lispector.
Si esce edotti dalla lettura sia entrandovi da principianti digiuni di Clarice sia già amanti dei suoi libri. La Cesarini ama infatti l’oggetto del suo dire e il libro è la prova che non è sempre vero che simpatizzare per un autore non sia buon “metodo” di critica.
Isabella Cesarini riesce ad entrare nell’essenza della scrittura di Clarice, arrivando a una simbiosi con essa, tanto che leggendo distrattamente si potrebbe non capire la differenza tra la lingua della brasiliana e quella della sua critica italiana. Dolce sovrapposizione che conduce il lettore ad apprendere e deliziarsi ancor di più.
“Con la parola vengo al mondo” è consigliato a tutti.
Da un viaggio dello scorso luglio ne parte un altro, metaforico quanto reale, in compagnia di un ospite di eccezione: Giovanni Lindo Ferretti. È un fosco pomeriggio estivo, assorta dal clima, mi trovo a San Pietroburgo all’interno della cattedrale dei Santi Pietro e Paolo. Come un’ombra, frastornata dal brusio di gruppi turistici, mi aggiro tra le tombe monumentali di marmo bianco tra i resti degli zar Romanov. Una curiosa sensazione di vuoto mi guida direttamente al cospetto e poi all’ascolto di un coro russo. Infine il silenzio, lo stesso che inaspettatamente mi riporta alla mia piccola realtà, tanto angusta da contenere ciononostante schiere di dubbi. La prima riflessione va tutta nel verso di una mancanza, nello specifico di una sorta di imperativo – negli anni fatto sin troppo mio – di “beniana” memoria: “Siamo quel che ci manca. Da per sempre”.
Accade che si trovi quantomeno curioso sistemare l’immagine di Carmelo Bene nel bel mezzo di una fortezza russa, senza neanche esser sfiorati dall’idea di Dostoevskij. Ma è proprio il sentimento della distanza a portarmi nel suolo delle associazioni libere. Distanza come manchevolezza che si fa richiedente, poiché il vuoto spesso recalcitra e si incapriccia su domande e richieste. Si manifesta come una fame che lascia fluire dimensioni incompiute e trascinamenti improvvisi. La volta di San Pietroburgo è ancora torbida e il mio baléno squarcia il cielo nel nome di colui che nella mia prima adolescenza, si rende latore di inquietudine, musica e provocazione. Lo stesso, ora è qui in suolo russo, in rilievo sulla mia tela di dubbi. Nell’irresolutezza torno in Italia e il “cantore a cavallo sul crinale dell’Appennino tosco-emiliano”, nel vezzo di questa mia definizione, resta mestamente insieme alla mia incompletezza. Termina il tempo del viaggio e la forza delle associazioni improvvise perde la sua veemenza. Ma quel nome, che dalla giovinezza mi porto prima a San Pietroburgo e poi tra gli spigoli della mia casa, continua a tornare.
Giovanni Lindo Ferretti, effigie delle mie giovani scorribande, simbolo musicale del grande e unico vero punk rock italiano degli anni ’80, continua a indugiare sul mio capo. Dopo aver seguito, seppur da lontano, la sua opera equestre SAGA, Il canto dei canti, comprendo infine il verso che mi spinge a contattarlo. La preoccupazione e in seguito l’auspicio ricadono sulla modalità di una conversazione, dialogo che abbiamo provato a stabilire e fecondare da una distanza solo spaziale. Studio una serie di domande, sono tante e devo rispettare il limite per non fare di un articolo un libro. All’anelato arrivo delle risposte, tutto prende a muoversi; le mie domande perdono l’aspetto formale e si disperdono nella conversazione. La mia casa si mette a perdere qualche spigolo. Nelle prime parole di Giovanni Lindo Ferretti, si scioglie la prima brina di conoscenza tra Roma e Cerreto Alpi:
Della difficoltà di trasformare un’intervista con domande e risposte scritte in un conversare. La conversazione si modifica, nel farsi, per empatia. Salta avanti, indietro a lato, ha una propria forza oggettiva. Deve essere un piacere. Quando ho letto la lettera, le domande, ho pensato: bene, bello. Sarà interessante. La quotidianità ha rimandato da un giorno all’altro il momento della scrittura, ora è arrivato. Il 30 novembre. Un incontro di lavoro, inimmaginabile due settimane fa, a cui prima controvoglia poi sempre più con interesse e coinvolgimento, mi sono dovuto preparare. Può nascerne una progettualità che modificherebbe l’operare della Fondazione, del teatro barbarico, del nostro vivere quotidiano. Tutta la nostra storia, sei anni di libera Compagnia di uomini, cavalli e montagne non è che un continuo reagire alle difficoltà, all’imprevisto. L’attenzione all’accadere, lo sguardo allertato, sostengono la consapevolezza che la nostra sopravvivenza è a rischio e il rischio va affrontato. Oggi, I° dicembre, comincio a preparare l’intervento che presenterò il 15 a Roma. Non c’è niente da inventare si tratta di fare ordine, sistematizzare e rendere comunicabile, forse condivisibile, un segmento di vita vissuta che inizia su un palcoscenico avanguardista e si ritrova, oltre 30 anni dopo, in una stalla, tra una frana e un viadotto, a custodire e salvaguardare un sapere arcaico, un paesaggio storico e geografico. Un’idea antropologica di civiltà. E, ringrazio il Cielo, non vorrei essere che qui, in questa incerta ora. Ci sono sempre mille cose da fare con un vecchio zio in casa (90 anni compiuti bene) venti cavalli nella stalla e cinque cani, tutto l’indotto lavorativo, economico, culturale e sociale che li sostiene e ci concede una forma austera e primitiva di sopravvivenza. Intorno due piccoli paesi, due comunità con le loro dinamiche, e l’inverno che sta arrivando. Una febbre stagionale è venuta in soccorso, porta un carico di malessere fisiologico che mi impedisce al lavoro e mi concede lunghe ore al caldo, tra la stufa incandescente e una finestra volta al tramonto. Poche giornate praticamente provvidenziali, il leggero svanimento galleggiante, da febbre alta contenuta da farmaci, può aiutarmi nel compito di riordino e composizione. Almeno lo spero.
La prima impressione è certamente di sospensione, di qualcosa che vive origini molto lontane, di lavoro, di vita vera, il tutto scevro da ogni vano ingarbuglio mentale. Groviglio che non mi passa dal pensiero e si distende con un po’ di pudore, nell’affrontare le prime domande. Solo una sottolineatura: dal vuoto sacrale di San Pietroburgo, alla “mancanza” di Carmelo Bene, giungo all’idea e all’uomo Giovanni Lindo Ferretti per il tramite di un’immagine di completezza che rappresenta nella mia mente. Questioni si accorpano insieme per dar filo, luogo ed empatia a questa conversazione.
Quanto la consapevolezza di una mancanza si fa tensione verso la volontà di un possibile completamento o, al contrario quanto effettivamente si cristallizzi nell’accettazione? E nell’accettazione o nella tensione, il suo percorso di vita lo legherebbe più all’immagine di una linea retta o alla figura di un cerchio, associabile a un eterno ritorno: dalle scuole cattoliche sino al rientro nella propria comunità dove si è in parte cresciuti, allontanati e infine riaccolti?
Che io possa rappresentare “un’idea di completezza” mi fa sorridere e mi mette di buon umore. Io sono una parzialità fatta persona che rivendica i propri limiti: montano, italico, cattolico romano. Barbarico, extraurbano. Sono successe molte cose nella mia vita e la memoria seleziona i ricordi funzionali ad un nuovo equilibrio vitale che a volte stenta, vacilla, tra necessità, oblio, e senso dell’accadere. La sua esperienza nella cattedrale dei Santi Pietro e Paolo mi offre il giusto spiraglio. La prima volta che sono entrato in una chiesa ortodossa ero un giovane universitario in viaggio verso la Grecia. In Jugoslavia, oggi Serbia. È stato il buio, il profumo di incenso, sono state le candele a mazzi e la gestualità rituale dei fedeli a segnalarmi una mancanza, subito rimossa, nel mio vivere quotidiano. La stessa sensazione ma amplificata, da stordirmi, dieci anni dopo nell’URSS appena prima del crollo. Un fermento germinale nell’ombra, da catacomba già risalita in superficie e in attesa di spalancare le sue sante porte. Ma sono state le solenni celebrazioni nella riedificata basilica del Cristo Salvatore a Mosca, nella Russia post sovietica, a farmi comprendere oltre ogni ragionevole dubbio che la mancanza del senso del sacro, dell’eterno, come dimensione sociale pubblica, sarebbe risultata nel breve termine un enorme problema sempre più insolubile. Un intero mondo si struttura in funzione della fine della Storia, vanificando la geografia, in un orizzonte di libertà virtuale. Una bolla, fluttuante in tabula rasa, determinata dalla finanza. Auguri.
Nel canto liturgico degli Ortodossi la potenza del Regno dei Cieli, separato ma contiguo all’esperienza quotidiana, si manifesta nel suo splendore. Tremore e timore. Legame. Fuoriesce dalla dimensione più carnale del maschile, impasto di bassi profondi. Viscere su viscere. L’entrata del coro femminile, centellinata con parsimonia, corrisponde all’irruzione del divino: cristallina purezza e alterità. La femminilità è la componente del divino meno considerata eppure è al femminile che è concesso il dono di generare. Bisognerà pur farsene ragione. L’impoverimento dell’esperienza liturgica, che l’Ortodossia comincia ad evidenziare come vera e propria mancanza, denota lo scadere della dimensione religiosa alla sola componente morale. Buoni sentimenti che aspirano alla perfezione in spazio intimo, impalpabile, avulso dal reale in cui il male vive e spesso regna. Ma il male vive anche dentro di noi, intorno a noi, ne siamo impastati. La liturgia lo contiene e lo combatte. È lo spazio del sacro in cui il bene è sovrano e grazie al rito perdona, purifica, rigenera, fortifica. La riduzione della liturgia alla sola parola, nel protestantesimo, e il suo repentino affievolirsi nel mondo cattolico, puntellata qua e là da sacerdoti santi che celebrano in comunione di santità il mistero divino, e da monaci e monache oranti nel servizio divino, da che mi è stata evidente, ha contribuito a mutare poi consolidare, sempre più profondamente, il mio sguardo sul mondo (esiste una sconfitta pari al venire corroso che non ho scelto io ma è dell’epoca in cui vivo). Il pensiero politico sociale della mia maturità, piccolo parziale non autosufficiente ma per niente debole, scaturisce anche da questa mancanza ingombrante. (Per quello che ho visto, per quello che ho sentito, per sconcertante necessità).
L’altra “mancanza” da cui, una volta evidenziata, tutto consegue, riguarda me nello specifico e una quota largamente minoritaria dell’umanità. Montanari, allevatori, pastori. Quest’anno ho lavorato con due giovani fotografe ad una ricerca sulla pastorizia, di ieri e di oggi. Mentre preparavamo la mostra ho riordinato pensieri molto pensati in poche frasi semplici e lineari. Valgono una vita. Siamo la prima generazione cresciuta sui banchi di scuola e invecchiata al riparo dalle intemperie. Senza animali, senza greggi, lontano dai pascoli. La maggior parte di noi l’ha vissuta come liberazione, affrancamento da un destino ingrato. Qualcuno, pochi, come quotidiana mancanza. Una servitù senza nome in casa d’altri. Non nell’archetipo, non nel simbolico, che solo a posteriori possono risultare significativi, ma nell’accadere, nel principio di contingenza. Nel mutare economico e sociale e nel farvi fronte. Bimbo arcaico, adolescente inquieto, giovanotto molto moderno inchiodato ad un ruolo prorompente, da un lato e dall’altro una mancanza che solo a posteriori, risolta, risulterà evidente. Non una linea retta, nemmeno la chiusura del cerchio, piuttosto il segmento di una spirale. Nello stesso spazio, lo stesso orizzonte, in un tempo altro e in altro modo.
Pensa che per trovare un equilibrio sia necessario perderlo? O ancora per trovare una dimensione è necessario infrangerla? Ovvero, solo distruggendo qualcosa dentro o fuori di noi (e il fuori è sempre un dentro) si è poi in grado di costruire? Senza un danno non accadono edificazioni? O possono avvenire indipendentemente da un elemento distruttivo? L’uomo deve necessariamente subire una scossa per offrirsi alla realizzazione del sé?
Nello scombussolare di prospettive e posizionamenti propri della giovinezza e di una indole personale accentuata, ho posto un freno all’errare cercando e trovando i cavalli. Stabilirmi nel ritorno, pacificare lo sguardo, la risalita alle terre alte dell’infanzia, è stato un lungo viaggio, a volte snervante. Mai pensato di tornare indietro, mai riuscito ad accelerare i tempi. In fondo alla Mongolia ho avuto la certezza del mio ritorno a casa ma ho dovuto guadagnarmi la libertà del pensiero politico e personale nella Jugoslavia frantumata dalle guerre. Sopra ogni cosa e nel giusto momento ho dovuto dedicare a mia madre gli anni della sua malattia. Esserle insieme figlio e padre. Lasciarci avvolgere e rigenerare dal maternale. Non avevamo potuto permettercelo, a suo tempo, travolti dalla disgrazia. Gettati nel mucchio e arrangiarsi. Una vita a salvare e riannodare fili invisibili. Tra un prima spezzato, non più componibile, e la speranza di un poi sempre più lontano e indefinibile. Finché il poi è arrivato e noi c’eravamo.
Ho comprato una cavallina, giovane e selvatica, poi risultata gravida, con i pochi soldi divisi alla fine dei CCCP. Mentre crollava il Muro di Berlino e l’URSS implodeva scoprivo una gestualità e un sapere di cui non ero consapevole. Genetico. Un gesto fatto a caso mi riportava allo stesso gesto fatto da qualcuno nella mia infanzia. Comparivano di colpo facce e corpi, tonalità e modi di dire, atteggiamenti. (Come fare non fare quando dove perché e ricordando). Da solo, sui monti con i cavalli, ogni giorno cresceva la mia compagnia. I morti sono indispensabili ai vivi. Sono aiuto e conforto. Ora ne sono certo: la democrazia o contempla i morti e i non ancora nati o diventa una dittatura della maggioranza. Le strade della libertà sono strette e disciplinate.
Per Carl Gustav Jung che diversamente da Freud contempla l’anima nei suoi studi, il cavallo, oltre la rappresentazione di un archetipo, figura come l’aspetto intuitivo della natura umana. Per lei cosa rappresenta nella vita e nella “Cerimonia del sé”? Le due cose, la vita e la cerimonia, nell’immagine del cavallo, sono indissolubili?
Su e giù per i crinali, in un paesaggio appena abbandonato dagli uomini e dagli animali domestici. Ancora camminabile e godibile, residuale di colture e cultura. Un prorompente inselvatichire lo faceva vibrare nel profondo punteggiandone la superficie. Vivevo in uno stato di leggera trance. Più contemporaneo ai miei vecchi, e a ritroso fino ai longobardi del millennio precedente, che ai miei estimatori e ai compaesani di oggi. Erano i cavalli, la loro presenza, la loro vicinanza a rendere possibile una vitalità che glorificava il mistero della vita. Niente in tutta l’esperienza di giovane moderno, né nella sua dimensione rivoltosa né in quella accomodante, aveva lo stesso impatto, permetteva tale coinvolgimento. Cinque anni di liceo non valevano l’attesa e la nascita del primo puledro. Quattro anni di università stentavano fronte alla doma dei primi cavalli. Tutta l’esperienza politica giovanile, assemblee e manifestazioni, idee e tensioni, svanivano nei pomeriggi a pascolare animali, allevare pensieri, tra terra e cielo nell’attesa della sera. Lentamente, avanti e indietro tra il contemporaneo e l’eterno finché l’eterno, nella forma del tradizionale, ha cominciato a selezionare, dividere e accorpare, ordinare. Rimediando i danni possibili e ricercando opportunità realistiche. (Tra ciò che abbiamo distrutto e ciò che non ci toccherà).
Il pensiero che aveva sostenuto l’acquisto del primo cavallo era semplice, fiducioso. I pochi ma significativi viaggi nel Maghreb, nel deserto, le città dell’Algeria, del Marocco. L’Europa. Parigi, Amsterdam, Berlino. Poco mondo latino e più mondo slavo. Le canzoni, i concerti, i dischi. Gli incontri. Lo straordinario era perfetto, non avrei saputo né potuto aspirare di meglio o altro. Era l’ordinario ad essere insoddisfacente. Una scansione del quotidiano sempre più insostenibile. Vanificata ogni dimensione naturale della giornata, il ciclo stagionale. Luce/buio, caldo/freddo, e gli intermedi. Inesistente la dimensione comunitaria. La differenza e la compassione. La libertà come dimensione generazionale: stessa età, gusti simili, comportamenti e aspirazioni omologati. In un tempo artificiale, illuminato/ riscaldato/ refrigerato tendente all’asettico anche quando sporco e zozzo. La musica unica pulsione vitale. Il generazionale come disagio sociale. Sì certo, anche bello ma un po’ limitato, limitativo. Doveva pur esserci dell’altro. Avere un cavallo avrebbe potuto scardinare l’artificiosità del mio vivere. Allontanarmi dalla città. Mi avrebbe portato in dono l’alba e obbligato al riposo notturno. Le stagioni, il tepore della stalla d’inverno e i pascoli estivi. Mi stavo perdendo qualcosa forse troppo e i cavalli, l’immagine più potente del mio immaginario arcaico e infantile, potevano essere il giusto tramite per avventurarmi in altro spazio e magari in altro tempo. Sono passati quasi trent’anni, non mi hanno mai deluso. Mi hanno rapito ed offerto uno spazio che se non eterno è storico e geografico. Continuo a pagare in preoccupazioni, fatiche, soldi, il prezzo del riscatto dal contemporaneo ma non vorrei essere che qui, in questa incerta ora.
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In merito al fatto di aver citato Jung, lei pensa che la fede possa convivere con la psicanalisi, o l’una esclude l’altra?
La fede può convivere con tutto ciò che è dell’uomo. Nel caso, più che escludere, vanifica l’insostenibile ed ingloba il restante. Può convivere con tutto ma non in tutti. Ad ognuno il suo. Tutto ha una propria ragion d’essere, trova riscontro nel Creatore, a cui compete il giudizio.
Qual è il primo libro di Papa Benedetto VXI che ha letto e cosa l’ha spinta a continuare nelle sue letture? Cosa ha trovato e conservato di Joseph Ratzinger?
Papa Benedetto XVI è, nella mia vita, un punto saldo. Segna un prima e un poi. Continua ad essere, nei suoi scritti, una scoperta. Copiosa fonte. Immagine rassicurante e consolante. La sua persona, la sua storia ecclesiastica. Un clamoroso inatteso gesto di rinuncia. Ne risulta, credo, un vero e proprio cambio di paradigma nella storia della Chiesa.
Il cattolicesimo ha dato concretezza al suo idealismo?
Il cattolicesimo in cui sono stato allevato ed educato e a cui sono tornato è molto concreto, pratica la devozione, necessita del rito. È la tradizione. Due millenni di storia e cultura. Quanto di più lontano da un idealismo che tendo ad assimilare al protestantesimo e alla modernità.
La donna nel suo libro Reduce è la fotografia di una donna forte. Non nell’accezione contemporanea di indipendenza, ma quasi di femminea virilità. Come vi fosse una lirica della custode del focolare. Mostra in tal senso quasi la distruzione di un cliché dove la donna smette di rappresentare la dolcezza, la fragilità, finanche l’abnegazione, in favore di una creatura bella nella forza.
Sono cresciuto tra donne forti e belle, ho sempre frequentato donne belle e forti. La prima descrizione delle nostre terre e dei nostri avi ce la fornisce lo storico greco Diodoro Siculo, al seguito delle legioni romane, “in queste angustie hanno la partecipazione delle donne abituate al pari degli uomini “. Non so d’altro, se esiste avrà il suo perché, non mi interessa.
I suoi affetti e amici, dal Ferretti dei CCCP a oggi, sono gli stessi? Qualcuno l’ha perso proprio in virtù del suo percorso?
Esistevo anche prima della mia pubblica immagine. Gli amici dell’infanzia, dell’adolescenza, sono passati indenni attraverso l’età del palcoscenico. Qualche amicizia risale a quegli anni. Molti sono i conoscenti, anche buoni conoscenti, tra il prima il durante e il dopo, ma gli amici sono pochi. Molto pochi e preziosi.
Un film, una canzone, un libro, una preghiera.
Giusto un mese fa mettendoci l’impegno necessario ho preparato una lista per Padre Maurizio. Cinque libri, cinque canzoni, cinque film, cinque poesie o brani. Lavoro molto gravoso, il discernere con giudizio. L’ho fatto perché me l’ha chiesto e a Lui obbedisco. Qui mi astengo. Recito il Pater Ave Gloria Requiem, De profundis e Miserere. Canto il Salve Regina e le litanie. Sono le stesse preghiere dei miei vecchi, le ho imparate da bimbo e ritrovate da grande. Di mio ho aggiunto Vieni Santo Spirito e una preghiera della tradizione copta: Re della Pace. Se sono confuso dagli accadimenti ecclesiastici, capita, recito il Credo, la professione di fede. A volte lo recito perché già nel senso/significato sta il piacere della parola, dizione, scansione.
Oggigiorno la solidarietà la vendono ovunque. Dal panettiere la trovi nel filone salato, dentro una ciriola e persino nella schiacciatina. Gli ingredienti non cambiano, muta la grandezza. La solidarietà la trovi pure dal sarto, un soprabito nero di solidarietà per i più solidali. Però puoi prenderti una gonna di taffetà e fratellanza oppure una blusa di seta e comunanza. Il mondo eccede in mostra di solidarietà. Insomma, la cronaca abbonda di umanità disumana nonostante la solidarietà sia un fiume in piena. E devi essere solidale con le donne! Quali? Le madri? Le single? Le zitelle? Insomma serve un bugiardino che dica quale pillola solidale prendere al momento giusto. Non importa, l’imperativo è la solidarietà anche con l’essere più distante. Nessuno prova niente per nessuno. Nondimeno è necessario manifestare in pubblico la contrizione per il malcapitato di turno. Ma la solidarietà è come la timidezza, dunque un’altezza posta nel respiro intimo di un battito silenzioso. La solidarietà non rumoreggia, lei.
Da mito, la musa prende a vivere dentro l’opera d’arte: sovrumanità indissolubilmente legata all’artista. È la presa invisibile che brandisce il pennello del pittore, l’inchiostro impercettibile che sospinge la penna dello scrittore. La spinta lavica dove il maschio artistico si fa madre, amante, amica in un imbracciare la femminilità che solo una dea ispiratrice può generare.
È il profumo dell’Heliconia a farsi sentinella di ogni opera d’arte. Il nome del fiore giunge direttamente dal monte Eliconia, luogo reso illustre dalla mitologia greca sulle muse: nove figure, figlie di Zeus e Mnemosine, denominate Eliconie nella “Teogonia” di Esiodo. Anticamente avvolte nell’arte della musica, guadagnano solennità nel tempo come custodi del grande gesto artistico. Attraversano lo spazio e il tempo in un perpetuo mutamento che, da seducente scrigno di arte, si fa volta d’ispirazione per numerosi artisti. Non vuoti manichini da ritrarre, ma femmine di Zefiro che nel soffio fecondano non una, ma molteplici Flora botticelliane in figure maschili. La musa, da mito prende vita dentro l’opera d’arte: sovrumanità indissolubilmente legata all’artista. È la presa invisibile che brandisce il pennello del pittore, l’inchiostro impercettibile che sospinge la penna dello scrittore. La spinta lavica dove il maschio artistico si fa madre, amante, amica in un imbracciare la femminilità che solo una dea ispiratrice può generare.
Calliope, Clio, Urania e le altre muse riemergono nel ‘900 nelle monumentali figure di Jeanne Hèbuterne, Elena Ivanovna Diakonova (Gala) e Marta Marzotto. Jeanne Hèbuterne interpretta i molteplici volti della disgraziata vita del pittore Amedeo Modigliani. Con l’appellativo “noix de coco” per i lunghi capelli e un volto che tratteggia la perfezione, Jeanne rappresenta la creatura che s’immola all’arte; una vocazione alla morte nella morsa di un mandato artistico tutto di Modì. Modì che è altresì maudit e, ancora, l’incontro con la musa Jeanne rappresenta l’esuberanza amorosa in assenza di argini. Noix de coco è l’empito creativo, la madre, l’amante e colei che nella morte dell’amato trova l’unico accomodamento alla vita attraverso la fine. Amedeo Modigliani muore il 24 gennaio 1920 di meningite tubercolotica. Jeanne Hèbuterne , al nono mese di gravidanza, rifiuta un’esistenza priva di Modì, lanciandosi da una finestra. Un volo che è feroce distacco e struggente ricongiungimento in quell’altrove che solo l’artista riesce a intende. Il pittore e la musa, la morte e la vita, l’eccesso e la quiete, ricongiunti in un’infinita e infausta opera d’arte. Per volere dei familiari della Hébuterne, del tutto contrari alla relazione vissuta con Modigliani, Jeanne viene tumulata nel museo parigino di Bagneaux. Solo nel 1930, i resti vengono posti accanto al suo “Dedo” nel cimitero di Père Lachaise. La commovente passione di Jeanne per Modì è tutta dentro la solennità di un epitaffio:
Devota compagna sino all’estremo sacrificio
E se il profumo dell’Heliconia agita la Parigi dei primi del ‘900, il suo elisir cosparge l’esistenza della musa delle muse: Gala Éluard Dalí. Divina del pittore dei pittori, Salvador Dalí, Gala è dapprima refolo illuminante per il poeta Paul Éluard e in seguito si fa fulgida musa per il re del Surrealismo. Salvador Dalí, tutto genio, follia e fragilità, si raccoglie in una resa: l’evidenza di un amore assoluto. Assolutismo passionale che si farà antidoto magico di ogni male:
Poteva essere la mia Gradiva (colei che avanza), la mia vittoria, la mia donna. Ma perché questo fosse possibile, bisognava che mi guarisse. E lei mi guarì, grazie alla potenza indomabile e insondabile del suo amore: la profondità di pensiero e la destrezza pratica di questo amore surclassarono i più ambiziosi metodi psicanalitici.
Gala è la musa, la solidità, lo slancio e l’apertura; la devozione del pittore spagnolo è tale da rappresentare una forma di insaziabile dipendenza affettiva. Alla morte di Gala, avvenuta nel 1982, l’afflato ispirato dell’artista, la seguirà nella sua fine, dissolvendosi in lei e con lei.
Ancora l’effluvio di Heliconia si allunga nell’aura di un’altra figura mitologica da poco scomparsa: Marta Marzotto. L’appuntamento incandescente con il pittore siciliano Renato Guttuso, accade inevitabilmente in una giornata di canicola romana; estate che nel clima e nei colori si farà metafora della loro passione. Lei modella sinuosa, da Vacondio si fa contessa Marzotto per rinascere in una Talia musa del Thallein, del fiore. E come bocciolo si schiude e scorre nell’opera dell’artista impegnato: il comunista e la contessa. Un amore rovente e contrastato, epifania del batticuore carnale fuori da qualsiasi sbozzatura.
All’interno di un’affermazione particolarmente abusata, attribuita a Virginia Woolf e riferita al detto latino Dotata animi mulier virum regit (una donna dotata di coraggio sostiene il marito), ossia Dietro ogni grande uomo c’è sempre una grande donna, si azzarda una rivisitazione del caso: Dietro un grande artista, c’è sempre una grande musa. Ispirazione fatta forma femminile, la figura mitologica della musa sfugge la fissità della leggenda per farsi vita vibrante nella creazione artistica. Jeanne, Gala e Marta non esprimono l’oggetto passivo dell’esecuzione artistica quanto il soggetto attivo del festeggiamento creativo. La dea ispiratrice, nell’avviarsi a quel percorso infinito, costeggia generi ed epoche diverse. Indugia nella letteratura, si fissa in un ascolto musicale per accomodarsi nel buio di un cinematografo. Elizabeth Craig per Louis-Ferdinand Céline, Pamela Courson per Jim Morrison o ancora Charlotte Gainsbourg per Lars von Trier, sono solo il primo passetto verso la volta infinita occupata dal profumo dell’Heliconia. Ma questo è un altro capitolo, bellissimo e inesauribile.
“Lou-Andreas Salome” by Confetta is licensed under CC BY-NC-SA 2.0
Fosti il sublime che mi ha benedetto.
E diventasti l’abisso che mi ha inghiottito.
(R.M. Rilke, 1910)
Incantevole esemplare di mantide intellettuale. Affastella liason per demolire uomini e resuscitarli nelle loro opere. Collezionista seriale di noti artisti e filosofi, lambisce conoscenza, brandendo sapere dalle carni maschili. Predatrice culturale, pianta al suo passaggio un campo di cuori malridotti. Un’aristocratica russa con un imperativo indosso: divenire se stessa. Transita nell’animo maschile alla maniera di un percorso precedentemente tracciato che porti a compimento la sua volontà di realizzazione. Capace di ammaliare qualunque creatura, un Casanova in fine gonnella, abdica a una seduzione specificamente femminile per divenire l’Übermensch nietzschiano, l’oltreuomo. Questo e molto altro è Lou Andreas Salomé (San Pietroburgo 1861 – Gottinga 1937), edace femme fatale che, nel sovvertimento di valori e tradizioni, forgia se stessa dentro l’immagine di un’archetipica…
Il nō giapponese rappresenta la forma più antica della cultura teatrale. Si tratta di un dramma lirico che si lega all’Occidente solo nel momento in cui il tratto letterario arriva a farsi più importante. La creazione esprime l’onda travolgente che va a circoscriversi nella forma di un cerchio, dove tutto torna dal passato per illuminare il presente e fissare un legame tra Oriente e Occidente. Il nō, in tale cerchio, passa da Ezra Pound a William Butler Yeats, che tenta di ammantarlo nella poesia per poi tornare a Yukio Mishima. Un accostamento dove l’antico si avvicenda all’istante e, in quel cerchio fecondato dall’onda, tutto si muove come l’attore giapponese: misurato e universale.
Incontri: nel cinema, è un onere, nonché un onore, poter riferire uno dei grandi rappresentanti della tradizione giapponese: Akira Kurosawa. Le pellicole del cineasta attraversano i secoli; dal periodo Heian di Rashomon sino ai richiami recenti, per quanto magici, di Sogni. Provenendo più a fondo nei viluppi dei costumi nipponici, la memoria letteraria va tutta nell’incontro lirico con Yukio Mishima.
Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! È bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! È il Giappone! È il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo.
Il suo nome, già legato a opere come Confessioni di una maschera, Colori Proibiti, Il padiglione d’oro, Sole e acciaio o La via del samurai, trascina ulteriormente nel cuore della cultura giapponese, fornendo il permesso di trattare una delle più antiche forme di teatro, risalendo sino al XIV secolo: il Nō. Una tradizione di trattati che, per ben cinque secoli, vengono trattenuti nel segreto di una memoria. Tesori che nei primi del ‘900 riemergono da un remotissimo paesaggio per narrare un patrimonio tutto giapponese: la cultura del teatro nō. Drammaturgia legata a colui che fu definito “lo Shakespeare giapponese”: Zeami Motokiyo, l’autore, che tra il 1300 e il 1400, figura come il custode di quasi tutto il repertorio nō. Nei paradigmi fissati da Zeami, l’attore gode di una notevole considerazione. Nel muoversi tra i quattro elementi previsti dal teatro, ossia la mimica, la poesia, la danza e la musica, l’artista nella fotografia del palco, svolge una funzione per quanto elitaria, particolarmente sociale. Il nō giapponese rappresenta la forma più antica della cultura teatrale. Si tratta di un dramma lirico che si lega all’Occidente solo nel momento in cui il tratto letterario arriva a farsi più importante. Sino a Zeami, il cardine dello spettacolo è nel canto e nella danza e, l’elaborato scritto, resta solo come un supporto dell’attore. Dopo l’arrivo di quello che può essere definito, se non l’iniziatore, ma il primo forziere di tale arte, lo schieramento avviene in favore del testo, poiché egli stesso è autore e poeta di rara fattura.
La rappresentazione del nō attrae nel proprio orizzonte diverse figure: lo shite, che recitando in maschera, disegna colui che presta il corpo alla danza, alla voce e al canto. Considerato il personaggio principale, si fissa nel ruolo in una definizione: “colui che fa, che agisce”. Nell’occupare tutto lo spazio, generalmente la sua interpretazione, è quella più articolata. Il ruolo secondario è individuabile nella figura del waki che sovente veste gli abiti di un monaco. La sua parte evolve nell’essere il primo a fare l’ingresso sulla scena. Narra il percorso che lo ha condotto sino a quel punto della rappresentazione e infine esce per restare nell’immobilità. Fissità che contempla un’unica eccezione: scongiurare la presenza di un demone. Altre figure, tra il tomo e lo tsure, che non vivono un’esistenza drammatica autonoma, rappresentano pressoché dei ciceroni dello shite e del waki. La loro funzione svolge un ruolo importante soprattutto per l’utilizzo della voce, una sottolineatura dunque, una vigorosa marcatura di tutto lo spettacolo. Nonostante il waki, una volta uscito dal palco, rimanga una presenza fissa e immobile, la sua mansione è importante nella misura in cui diviene la fiamma che arde l’ Universo. Ovvero una pressione che permette l’esistenza dello shite: la densità del silenzio conferisce corporeità e ragione agli accadimenti. Le ultime presenze del nō appartengono alla galleria dei kyōgen, coloro che scaricano la rappresentazione mediante una farsa. Disegnano un vero e proprio bisogno dello spettatore, che dopo il pressante impegno psichico domandato da tale dramma, si abbandona finalmente a una comicità più primitiva. Un intermezzo tra un nō e l’altro, porta gradualmente alla distensione.
Nel teatro, la tradizione del nō realizza la dimensione dell’attore inscindibile, completo, compiuto. Molta autorevole regia dell’Occidente, rappresentata da nomi quali Eugenio Barba, Gordon Craig e soprattutto Antonin Artaud, prendono dall’Oriente proprio l’inclinazione dell’attore al completamento. Rifinitura che non arriva nell’improvvisazione, ma attraverso una severa disciplina di esercizi che abbraccia l’individuo dai sette anni in poi. Sino ai tredici, l’attenzione viene posta sul tratto spontaneo, escludendo comunque quello della mimica. Dai tredici sino ai diciotto, l’interesse include anche l’aspetto vocale, seppur in divenire.
Quel fiore lì non è il fiore autentico, non è che il fiore di un momento
Dai diciotto anni in poi, l’attore arrivando da una vasta gamma di allenamenti, tende a ripiegarsi e a perdere audacia. Pertanto l’unico addestramento va nel verso di non lasciare il nō. Imparando ad ascoltare la raggiunta consapevolezza, a venticinque anni l’impegno inizia a produrre i propri frutti. La parabola ascendente continua sino ai trentacinque. La percezione della sapienza attoriale deve necessariamente provenire anche da una benedizione pubblica. Dai quarantacinque in poi, pur nella cognizione di una consacrazione universale, il fiore può iniziare la sua opera di scomparsa o chiedere l’aiuto di un comprimario. Dunque l’attore del teatro nō, non disegna il talento singolo di tipica ascendenza occidentale o il frutto di qualche anno accademico, al contrario riveste un voto, una vera e propria consacrazione all’arte.
In nome della luce che germoglia da tale figura, accade l’incontro definitivo tra Oriente e Occidente. Ernest Fenollosa, un orientalista statunitense, nell’’800 decide di farsi allievo di un importante attore nō, Umewaka Minoru, con il fine di tornare in patria e rendere l’Oriente più accessibile all’Occidente. Dopo la sua morte, lascia una considerevole mole di scritti sulla cultura giapponese, annotazioni, osservazioni e poesie che la moglie Mary McNeill offre al poeta Ezra Pound:
Lei sarà la persona che pubblicherà i manoscritti di mio marito
Nel 1916 Ezra Pound pubblica i testi di quindici nō con l’aggiunta delle note di Fenollosa. Quanto le arti e non solo l’attore, consacrano il raggiungimento della completezza, è dimostrato da un continuo dialogo tra la musica, la danza, la letteratura e il teatro. La creazione esprime l’onda travolgente che va a circoscriversi nella forma di un cerchio, dove tutto torna dal passato per illuminare il presente e fissare un legame tra Oriente e Occidente. Un’allegoria convessa, sgombra da durezze, dove tutto diventa altro pur non perdendo la propria identità. Il nō, in tale cerchio, passa da Ezra Pound a William Butler Yeats che tenta di ammantarlo nella poesia per poi tornare a Yukio Mishima.
Tra il 1950 e il 1955 Yukio Mishima scrive cinque nō moderni, pièces per continuare a elargire storia e vita a una lunghissima tradizione. La missione dello scrittore si realizza nel rendere più accessibile l’accostamento ai testi tradizionali senza sottrarre il contenuto originale. Se il nō descrive la più antica forma di teatro giapponese, è pensabile che nel tempo si comporti come un notevole collante di eterogenee modalità di pensiero e vita. Un avvicinamento dove l’antico si avvicenda all’istante e in quel cerchio fecondato dall’onda, tutto si muove come l’attore giapponese: misurato e universale.
Quando avrete perfettamente capito il principio dell’incanto sottile comprenderete, per ciò stesso, che cosa sia la potenza.
Ad allestire la scena per un incontro giocato nelle stanze anguste della grande oscurità interviene il produttore e autore francese Raymond Eger. Nel 1968 esce Histoires Extraordinaires. Tre passi nel delirio, film collettivo nel quale il fil noir affonda le radici nel creatore del tale of terror, Edgar Allan Poe.
Per girare i tre episodi, Eger interpella i registi Roger Vadim, Louis Malle e Federico Fellini. Mai scommettere la testa con il diavolo è il racconto che ispira l’episodio del cineasta romagnolo, dal titolo Toby Dammit. È girato del tutto in notturna, modalità che permette una vera e propria epifania della visione di un sogno angoscioso quanto la vita. Ça va sans dire: l’esistenza è un incubo.
Toby Dammit, protagonista del racconto scritto da Poe nel 1841, giunge nella Roma felliniana – ancora una volta più felliniana che romana – per stabilire la prepotenza di una vocazione: la vocazione alla morte. La città è parte integrante del progetto mortuario poiché è nel suo grembo che l’uomo acquisisce la certezza di offrirsi alla morte. La Roma di Dammit è del tutto indifferente al suo dolore, lo accoglie e lo scruta da lontano, non vi partecipa se non come mera spettatrice.
Roma è una madre, ed è la madre ideale perché indifferente. È una madre che ha troppi figli, e quindi non può dedicarsi a te, non ti chiede nulla, non si aspetta niente. Ti accoglie quando vieni, ti lascia andare quando vai, come il tribunale di Kafka.
È d’uopo precisare che il rapporto di Fellini con il racconto di Poe appare del tutto alterato dall’esorbitante fantasia del regista. Forse un’occasione mancata per stabilire un’empatia artistica o forse un’occasione per tracimare: un incontro può dirsi mancato quando il regista decide di mostrarsi senza lasciare pertugi a un’ipotetica ispirazione letteraria; lo stesso incontro può definirsi riuscito nell’atteggiamento inverso, quando il regista si slega dall’opera di partenza e ne inventa un’altra.
Questo accade in parte con Toby Dammit . Fellini abbandona un approccio tipico della grande città per riprendere la sua origine provinciale, costruendo daccapo un racconto che ha poco da spartire con quello dello scrittore di Boston. Si tratta di un piccolo accostamento, limitato ai confini tracciabili di un borgo e non alla dispersione cittadina. Lo stesso Fellini dichiarerà di aver letto Mai scommettere la testa con il diavolo soltanto durante le riprese. La sensazione è infatti quella di una modesta appropriazione, il regista prende pochissimi elementi per riscrivere la narrazione e farla propria, realizzando la sua personalissima profezia artistica: lo stile, le tematiche, l’atmosfera di Toby Dammit sono elementi che torneranno assiduamente nelle opere successive.
Le luci torneranno a farsi illuminazione claustrofobica nel seguente Satyricon, dove il giallo che fuoriesce dall’oscurità di Dammit si farà cupo richiamo del destino di una certa umanità, divisa da colori che riescono nell’operazione di essere foschi e accesi allo stesso tempo.
La presenza di suore e preti, già sperimentata nelle opere precedenti e qui rimarcata, nel successivo Roma (1972) diventerà défilé; un passaggio che, nella mostra della sfilata, si arresta per immobilizzarsi e infine divenire uno degli elementi ricorrenti, sino alla ripetizione quasi ossessiva.
I lavori in corso sfiorati in Dammit simboleggiano l’imminenza del presente, dunque l’ineluttabilità di un avvento, quello della modernità, a fiaccare le esistenze del prefetto Gonnella e di Ivo Salvini nell’ultima pellicola del regista, La voce della luna.
La nebbia che avvolge Toby nella corsa verso la morte tornerà con prepotenza a bordo della macchina che sfreccia nel buio sulla quale viaggiano Snaporaz e una rappresentanza di donne, e aggiungerà in questo caso un chiaro riferimento cinematografico: il Kubrick di Arancia meccanica nella nota sequenza dei Drughi in notturna a bordo di un veicolo diretto alla villa degli Alexander. In tale personalizzazione del racconto, la pellicola felliniana sino al midollo, lontana, almeno in questi elementi ricorrenti, dalla suspence di Edgar Allan Poe. Fin qui l’incontro volutamente mancato.
Esiste poi una zona in cui Fellini raccoglie l’invito di Poe a farsi autentico narratore dell’orrore. In Tre passi nel delirio, Toby Dammit è un attore sul viale del tramonto della cinematografia, l’immagine di una profonda disperazione trainata dal vizio dell’alcol e dall’uso di droghe. Si reca a Roma per girare un film, il primo “western cattolico”, conoscere il regista e guidare una Ferrari, il suo cachet per la parte, la sua orsa tra le braccia della morte. Il protagonista, interpretato da un grandissimo Terrence Stamp, è l’effigie più che solenne del dramma dell’esistenza.
La fotografia asfissiante disegna l’assenza di alcuna possibilità di salvezza, e proprio qui accade che il regista si presti all’ascolto del grande enigma di Poe: il tema del male. Il male per lo scrittore conquista la supremazia sul bene senza lotta alcuna, non esiste battaglia tra il bene e il male poiché questo si prende tutto lo spazio e il tempo.
La corsa del Toby filmico e di quello letterario incarna l’accetazione del diavolo come creatura sovrana dell’umanità. Dammit nel film, come Poe nella vita, non crede in dio ma solo nella vita del demonio. Fellini veste il male attribuendogli le sembianze di una fanciulla bionda il cui richiamo è rappresentato da una sfera bianca; in Poe il diavolo è un anziano signore. Il film perde la suspense del racconto ma guadagna nella resa perfetta della disperazione scritta nel volto allucinato di Terence Stamp.
Antonioni aveva licenziato Terencino per Blow-up e l’attore continuava a restare a Roma, in attesa della sua prossima opportunità. Io e Bernardino Zapponi avevamo appena finito la sceneggiatura di Toby Dammit e, per caso, qualcuno mi dette una foto di Stamp con quella sua straordinaria e angelica faccia profondamente decadente: il perfetto dandy perdente, la rock star dionisiaca, l’aristocratico alcolizzato imputridito dall’interno tuttora capace di esercitare il suo monumentale fascino biondo. Sa, qualcuno che potessi identificare con il mio alter ego. Convenimmo d’incontrarci e lo scelsi subito. Un giorno, durante le riprese, mi stavo tagliando i capelli quando Antonioni entrò e si sedette sulla poltrona da barbiere vicino alla mia. “Ho sentito che lavori con Stamp”, disse, “Condoglianze”. “Grazie mille, Michelangelo,” Risposi. “Grazie a te, ho scoperto un genio”.
Estratto da Edificio Fellini. Anime e corpi di Federico
Figlio disilluso della grande madre società, vive con forte senso critico un apparato nel quale si accomoda per eccellere. La sua analisi, in un’ambivalenza mai celata, subisce gli effetti di un’ironia salvifica. Ed è proprio attraverso tale supporto che la critica alla collettività, in Warhol, si sposta su toni elusivi e spesso incerti.
Uno degli artisti più dibattuti del ‘900, colui che converte i fatali quindici minuti di celebrità, spettanti a ogni essere umano, in una vita intera, la sua. La notorietà, dentro una frenesia tutta artistica, si avviluppa insieme al suo creatore in un mito vivente. Divo dell’arte, alimenta la propria fama nell’atto di deificare altre divinità: Andy Warhol, artista completo e complesso, sovrano di un movimento che ha sede nella Pop Art. La corrente nasce negli Stai Uniti intorno alla metà degli anni ’50, celebra l’appuntamento tra l’arte e l’oggetto consumistico festeggiato dai mass media. Oltre i nomi di Claes Oldenburg, Tom Wesselmann, James Rosenquist, Roy Lichtenstein, troneggia su tutti quello di Andy Warhol. La sua immagine interpreta, anche per delle peculiarità estetiche – dumb blond – la fotografia dell’evanescenza.
«Recentemente alcune aziende si sono mostrate interessate a comprare la mia “aura”. Non volevano i miei prodotti, non facevano che dirmi: “Vogliamo la tua aura”. Non ho mai capito cosa volessero. Ma erano disposti a pagare un sacco di soldi. Ho pensato allora che se qualcuno era disposto a tirare fuori tanti soldi avrei dovuto cercare di capire cosa fosse. Penso che l’aura sia qualcosa che solo gli altri possono vedere, e ne vedono solo quel tanto che vogliono vedere. Sta negli occhi altrui». Il rimando di una percezione; qualcuno che è nel proprio tempo, ma lo indaga da lontano: un’assenza presente. Nella singolarità di essersi attribuito un nome e nella farsesca discrezione nei rapporti con la stampa, risiedono le importanti contraddizioni di colui che domanda luce nell’atto di eclissarsi: la commedia di apparire a sua insaputa. Un’andatura colmata da numerosi scritti, aforismi, pensieri e due libri autobiografici. Incline al presenzialismo mondano, sovente per vezzo, si lascia surrogare da un sosia. Episodio che contempla persino l’occasione del galà per il suo primo film come regista: The Chelsea Girls. Il riconoscimento per Warhol va nel verso di considerevoli innovazioni. Con Warhol, l’immagine dell’artista, cessa di essere quella di un bohémien di ascendenza maudit con l’anima e il cuore dentro l’atto creativo. Al contrario, indossa gli abiti del business man. L’arte non è necessariamente associata alla tela di una malagiata soffitta parigina o newyorchese. La creazione, dal primo afflato di una pennellata, sino all’ultimo marchio di una compravendita, non si dissocia dall’inevitabile circuito monetario. Warhol sdazia la fotografia dell’artista indigente e maledetto in favore di un creatore danaroso, e sì, ancora dannato. È pensabile dipingere nella difficoltà di una piccola stamberga o in un fosco seminterrato, ma, qualora possibile, perché non farlo da un elegante loft di Manhattan?
«I soldi sono per me il momento. I soldi sono il mio umore». La più rilevante innovazione è nei soggetti della sua arte. La star, mediante il tocco fotografico o serigrafico di Warhol, entra di diritto nell’eternità. Uno spazio accessibile con i caratteri del sociale, un’altezza non solo vagheggiata, ma di fatto conseguibile. La notorietà perde la solennità e si accomoda nei salotti della popolarità. Poco importa se in questa New York del trapasso tra gli anni ’50 e ’60, l’estetica commerciale venga discussa come disdicevole. Warhol è troppo nell’empirico per un adeguamento alla corrente dell’Espressionismo Astratto del periodo. Marilyn Monroe rappresenta il grande magnete del suo lavoro. Diva tra le dive, bella tra le belle, si fissa sull’eminenza della Pop Art come il modello principe: l’attrice veste l’abito “warholiano” dello spirito, sì eterno, ma raggiungibile. «Talvolta penso che la bellezza estrema dovrebbe essere assolutamente priva di humor. Poi penso a Marilyn Monroe: le migliori battute erano le sue. Avrebbe potuto essere divertentissima, se solo avesse trovato il posto giusto nel mondo della commedia». Marilyn è anche proiezione, proiezione di Warhol: ambedue dal nulla al tutto, dall’indigenza alla celebrità. La diva figura lo scatto della donna con il fardello indosso: dall’infanzia complessa sino all’ascesa di icona erotica; il desiderio dell’umanità è biondo. Vicino, il trono di un altro divo che si fascia nel medesimo percorso: Elvis Presley. Andy, Marilyn ed Elvis esprimono il tanto decantato sogno americano. L’America – dove Warhol giunge a diciotto anni – è quel posto dove tutto può accadere. E accade che il camionista Presley evolve nell’icona capace di scatenare scene di isteria collettiva, la bambina Norma Jeane Baker incede prima in Marilyn e poi nel desiderio di una intera Nazione. Warhol li consegna all’eternità, un’eternità accessibile; li umanizza nell’oltremondano. Da un lato descrivono i simboli di uno Stato e dall’altro, quello più intimo, disegnano la proiezione di una psiche, figlia di un immigrato minatore, che percorre le stesse strade impervie. L’elemento che permette all’artista newyorkese una visione diversa e paradossalmente più acuta, è lo sguardo lontano di chi non nasce a New York. La Grande Mela diviene nella sua mente un curioso oggetto di osservazione, una sorta di prodotto da investire nel ventre fervido della sua arte. Le origini slovacche decidono il suo sguardo sul mondo, quello di un fanciullo al cospetto delle prime sollecitazioni di un cosmo fatato. Un flâneur a stelle e strisce per il quale il passeggio è già creazione. Il rinnovamento in Warhol è anche nel gesto di una grande mutazione: trasformare un’antinomia dell’arte in oggetto d’arte. Se un bene di consumo disegna il prodotto più lontano dall’opera, Warhol lo sveste del fattore avverso, trainandolo difilato all’interno dell’atto creativo.
«Io amo tutti i movimenti di liberazione perché dopo la liberazione le cose da mistiche si trasformano in comprensibili e noiose, e allora nessuno si sente più tagliato fuori se non prende parte a ciò che sta accadendo» È la minuziosa attenzione al reale a permettere un capovolgimento dell’accadere. Simbolica l’operazione compiuta sulla scatola di minestra Campbell: l’oggetto prettamente consumistico finisce insieme a Marilyn, Liz ed Elvis nell’Olimpo degli dei. Warhol si cala nel Bronx con il solo fine dell’ascesa in una dimensione che non domandi divisioni di classe o quartiere. Nel suo lungo cammino dentro l’arte, alcune serigrafie, occupano un posto di particolare rilievo; in modo traslato si volgono alla morte. La suggeriscono senza nominarla; così la sedia elettrica e i diversi ritratti – tredici – di pericolosi ricercati dalla legge. Warhol, ritraendo suggestioni che evocano la fine, si mette in condizione di conoscerla. «È incredibile quanta gente appende nella propria camera da letto un quadro raffigurante la sedia elettrica, soprattutto quando i colori del dipinto sono uguali a quelli delle tende». Un artista completo, sollecitato da Marilyn, approdato a Mao e giunto sino ai Rolling Stones. Tuttavia, il “dumb blond” non dimentica l’opera dei grandi maestri. Il Rinascimento feconda nel re della Pop Art, la rivisitazione di alcuni baluardi del periodo: San Giorgio e il drago di Paolo Uccello, l’Annunciazione e l’Ultima cena di Leonardo da Vinci. Andy Warhol è pensabile come una sorta di timoniere che attraversa la realtà con tutto il suo peso e giunge a una dimensione ultraterrena nel paradosso del commerciale e consumistico: l’arte è un congegno in grado di segnare e nel mentre svegliare la coscienza sociale. Un pop apparato che spalanca gli occhi di tutti su tutto. «Guadagnare denaro è arte; lavorare è arte; e fare affari è l’arte per eccellenza».
È dentro voci come eccentrico, esorbitante, visionario e impressionante che si possono racchiudere i tratti delle pellicole di uno dei più grandi cineasti novecenteschi: Orson Welles. La sua vita si interrompe a settanta anni per un attacco cardiaco. Il cinema, sin da subito, si rende conto di aver perso una figura geniale della settima arte. Di corporatura robusta fin dalla giovane età, contraddistinto da una presenza autorevole per un 1,87 di altezza, trascina all’interno delle sue opere una mole generosa di dettagli, sino a generare atmosfere asfittiche. Convinto che il cinema rappresenti qualcosa di esanime, fa del suo lavoro un potenziamento vigoroso al confine, non tanto invalicabile, con il barocco. Welles tenta, mediante il tocco ridondante, un’indagine meticolosa sul personaggio.
Gli ambienti riprodotti dalla macchina da presa figurano un’ulteriore incremento all’immagine attoriale e al fattore drammatico della realtà. L’individuo e il mondo abitato rappresentano una sorta di specchio opaco, poiché un filtro si rende necessario all’alterazione del materiale trattato. In letteratura si chiederebbe un prestito per la definizione, vale a dire l’uso del discorso indiretto per delineare il linguaggio del suo cinema. Per il timore di restare incastonato nella faciloneria, di fatto, il regista non osa nella luce troppo semplice della trasparenza. Pertanto si affida agli elementi barocchi, all’eccesso di orpello, con il fine di restituire un’indiscutibile grandiosità. Solo grazie al monumentale può giungere alla minuzia. Gli oggetti, l’ambientazione e i personaggi rappresentano entità simboliche che rinviano alla zona occupata dalla metafora.
Io credo pensando ai miei film che siano imperniati non tanto sul conseguimento di qualcosa, ma piuttosto sulla ricerca. Se noi cerchiamo qualcosa, il labirinto è il posto più adatto alla ricerca. Non so perché, ma i miei film sono tutti in gran parte una ricerca fisica.
E tale labirinto, il regista lo edifica proprio attraverso l’allegoria e la metafora di un eccesso di cose, pronte a immolarsi nel simbolo per un’analisi della società. L’opera di Welles non va posizionata nel genere che contempla l’evidenza del primo motivo sullo schermo. La sua firma è in una cinematografia che trascende la realtà per come si presenta, abdica in favore di un ammasso di materiale che permette l’alterazione del primo approccio, quello diretto. Il presunto barocco di Welles è irrealistico, poiché il fine è nel porre dei conflitti che valicano la semplice presentazione dei fatti e dei luoghi. La sua posizione è apertamente in antitesi al Neorealismo. Dilatare la realtà con il solo fine di comprenderla.
Nasce nel Wisconsin a Kenosha nel 1915, sin da piccolo campeggia per le sue facoltà e per interessi che spaziano tra la letteratura e il teatro. Nel 1931 è già attore professionista e debutta al Gate Theatre di Dublino. Ma il suo nome sconcerta l’America nel 1938; alle otto di sera di un ottobre qualunque, la sua voce alla radio CBS, per un’intera ora si annoda sulla cronaca di una finzione: un’impellente invasione aliena sta per calare sugli Stati Uniti d’America. La narrazione cronachistica, di fatto, si basa sulla Guerra dei mondi, un romanzo di H.G. Wells. Il suo mito è già vivente e si rivela nella prima occasione cinematografica con il film che lo colloca tra i più grandi registi di Hollywood: Citizen Kane – Quarto Potere. Regista e protagonista della pellicola, dispiega la trama intorno a una parola: Rosebud. Il termine viene pronunciato in fin di vita dal magnate della stampa Charles Foster Kane nel castello di Xanadu. Rosebud è una donna, un luogo, un segreto, un misfatto? Si brancola nel buio. Un giornalista prende l’incarico di svelare l’enigma. Tra flashback e incursioni nel presente, la bobina riavvolge la vita di Kane sino alla scoperta del bandolo della matassa. Rosebud è il nome inciso sullo slittino della sua infanzia: una confessione nostalgica al termine della vita. Il ricordo, risulta ancor più struggente se si pensa che all’epoca del film, Welles aveva solo venticinque anni.
L’estetica cinematografica trova, in questo primo film e negli altri a seguire, un posto d’eccezione: attraverso grandangoli, riprese dal basso, campi lunghi e la preziosa collaborazione dell’operatore Gregg Toland, il film si lega all’Espressionismo, non trascurando taluni classici del cinema muto. Orson Welles gira altri tredici film, tra i quali La signora di Shanghai, Macbeth, Otello, L’infernale Quinlan, ma la sua risonanza rimane legata a Citizen Kane. L’imperativo si sintetizza sempre nella stessa modalità:
Arricchire il più possibile lo schermo, perché il film in se stesso è una cosa morta.
Nell’Olimpo di Hollywood troneggia con la sua monumentale corporeità e l’epica maestria adoperata nell’uso della macchina da presa, ma innanzitutto come colui che nella piega debordante, inserisce l’individuo al centro di un doppio verso: il bene e il male. L’uomo è inquinabile e corruttibile da molteplici fattori, parimenti risulta una creatura vulnerabile e fragile. Si tratta di un romanticismo portato all’estremo che Welles, pur dalle effimere colline dello Star System, porta magistralmente a compimento.
Hollywood è un quartiere dorato, adatto ai giocatori di golf, ai giardinieri, a vari tipi di uomini mediocri e ai cinematografi soddisfatti. Io non sono nulla di tutto ciò.
Ed è proprio in tale dissonanza che l’artista trova il proprio nutrimento: Welles giganteggia su tutti. Fosse anche il quarto, il suo è il più autorevole: Citizen Kane – Quarto Potere.
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