
Recalcitro come una cavalla in piena doma. Nego l’intervista. L’intervistatore nega il rifiuto. Il rifiuto è il piccolo gesto della grande timidezza. L’intervistatore crede alla livrea di pavone. Decorata? Spaventata, si dice. Smarrita, pure. In favor di camera si spezza il fiato come sulle altezze. La timidezza è un’altezza. Non da scalare. Da abbracciare, forse. Non ho ruote da mostrare. Non ho vanti da vantare. Ho limiti da comprendere. O non comprendere. Ma la coda non so farla. La timidezza è fattura fuori moda. Ci devi essere anche quando non vuoi. Eh, ma non senti l’allettamento? No, mi vergogno (non dico). Penso al balbettare. Alla parola spezzata da una fantastica altezza. Perché immaginaria. Ma tanto fantastica quanto l’altezza e il fiato spezzato. Se non ci sei non sei. Posso esserci anche non essendo in favor? La timidezza è una tavola liturgica posta nel garbo della mia creatura. Reclama credenti in un mondo di oscurità psichedelica. Non essendoci, continuo a essere.