Confessioni di un cantore a cavallo sul crinale dell’Appennino tosco-emiliano: Giovanni Lindo Ferretti

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Da un viaggio dello scorso luglio ne parte un altro, metaforico quanto reale, in compagnia di un ospite di eccezione: Giovanni Lindo Ferretti. È un fosco pomeriggio estivo, assorta dal clima, mi trovo a San Pietroburgo all’interno della cattedrale dei Santi Pietro e Paolo. Come un’ombra, frastornata dal brusio di gruppi turistici, mi aggiro tra le tombe monumentali di marmo bianco tra i resti degli zar Romanov. Una curiosa sensazione di vuoto mi guida direttamente al cospetto e poi all’ascolto di un coro russo. Infine il silenzio, lo stesso che inaspettatamente mi riporta alla mia piccola realtà, tanto angusta da contenere ciononostante schiere di dubbi. La prima riflessione va tutta nel verso di una mancanza, nello specifico di una sorta di imperativo – negli anni fatto sin troppo mio – di “beniana” memoria: “Siamo quel che ci manca. Da per sempre”.

Accade che si trovi quantomeno curioso sistemare l’immagine di Carmelo Bene nel bel mezzo di una fortezza russa, senza neanche esser sfiorati dall’idea di Dostoevskij. Ma è proprio il sentimento della distanza a portarmi nel suolo delle associazioni libere. Distanza come manchevolezza che si fa richiedente, poiché il vuoto spesso recalcitra e si incapriccia su domande e richieste. Si manifesta come una fame che lascia fluire dimensioni incompiute e trascinamenti improvvisi. La volta di San Pietroburgo è ancora torbida e il mio baléno squarcia il cielo nel nome di colui che nella mia prima adolescenza, si rende latore di inquietudine, musica e provocazione. Lo stesso, ora è qui in suolo russo, in rilievo sulla mia tela di dubbi. Nell’irresolutezza torno in Italia e il “cantore a cavallo sul crinale dell’Appennino tosco-emiliano”, nel vezzo di questa mia definizione, resta mestamente insieme alla mia incompletezza. Termina il tempo del viaggio e la forza delle associazioni improvvise perde la sua veemenza. Ma quel nome, che dalla giovinezza mi porto prima a San Pietroburgo e poi tra gli spigoli della mia casa, continua a tornare.

Giovanni Lindo Ferretti, effigie delle mie giovani scorribande, simbolo musicale del grande e unico vero punk rock italiano degli anni ’80, continua a indugiare sul mio capo. Dopo aver seguito, seppur da lontano, la sua opera equestre SAGA, Il canto dei canti, comprendo infine il verso che mi spinge a contattarlo. La preoccupazione e in seguito l’auspicio ricadono sulla modalità di una conversazione, dialogo che abbiamo provato a stabilire e fecondare da una distanza solo spaziale. Studio una serie di domande, sono tante e devo rispettare il limite per non fare di un articolo un libro. All’anelato arrivo delle risposte, tutto prende a muoversi; le mie domande perdono l’aspetto formale e si disperdono nella conversazione. La mia casa si mette a perdere qualche spigolo. Nelle prime parole di Giovanni Lindo Ferretti, si scioglie la prima brina di conoscenza tra Roma e Cerreto Alpi:

Della difficoltà di trasformare un’intervista con domande e risposte scritte in un conversare. La conversazione si modifica, nel farsi, per empatia. Salta avanti, indietro a lato, ha una propria forza oggettiva. Deve essere un piacere. Quando ho letto la lettera, le domande, ho pensato: bene, bello. Sarà interessante. La quotidianità ha rimandato da un giorno all’altro il momento della scrittura, ora è arrivato. Il 30 novembre. Un incontro di lavoro, inimmaginabile due settimane fa, a cui prima controvoglia poi sempre più con interesse e coinvolgimento, mi sono dovuto preparare. Può nascerne una progettualità che modificherebbe l’operare della Fondazione, del teatro barbarico, del nostro vivere quotidiano. Tutta la nostra storia, sei anni di libera Compagnia di uomini, cavalli e montagne non è che un continuo reagire alle difficoltà, all’imprevisto. L’attenzione all’accadere, lo sguardo allertato, sostengono la consapevolezza che la nostra sopravvivenza è a rischio e il rischio va affrontato. Oggi, I° dicembre, comincio a preparare l’intervento che presenterò il 15 a Roma. Non c’è niente da inventare si tratta di fare ordine, sistematizzare e rendere comunicabile, forse condivisibile, un segmento di vita vissuta che inizia su un palcoscenico avanguardista e si ritrova, oltre 30 anni dopo, in una stalla, tra una frana e un viadotto, a custodire e salvaguardare un sapere arcaico, un paesaggio storico e geografico. Un’idea antropologica di civiltà. E, ringrazio il Cielo, non vorrei essere che qui, in questa incerta ora. Ci sono sempre mille cose da fare con un vecchio zio in casa (90 anni compiuti bene) venti cavalli nella stalla e cinque cani, tutto l’indotto lavorativo, economico, culturale e sociale che li sostiene e ci concede una forma austera e primitiva di sopravvivenza. Intorno due piccoli paesi, due comunità con le loro dinamiche, e l’inverno che sta arrivando. Una febbre stagionale è venuta in soccorso, porta un carico di malessere fisiologico che mi impedisce al lavoro e mi concede lunghe ore al caldo, tra la stufa incandescente e una finestra volta al tramonto. Poche giornate praticamente provvidenziali, il leggero svanimento galleggiante, da febbre alta contenuta da farmaci, può aiutarmi nel compito di riordino e composizione. Almeno lo spero.

La prima impressione è certamente di sospensione, di qualcosa che vive origini molto lontane, di lavoro, di vita vera, il tutto scevro da ogni vano ingarbuglio mentale. Groviglio che non mi passa dal pensiero e si distende con un po’ di pudore, nell’affrontare le prime domande. Solo una sottolineatura: dal vuoto sacrale di San Pietroburgo, alla “mancanza” di Carmelo Bene, giungo all’idea e all’uomo Giovanni Lindo Ferretti per il tramite di un’immagine di completezza che rappresenta nella mia mente. Questioni si accorpano insieme per dar filo, luogo ed empatia a questa conversazione.

Quanto la consapevolezza di una mancanza si fa tensione verso la volontà di un possibile completamento o, al contrario quanto effettivamente si cristallizzi nell’accettazione? E nell’accettazione o nella tensione, il suo percorso di vita lo legherebbe più all’immagine di una linea retta o alla figura di un cerchio, associabile a un eterno ritorno: dalle scuole cattoliche sino al rientro nella propria comunità dove si è in parte cresciuti, allontanati e infine riaccolti?

Che io possa rappresentare “un’idea di completezza” mi fa sorridere e mi mette di buon umore. Io sono una parzialità fatta persona che rivendica i propri limiti: montano, italico, cattolico romano. Barbarico, extraurbano. Sono successe molte cose nella mia vita e la memoria seleziona i ricordi funzionali ad un nuovo equilibrio vitale che a volte stenta, vacilla, tra necessità, oblio, e senso dell’accadere. La sua esperienza nella cattedrale dei Santi Pietro e Paolo mi offre il giusto spiraglio. La prima volta che sono entrato in una chiesa ortodossa ero un giovane universitario in viaggio verso la Grecia. In Jugoslavia, oggi Serbia. È stato il buio, il profumo di incenso, sono state le candele a mazzi e la gestualità rituale dei fedeli a segnalarmi una mancanza, subito rimossa, nel mio vivere quotidiano. La stessa sensazione ma amplificata, da stordirmi, dieci anni dopo nell’URSS appena prima del crollo. Un fermento germinale nell’ombra, da catacomba già risalita in superficie e in attesa di spalancare le sue sante porte. Ma sono state le solenni celebrazioni nella riedificata basilica del Cristo Salvatore a Mosca, nella Russia post sovietica, a farmi comprendere oltre ogni ragionevole dubbio che la mancanza del senso del sacro, dell’eterno, come dimensione sociale pubblica, sarebbe risultata nel breve termine un enorme problema sempre più insolubile. Un intero mondo si struttura in funzione della fine della Storia, vanificando la geografia, in un orizzonte di libertà virtuale. Una bolla, fluttuante in tabula rasa, determinata dalla finanza. Auguri.

Nel canto liturgico degli Ortodossi la potenza del Regno dei Cieli, separato ma contiguo all’esperienza quotidiana, si manifesta nel suo splendore. Tremore e timore. Legame. Fuoriesce dalla dimensione più carnale del maschile, impasto di bassi profondi. Viscere su viscere. L’entrata del coro femminile, centellinata con parsimonia, corrisponde all’irruzione del divino: cristallina purezza e alterità. La femminilità è la componente del divino meno considerata eppure è al femminile che è concesso il dono di generare. Bisognerà pur farsene ragione. L’impoverimento dell’esperienza liturgica, che l’Ortodossia comincia ad evidenziare come vera e propria mancanza, denota lo scadere della dimensione religiosa alla sola componente morale. Buoni sentimenti che aspirano alla perfezione in spazio intimo, impalpabile, avulso dal reale in cui il male vive e spesso regna. Ma il male vive anche dentro di noi, intorno a noi, ne siamo impastati. La liturgia lo contiene e lo combatte. È lo spazio del sacro in cui il bene è sovrano e grazie al rito perdona, purifica, rigenera, fortifica. La riduzione della liturgia alla sola parola, nel protestantesimo, e il suo repentino affievolirsi nel mondo cattolico, puntellata qua e là da sacerdoti santi che celebrano in comunione di santità il mistero divino, e da monaci e monache oranti nel servizio divino, da che mi è stata evidente, ha contribuito a mutare poi consolidare, sempre più profondamente, il mio sguardo sul mondo (esiste una sconfitta pari al venire corroso che non ho scelto io ma è dell’epoca in cui vivo). Il pensiero politico sociale della mia maturità, piccolo parziale non autosufficiente ma per niente debole, scaturisce anche da questa mancanza ingombrante. (Per quello che ho visto, per quello che ho sentito, per sconcertante necessità).

L’altra “mancanza” da cui, una volta evidenziata, tutto consegue, riguarda me nello specifico e una quota largamente minoritaria dell’umanità. Montanari, allevatori, pastori. Quest’anno ho lavorato con due giovani fotografe ad una ricerca sulla pastorizia, di ieri e di oggi. Mentre preparavamo la mostra ho riordinato pensieri molto pensati in poche frasi semplici e lineari. Valgono una vita. Siamo la prima generazione cresciuta sui banchi di scuola e invecchiata al riparo dalle intemperie. Senza animali, senza greggi, lontano dai pascoli. La maggior parte di noi l’ha vissuta come liberazione, affrancamento da un destino ingrato. Qualcuno, pochi, come quotidiana mancanza. Una servitù senza nome in casa d’altri. Non nell’archetipo, non nel simbolico, che solo a posteriori possono risultare significativi, ma nell’accadere, nel principio di contingenza. Nel mutare economico e sociale e nel farvi fronte. Bimbo arcaico, adolescente inquieto, giovanotto molto moderno inchiodato ad un ruolo prorompente, da un lato e dall’altro una mancanza che solo a posteriori, risolta, risulterà evidente. Non una linea retta, nemmeno la chiusura del cerchio, piuttosto il segmento di una spirale. Nello stesso spazio, lo stesso orizzonte, in un tempo altro e in altro modo.

Pensa che per trovare un equilibrio sia necessario perderlo? O ancora per trovare una dimensione è necessario infrangerla? Ovvero, solo distruggendo qualcosa dentro o fuori di noi (e il fuori è sempre un dentro) si è poi in grado di costruire? Senza un danno non accadono edificazioni? O possono avvenire indipendentemente da un elemento distruttivo? L’uomo deve necessariamente subire una scossa per offrirsi alla realizzazione del sé?

Nello scombussolare di prospettive e posizionamenti propri della giovinezza e di una indole personale accentuata, ho posto un freno all’errare cercando e trovando i cavalli. Stabilirmi nel ritorno, pacificare lo sguardo, la risalita alle terre alte dell’infanzia, è stato un lungo viaggio, a volte snervante. Mai pensato di tornare indietro, mai riuscito ad accelerare i tempi. In fondo alla Mongolia ho avuto la certezza del mio ritorno a casa ma ho dovuto guadagnarmi la libertà del pensiero politico e personale nella Jugoslavia frantumata dalle guerre. Sopra ogni cosa e nel giusto momento ho dovuto dedicare a mia madre gli anni della sua malattia. Esserle insieme figlio e padre. Lasciarci avvolgere e rigenerare dal maternale. Non avevamo potuto permettercelo, a suo tempo, travolti dalla disgrazia. Gettati nel mucchio e arrangiarsi. Una vita a salvare e riannodare fili invisibili. Tra un prima spezzato, non più componibile, e la speranza di un poi sempre più lontano e indefinibile. Finché il poi è arrivato e noi c’eravamo.

Ho comprato una cavallina, giovane e selvatica, poi risultata gravida, con i pochi soldi divisi alla fine dei CCCP. Mentre crollava il Muro di Berlino e l’URSS implodeva scoprivo una gestualità e un sapere di cui non ero consapevole. Genetico. Un gesto fatto a caso mi riportava allo stesso gesto fatto da qualcuno nella mia infanzia. Comparivano di colpo facce e corpi, tonalità e modi di dire, atteggiamenti. (Come fare non fare quando dove perché e ricordando). Da solo, sui monti con i cavalli, ogni giorno cresceva la mia compagnia. I morti sono indispensabili ai vivi. Sono aiuto e conforto. Ora ne sono certo: la democrazia o contempla i morti e i non ancora nati o diventa una dittatura della maggioranza. Le strade della libertà sono strette e disciplinate.

Per Carl Gustav Jung che diversamente da Freud contempla l’anima nei suoi studi, il cavallo, oltre la rappresentazione di un archetipo, figura come l’aspetto intuitivo della natura umana. Per lei cosa rappresenta nella vita e nella “Cerimonia del sé”? Le due cose, la vita e la cerimonia, nell’immagine del cavallo, sono indissolubili?

Su e giù per i crinali, in un paesaggio appena abbandonato dagli uomini e dagli animali domestici. Ancora camminabile e godibile, residuale di colture e cultura. Un prorompente inselvatichire lo faceva vibrare nel profondo punteggiandone la superficie. Vivevo in uno stato di leggera trance. Più contemporaneo ai miei vecchi, e a ritroso fino ai longobardi del millennio precedente, che ai miei estimatori e ai compaesani di oggi. Erano i cavalli, la loro presenza, la loro vicinanza a rendere possibile una vitalità che glorificava il mistero della vita. Niente in tutta l’esperienza di giovane moderno, né nella sua dimensione rivoltosa né in quella accomodante, aveva lo stesso impatto, permetteva tale coinvolgimento. Cinque anni di liceo non valevano l’attesa e la nascita del primo puledro. Quattro anni di università stentavano fronte alla doma dei primi cavalli. Tutta l’esperienza politica giovanile, assemblee e manifestazioni, idee e tensioni, svanivano nei pomeriggi a pascolare animali, allevare pensieri, tra terra e cielo nell’attesa della sera. Lentamente, avanti e indietro tra il contemporaneo e l’eterno finché l’eterno, nella forma del tradizionale, ha cominciato a selezionare, dividere e accorpare, ordinare. Rimediando i danni possibili e ricercando opportunità realistiche. (Tra ciò che abbiamo distrutto e ciò che non ci toccherà).

Il pensiero che aveva sostenuto l’acquisto del primo cavallo era semplice, fiducioso. I pochi ma significativi viaggi nel Maghreb, nel deserto, le città dell’Algeria, del Marocco. L’Europa. Parigi, Amsterdam, Berlino. Poco mondo latino e più mondo slavo. Le canzoni, i concerti, i dischi. Gli incontri. Lo straordinario era perfetto, non avrei saputo né potuto aspirare di meglio o altro. Era l’ordinario ad essere insoddisfacente. Una scansione del quotidiano sempre più insostenibile. Vanificata ogni dimensione naturale della giornata, il ciclo stagionale. Luce/buio, caldo/freddo, e gli intermedi. Inesistente la dimensione comunitaria. La differenza e la compassione. La libertà come dimensione generazionale: stessa età, gusti simili, comportamenti e aspirazioni omologati. In un tempo artificiale, illuminato/ riscaldato/ refrigerato tendente all’asettico anche quando sporco e zozzo. La musica unica pulsione vitale. Il generazionale come disagio sociale. Sì certo, anche bello ma un po’ limitato, limitativo. Doveva pur esserci dell’altro. Avere un cavallo avrebbe potuto scardinare l’artificiosità del mio vivere. Allontanarmi dalla città. Mi avrebbe portato in dono l’alba e obbligato al riposo notturno. Le stagioni, il tepore della stalla d’inverno e i pascoli estivi. Mi stavo perdendo qualcosa forse troppo e i cavalli, l’immagine più potente del mio immaginario arcaico e infantile, potevano essere il giusto tramite per avventurarmi in altro spazio e magari in altro tempo. Sono passati quasi trent’anni, non mi hanno mai deluso. Mi hanno rapito ed offerto uno spazio che se non eterno è storico e geografico. Continuo a pagare in preoccupazioni, fatiche, soldi, il prezzo del riscatto dal contemporaneo ma non vorrei essere che qui, in questa incerta ora.

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In merito al fatto di aver citato Jung, lei pensa che la fede possa convivere con la psicanalisi, o l’una esclude l’altra?

La fede può convivere con tutto ciò che è dell’uomo. Nel caso, più che escludere, vanifica l’insostenibile ed ingloba il restante. Può convivere con tutto ma non in tutti. Ad ognuno il suo. Tutto ha una propria ragion d’essere, trova riscontro nel Creatore, a cui compete il giudizio.

Qual è il primo libro di Papa Benedetto VXI che ha letto e cosa l’ha spinta a continuare nelle sue letture? Cosa ha trovato e conservato di Joseph Ratzinger?

Papa Benedetto XVI è, nella mia vita, un punto saldo. Segna un prima e un poi. Continua ad essere, nei suoi scritti, una scoperta. Copiosa fonte. Immagine rassicurante e consolante. La sua persona, la sua storia ecclesiastica. Un clamoroso inatteso gesto di rinuncia. Ne risulta, credo, un vero e proprio cambio di paradigma nella storia della Chiesa.

Il cattolicesimo ha dato concretezza al suo idealismo?

Il cattolicesimo in cui sono stato allevato ed educato e a cui sono tornato è molto concreto, pratica la devozione, necessita del rito. È la tradizione. Due millenni di storia e cultura. Quanto di più lontano da un idealismo che tendo ad assimilare al protestantesimo e alla modernità.

La donna nel suo libro Reduce è la fotografia di una donna forte. Non nell’accezione contemporanea di indipendenza, ma quasi di femminea virilità. Come vi fosse una lirica della custode del focolare. Mostra in tal senso quasi la distruzione di un cliché dove la donna smette di rappresentare la dolcezza, la fragilità, finanche l’abnegazione, in favore di una creatura bella nella forza.

Sono cresciuto tra donne forti e belle, ho sempre frequentato donne belle e forti. La prima descrizione delle nostre terre e dei nostri avi ce la fornisce lo storico greco Diodoro Siculo, al seguito delle legioni romane, “in queste angustie hanno la partecipazione delle donne abituate al pari degli uomini “. Non so d’altro, se esiste avrà il suo perché, non mi interessa.

I suoi affetti e amici, dal Ferretti dei CCCP a oggi, sono gli stessi? Qualcuno l’ha perso proprio in virtù del suo percorso?

Esistevo anche prima della mia pubblica immagine. Gli amici dell’infanzia, dell’adolescenza, sono passati indenni attraverso l’età del palcoscenico. Qualche amicizia risale a quegli anni. Molti sono i conoscenti, anche buoni conoscenti, tra il prima il durante e il dopo, ma gli amici sono pochi. Molto pochi e preziosi.

Un film, una canzone, un libro, una preghiera.

Giusto un mese fa mettendoci l’impegno necessario ho preparato una lista per Padre Maurizio. Cinque libri, cinque canzoni, cinque film, cinque poesie o brani. Lavoro molto gravoso, il discernere con giudizio. L’ho fatto perché me l’ha chiesto e a Lui obbedisco. Qui mi astengo. Recito il Pater Ave Gloria Requiem, De profundis e Miserere. Canto il Salve Regina e le litanie. Sono le stesse preghiere dei miei vecchi, le ho imparate da bimbo e ritrovate da grande. Di mio ho aggiunto Vieni Santo Spirito e una preghiera della tradizione copta: Re della Pace. Se sono confuso dagli accadimenti ecclesiastici, capita, recito il Credo, la professione di fede. A volte lo recito perché già nel senso/significato sta il piacere della parola, dizione, scansione.

  • da L’intellettuale dissidente, 6 dicembre 2016

Lou Andreas Salomé: “La bestia bionda” di Nietzsche

Isabella Cesarini

2975146773_26fa9abbf4 “Lou-Andreas Salome” by Confetta is licensed under CC BY-NC-SA 2.0

Fosti il sublime che mi ha benedetto.

E diventasti l’abisso che mi ha inghiottito.

(R.M. Rilke, 1910)

Incantevole esemplare di mantide intellettuale. Affastella liason per demolire uomini e resuscitarli nelle loro opere. Collezionista seriale di noti artisti e filosofi, lambisce conoscenza, brandendo sapere dalle carni maschili. Predatrice culturale, pianta al suo passaggio un campo di cuori malridotti. Un’aristocratica russa con un imperativo indosso: divenire se stessa. Transita nell’animo maschile alla maniera di un percorso precedentemente tracciato che porti a compimento la sua volontà di realizzazione. Capace di ammaliare qualunque creatura, un Casanova in fine gonnella, abdica a una seduzione specificamente femminile per divenire l’Übermensch nietzschiano, l’oltreuomo. Questo e molto altro è Lou Andreas Salomé (San Pietroburgo 1861 – Gottinga 1937), edace femme fatale che, nel sovvertimento di valori e tradizioni, forgia se stessa dentro l’immagine di un’archetipica…

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Proiezioni di una psiche pop: Andy Warhol

Figlio disilluso della grande madre società, vive con forte senso critico un apparato nel quale si accomoda per eccellere. La sua analisi, in un’ambivalenza mai celata, subisce gli effetti di un’ironia salvifica. Ed è proprio attraverso tale supporto che la critica alla collettività, in Warhol, si sposta su toni elusivi e spesso incerti. 

Uno degli artisti più dibattuti del ‘900, colui che converte i fatali quindici minuti di celebrità, spettanti a ogni essere umano, in una vita intera, la sua. La notorietà, dentro una frenesia tutta artistica, si avviluppa insieme al suo creatore in un mito vivente. Divo dell’arte, alimenta la propria fama nell’atto di deificare altre divinità: Andy Warhol, artista completo e complesso, sovrano di un movimento che ha sede nella Pop Art. La corrente nasce negli Stai Uniti intorno alla metà degli anni ’50, celebra l’appuntamento tra l’arte e l’oggetto consumistico festeggiato dai mass media. Oltre i nomi di Claes Oldenburg, Tom Wesselmann, James Rosenquist, Roy Lichtenstein, troneggia su tutti quello di Andy Warhol. La sua immagine interpreta, anche per delle peculiarità estetiche – dumb blond – la fotografia dell’evanescenza.

«Recentemente alcune aziende si sono mostrate interessate a comprare la mia “aura”. Non volevano i miei prodotti, non facevano che dirmi: “Vogliamo la tua aura”. Non ho mai capito cosa volessero. Ma erano disposti a pagare un sacco di soldi. Ho pensato allora che se qualcuno era disposto a tirare fuori tanti soldi avrei dovuto cercare di capire cosa fosse. Penso che l’aura sia qualcosa che solo gli altri possono vedere, e ne vedono solo quel tanto che vogliono vedere. Sta negli occhi altrui». Il rimando di una percezione; qualcuno che è nel proprio tempo, ma lo indaga da lontano: un’assenza presente. Nella singolarità di essersi attribuito un nome e nella farsesca discrezione nei rapporti con la stampa, risiedono le importanti contraddizioni di colui che domanda luce nell’atto di eclissarsi: la commedia di apparire a sua insaputa. Un’andatura colmata da numerosi scritti, aforismi, pensieri e due libri autobiografici. Incline al presenzialismo mondano, sovente per vezzo, si lascia surrogare da un sosia. Episodio che contempla persino l’occasione del galà per il suo primo film come regista: The Chelsea Girls. Il riconoscimento per Warhol va nel verso di considerevoli innovazioni. Con Warhol, l’immagine dell’artista, cessa di essere quella di un bohémien di ascendenza maudit con l’anima e il cuore dentro l’atto creativo. Al contrario, indossa gli abiti del business man. L’arte non è necessariamente associata alla tela di una malagiata soffitta parigina o newyorchese. La creazione, dal primo afflato di una pennellata, sino all’ultimo marchio di una compravendita, non si dissocia dall’inevitabile circuito monetario. Warhol sdazia la fotografia dell’artista indigente e maledetto in favore di un creatore danaroso, e sì, ancora dannato. È pensabile dipingere nella difficoltà di una piccola stamberga o in un fosco seminterrato, ma, qualora possibile, perché non farlo da un elegante loft di Manhattan?

«I soldi sono per me il momento. I soldi sono il mio umore». La più rilevante innovazione è nei soggetti della sua arte. La star, mediante il tocco fotografico o serigrafico di Warhol, entra di diritto nell’eternità. Uno spazio accessibile con i caratteri del sociale, un’altezza non solo vagheggiata, ma di fatto conseguibile. La notorietà perde la solennità e si accomoda nei salotti della popolarità. Poco importa se in questa New York del trapasso tra gli anni ’50 e ’60, l’estetica commerciale venga discussa come disdicevole. Warhol è troppo nell’empirico per un adeguamento alla corrente dell’Espressionismo Astratto del periodo. Marilyn Monroe rappresenta il grande magnete del suo lavoro. Diva tra le dive, bella tra le belle, si fissa sull’eminenza della Pop Art come il modello principe: l’attrice veste l’abito “warholiano” dello spirito, sì eterno, ma raggiungibile. «Talvolta penso che la bellezza estrema dovrebbe essere assolutamente priva di humor. Poi penso a Marilyn Monroe: le migliori battute erano le sue. Avrebbe potuto essere divertentissima, se solo avesse trovato il posto giusto nel mondo della commedia». Marilyn è anche proiezione, proiezione di Warhol: ambedue dal nulla al tutto, dall’indigenza alla celebrità. La diva figura lo scatto della donna con il fardello indosso: dall’infanzia complessa sino all’ascesa di icona erotica; il desiderio dell’umanità è biondo. Vicino, il trono di un altro divo che si fascia nel medesimo percorso: Elvis Presley. Andy, Marilyn ed Elvis esprimono il tanto decantato sogno americano. L’America – dove Warhol giunge a diciotto anni – è quel posto dove tutto può accadere. E accade che il camionista Presley evolve nell’icona capace di scatenare scene di isteria collettiva, la bambina Norma Jeane Baker incede prima in Marilyn e poi nel desiderio di una intera Nazione. Warhol li consegna all’eternità, un’eternità accessibile; li umanizza nell’oltremondano. Da un lato descrivono i simboli di uno Stato e dall’altro, quello più intimo, disegnano la proiezione di una psiche, figlia di un immigrato minatore, che percorre le stesse strade impervie. L’elemento che permette all’artista newyorkese una visione diversa e paradossalmente più acuta, è lo sguardo lontano di chi non nasce a New York. La Grande Mela diviene nella sua mente un curioso oggetto di osservazione, una sorta di prodotto da investire nel ventre fervido della sua arte. Le origini slovacche decidono il suo sguardo sul mondo, quello di un fanciullo al cospetto delle prime sollecitazioni di un cosmo fatato. Un flâneur a stelle e strisce per il quale il passeggio è già creazione.  Il rinnovamento in Warhol è anche nel gesto di una grande mutazione: trasformare un’antinomia dell’arte in oggetto d’arte. Se un bene di consumo disegna il prodotto più lontano dall’opera, Warhol lo sveste del fattore avverso, trainandolo difilato all’interno dell’atto creativo.

«Io amo tutti i movimenti di liberazione perché dopo la liberazione le cose da mistiche si trasformano in comprensibili e noiose, e allora nessuno si sente più tagliato fuori se non prende parte a ciò che sta accadendo» È la minuziosa attenzione al reale a permettere un capovolgimento dell’accadere. Simbolica l’operazione compiuta sulla scatola di minestra Campbell: l’oggetto prettamente consumistico finisce insieme a Marilyn, Liz ed Elvis nell’Olimpo degli dei. Warhol si cala nel Bronx con il solo fine dell’ascesa in una dimensione che non domandi divisioni di classe o quartiere. Nel suo lungo cammino dentro l’arte, alcune serigrafie, occupano un posto di particolare rilievo; in modo traslato si volgono alla morte. La suggeriscono senza nominarla; così la sedia elettrica e i diversi ritratti – tredici – di pericolosi ricercati dalla legge. Warhol, ritraendo suggestioni che evocano la fine, si mette in condizione di conoscerla. «È incredibile quanta gente appende nella propria camera da letto un quadro raffigurante la sedia elettrica, soprattutto quando i colori del dipinto sono uguali a quelli delle tende». Un artista completo, sollecitato da Marilyn, approdato a Mao e giunto sino ai Rolling Stones. Tuttavia, il “dumb blond” non dimentica l’opera dei grandi maestri. Il Rinascimento feconda nel re della Pop Art, la rivisitazione di alcuni baluardi del periodo: San Giorgio e il drago di Paolo Uccello, l’Annunciazione e l’Ultima cena di Leonardo da Vinci. Andy Warhol è pensabile come una sorta di timoniere che attraversa la realtà con tutto il suo peso e giunge a una dimensione ultraterrena nel paradosso del commerciale e consumistico: l’arte è un congegno in grado di segnare e nel mentre svegliare la coscienza sociale. Un pop apparato che spalanca gli occhi di tutti su tutto. «Guadagnare denaro è arte; lavorare è arte; e fare affari è l’arte per eccellenza».

Ferragosto sottozero

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Il fatto è questo: tu non hai mai scandito il mio nome. «Mi chiamo Inés», ti scrissi la prima volta. Ma tu hai seguitato a reputarmi una onomatopea. Ed è bella l’onomatopea che segue o precede il nome. Un nome è identità, passato, ruggine e cristallo, sangue, carne, sentimento.

Allora accadde che quella mattina, dopo giorni di internamento, corsi nel bosco e, tutta fiera, marciando con il piccolo seno in avanti, accadde che il mio gingillo musicale suonasse Under Pressure. E accadde per caso perché non avevo mai ascoltato i Queen. Ma ascoltai la canzone e il ritmo che spingeva la mia marcia verso la dimenticanza delle parole appena dette. Appena scritte. Parole tracimate o trascinate dalla rabbia che insufflava un paio di parolacce e parole rimescolate dalla delusione che a quel punto tutto rimescolava. La canzone continuava a ripetersi come se fosse l’unica al bosco. Dimenticai le parole e ascoltai il ritmo che gloriava la mia marcia.

Sempre di corsa marciando, uscii dalla macchia e tornai a casa. Riposi il gingillo e il silenzio ricacciò indietro il piccolo seno. La marcia si accasciò ai piedi di un vecchio divano rosso sbiadito. Sbiadito come il convincimento di un orgoglio che non si arresta mai l’attimo prima di berciare, di berciare scrivendo.

Declinai l’invito del silenzio, tirai nuovamente in avanti il seno e mi inturgidii sull’enciclopedia di un’infanzia fa. È da lì che tutto giunge, nevvero? Sì, lo dice l’enciclopedia che mi fornisce almeno tre autodiagnosi. E per un’ora dimenticai le parole sfuggite, quelle belle e quelle brutte. E mi feci dottoressa e sindrome.

Sulla sindrome calò il freddo e sulla dottoressa respirò lo scetticismo. Mica è astrologia la sindrome? E allora bisogna dubitare. E che siamo fattucchiere di Freud? Finita la musica, dimenticata la corsa nel bosco, perduto l’azzeccagarbugli, tornò lui, il silenzio. Che fai a Ferragosto?

È freddo, io mi chiamo Inés e tu non hai mai pronunciato il mio nome.

Non si possono amare le onomatopee. Se solo tu lo avessi pronunciato una sola volta:

I n è s!  

Domani è Ferragosto e la temperatura scenderà sotto lo zero.

Inés Chevalier

Non, je ne regrette rien – Édith Piaf

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Édith Giovanna Gassion (Parigi, 19 dicembre 1915 – Grasse, 10 ottobre 1963), nota come Édith Piaf effigia Le rossignol, il piccolo usignolo dall’estensione vocale di un esemplare ciclopico. Creatura esile nelle fattezze, copiosamente imponente nel carisma, simbolo di una certa Francia e ala protettrice di amori tribolati, disegna la donna dilaniata nella vita e maestosa nell’arte.

Profilo sonoro di una cinematografica sequenza sentimentale, nel fotogramma tragico della pellicola I colori dell’anima; Amedeo Modigliani, Modì e l’amata musa Jeanne Hébuterne, danzano pressoché levitando all’appello di alcune note. Melodia che giunge da un sene grammofono, allestito sul tetto di una soffitta parigina, altrimenti in un caffè di Montmartre e ancora giù, nel tormento di una passione. 

In Natural Born Killers – Assassini Nati, opera filmica di Oliver Stone (1994), la sequenza iniziale è tutta dentro un massacro per chiudersi sulla melodia di una ballata d’amore. Il sangue dei clienti di un bar della Route 66, diviene il rosso carminio dell’ardore di Mallory e Mickey.

Billy Wilder agguanta l’aureola musicale per il rullo del 1954: Sabrina. Sentinella di un filo conduttore, rivela la chiave di violino che la incornicia in due storiche sequenze. Nella prima, Sabrina – Audrey Hepburn – incorniciata da una camera fissa, mentre seduta alla scrivania, redige una lettera:

È notte ed è molto tardi, qualcuno che attorno sta suonando “La vie en rose”; è la maniera francese per dire sto guardando il mondo con degli occhiali colorati di rosa. Ed è esattamente quello che provo io adesso. Ho imparato tante cose qui e non soltanto come si fa il canard à l’orange o la crème à la cichy, ma una ricetta più importante. Ho imparato a vivere. Ho imparato a essere qualcosa di questo mondo che ci circonda, senza stare lì in disparte a guardare. Stai pur cert che ormai non la fuggirò più la vita, e neanche l’amore. 

Ancora nella grazia vocale di Sabrina, nel verso di un seducente Humphrey Bogart, accade il richiamo al batticuore. È la cantica d’amore più celebre tra gli amanti, il guardiano in gonnella di chiffon della volta parigina nella voce del rossignol: La vie en rose. Il motivo dell’ugola dorata e tragica di Giovanna Gassion, la trama che avvolge il cieco credo degli amanti di tutto il pianeta.

Des niuts d’amour a ne plus en finir

un grand Bonheur qui prend sa place

Les ennuis, les chagrins s’affacent

heureux, heureux à morir

Quand il me prend dans se bras

il me parle tout bas

Je vois la vie en rose

La vie en rose non è l’unico brano che la “chanteuse realiste” offre al mondo del cinema. Nel 1956 giunge dalle parole di Michel Vaucaire una melodia affrettata da una timbrica nostalgica ma saldamente vigorosa: Non, je ne regrette rien. Le note trattengono il ritratto della complessa esistenza della cantante. Malinconica sonata, ripresa in dimensione “meta-musicale” anche dal gruppo metal tedesco Ramstein nella loro Frühling in Paris. La durezza della lingua tedesca si assottiglia in quella francese e nella liturgia di una primavera parigina, dentro un grido di labbra e carne, nulla si rimpiange di un sentimento tormentato. 

In Inception, pellicola firmata da Cristopher Nolan, Non, je ne regrette rien disegna una sorta di metronomo onirico: il “calcio” diretto all’allucinazione che riporta nella realtà, morire nel sogno della Piaf e destare la vita nella malombra dell’usignolo. Da ultimo la Francia, Parigi e il verso romantico scandiscono un film di azione mentale, a tratti gemicante di elementi eccessivi, alla maniera di una tregua anche per l’occhio che guarda. Si compie sulla soglia di The Dreamers, marcatura anacronistica quanto simbolica di un passato presumibilmente sbagliato. Temporalità avulsa dal rammarico, stacco nostalgico che sottolinea i titoli di coda: allegoria di una fine che è già nuovo inizio. E infine si resta al cospetto del film La vie en rose, di Oliver Dahan (2007). La Piaf, magistralmente interpretata da Marillon Cotillard che si accaparrra un meritato Oscar come attrice protagonista. 

Una veloce carrellata cinematografica e musicale per chiedersi infine: chi è le rossignol?

È la voce che tocca la gloria celestiale, il suono che giunge dal basso degli inferi di una Parigi viva nel segreto di un bordello, lo stesso dove cresce la chanteuse. Accudita dalle sottane affettuose di venti prostitute, conosce il mondo. La sua campana è di rame, ma il suo batacchio è miscela di cristallo e ferro. Dopo l’infanzia nel girone lussurioso di nonna Marie, la piccola Piaf torna al padre Jean Gassion, una sorta di Zampanò alla francese. La campana si sgretola anche nel rame, ma il suo pendolo inizia a farsi tanto più vigoroso. Il suo canto dilaniante comincia a risuonare negli arrondissements parigini; all’angolo di una via, tra una monetina e un estimatore di passaggio. Poco tempo e la piccola Giovanna diventa madre, una maternità che le scalderà il cuore per soli due anni: la bambina muore di meningite. Le vie parigine continuano a beneficiare di un eco malinconico e bellissimo sino a quando non viene notata e fatta esibire in un locale di cabaret. Il primo impresario è Louis Leplée, seguito da colui che in seguito diverrà anche il suo amante: Raymond Asso.

Voglio far piangere la gente anche quando non capisce le mie parole

Le sue interpretazioni timbrano la fotografia di una piccola creatura dall’aspetto esile, raso di curve, ma fortemente sensuale dentro un petto di suoni penetrali. Il suo canto è nell’antinomia di un tormento che oscilla tra il declivio e la rimonta. La nota malinconica è nel timbro veemente che resta incollato indosso, ancorché nella disposizione di un animo particolarmente permeabile. Sovente, la dolcezza si dissimula nella molteplicità dei toni: un usignolo canta come un esemplare cittadino costretto ad alzare il volume per superare i rumori di una metropoli chiassosa. Echi appassionati e incontenibili  fecondano temi di grazia e garbo, tutto nel compimento di una intima partecipazione. Testi che raffigurano la cartolina amara della strada, della vita presa dalla prostituzione, del ritrovo dei lestofanti; tutto sempre all’interno di una trama inquieta sotto l’ombra silente dell’amore. La sua Parigi è quella della gente, La Ville Lumiére è La Ville Populaire. Durante gli anni ’40, le esibizioni prendono a essere discontinue, conosce Jean Cocteau e si lega a Yves Montand. In una Francia post bellica, intorno al 1946, i cieli perdono il grigiore in un motivo che, prima nella Ville e poi nel mondo, figura il simbolo del ritorno in patria e di un nuovo sguardo sull’esistenza. La tragedia, che la trascina negli inferi della sua vita, si compie quando l’amato, il pugile Marcel Cerdan, nel 1948, in volo per raggiungerla negli Stati Uniti, perde la vita nell’incidente aereo. Il fardello del senso di colpa alimenta l’abuso di alcol, droghe e psicofarmaci. Alla memoria di Cerdan è legata la struggente ode Hymme à l’amour. Nel 1955, il piccolo usignolo dona finalmente il suo canto a l’ Olympia nel IX arrondissement, lo storico monumento teatrale di Parigi. Seguono anni di canzoni e dispersioni. Il 1960, dopo troppo alcol, morfina e notti insonni, il tempo è quello di una broncopolmonite dalla quale non si riprenderà più. Una ricaduta la porta alla morte nell’ottobre del 1963.

La Piaf, le rossignol’invisible, è una fiera risonanza della Francia, un lamento bukowskiano nelle pieghe di uno spleen baudelariano. La malinconia fatta amore, l’amore fatto nostalgia, la vita fatta impossibile di una piccola creatura capace di elevarsi sino all’Eden e, da lì, far grondare la passione come una tempesta di note eccezionali. Alcuni spiriti, più di altri, devono necessariamente scendere nell’Ade, insozzare sino a polverizzare il proprio cuore. Nella rimonta, perdere l’intruglio incollato alle ali e planare con l’ugola rivolta alla luce.

  • Da Anime Inquiete 

“Incolli l’invisibile” – L’Apparenza: Lucio Battisti e Pasquale Panella

I cinque bianchi, l’ermetismo e Pasquale Panella. È il dopo Mogol, l’oltre Battisti. Quell’andare dall’altra parte di se stesso, dove l’artista entra in un territorio inesplorato in cui diviene l’assoluto. Quel regno dove l’autore si afferma dissolvendosi. Si nega al pubblico che presume di conoscerlo, alla canzone d’amore cantabile e al verso popolare.

Un piano sequenza infinito, dove lo stesso Battisti si colloca dietro la macchina da presa, mentre tra linee appena tratteggiate di una sceneggiatura completamente bianca, dà vita al verso incompiuto. È l’incontro con Pasquale Panella: la cristallizzazione musicale nel bello, una sonata onirica che si schiude in cinque album. Sono i cinque bianchi: “Don Giovanni” (1986), “L’Apparenza” (1988), “La sposa occidentale” (1990), “C.S.A.R. – Cosa succederà alla ragazza” (1992), “Hegel” (1994).

È il grande sodalizio artistico, legame dal quale Battisti non tornerà più indietro. La letteratura si fa musica per divenire percezione pura. L’ascolto perde la guida, si disorienta, si smarrisce per poi ritrovarsi in un nuovo ascolto. La canzone abbandona il senso popolare e domanda tensioni ripetute e ossessive. L’evidenza cede il posto alla grazia: lo sfuggevole prende corpo e carnalità. Così è la bellezza: sfugge per irretire in visioni che giungono leggère per imprimersi con forza.

L’Apparenza, brano che presta il nome anche a uno dei cinque album bianchi, disegna la sommità del duo artistico Battisti/Panella. Alienante e calamitante al tempo stesso: scampa per suggellare. Imperscrutabile, ermetica, sovranamente suggestiva, come una donna bellissima che lascia sospesi nel sogno. È un rimandare a mondi altri, un oscillare vertiginoso di pensieri, una tensione ostinata verso la bellezza che è per definizione insondabile. Tale è L’Apparenza: apparizioni e contemplazioni di una sfera fantastica. Il Battisti/Panella non derubrica il Battisti/Mogol: lo supera, non voltandosi mai indietro. La vetta si fa musicale. Un luogo percorso da schizzi minimali, modulazioni musicali e versi che superano il dogma della canzone leggera. I cinque album bianchi rappresentano il testamento di un artista complesso, spesso inaccessibile e per il quale la parola artista non sembra mai abbastanza.

(22 giugno 2015)

“La strada” debutta alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica – Venezia, 6 settembre 1954

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Il 6 settembre 1954, alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, si tiene la prima mondiale del film La Strada. Nonostante un’accoglienza non propriamente calorosa e alcune demolizioni dalla parte della critica nostrana –  “Dopo La strada Fellini, col suo grande talento, deve assolutamente cambiare strada” (Ugo Casiraghi, l’Unità, 8 settembre 1954) – il film vinse il Nastro d’Argento e il Premio Oscar per il miglior  film straniero (1957). 

Il libro Edificio Fellini – Anime e corpi di Federico descrive un’indagine sulle fonti poetiche, psicanalitiche, esoteriche e letterarie che hanno contribuito a fecondare la creatività del regista. 

Di seguito un estratto dal testo che mette in luce il rapporto tra il cinema di Federico Fellini e la letteratura di Charles Dickens:

Nel racconto (Storia di un’ossessione – Nero Dickens) e nella pellicola, la poesia, seppur amara, è una liturgia della solitudine. Entrambe le donne vivono una condizione di isolamento che nella Wade si esprime in fuga, in Gelsomina nell’attaccamento morboso all’unica creatura che le conferisce una individualità, assieme al ruolo di vittima: Zampanò, aspro e rabbioso saltimbanco nella sontuosa interpretazione di Anthony Quinn, è il carnefice di Gelsomina, ma la vessazione quotidiana o la mortificazione è un modo, seppur atipico, per darle importanza. Zampanò la considera solo nel verso dell’atto violento e in tale distorta attenzione Gelsomina acquista identità. Sono creature che campano nell’emarginazione poiché è in essa che esistono.

«Tutto quello che c’è a questo mondo serve a qualcosa. Ecco, prendi quel sasso lì per esempio… Beh anche questo serve a qualcosa, anche questo sassetto […] non lo so a cosa serve questo sasso ma a qualcosa deve servire perché se questo è inutile allora tutto, anche le stelle. E anche tu, anche tu servi a qualcosa, con la tu’ testa di carciofo» dice il Matto a Gelsomina nella sua dissertazione notturna.

Wade e Gelsomina appaiono a un primo sguardo assai diverse: la prima scorbutica, sicura di sé e autonoma; la seconda sottomessa, sensibile e sofferente. Ma questo solo a una primissima scorsa. Di fatto sono due creature fameliche d’amore, Wade orfana e Gelsomina venduta dalla madre per diecimila lire. L’assenza genitoriale porta entrambe ad alterare ogni rapporto e dimensione vitale nel solco dell’abbandono e dell’isolamento.

«Il dilemma moderno è la solitudine. Nessuna pubblica celebrazione o sinfonia politica può sperare di liberarsi di lei. Solo attraverso gli individui si può spezzare questa solitudine, si può passare un messaggio che faccia loro capire il profondo legame che unisce una persona all’altra. È ciò che ho cercato di esprimere nel mio ultimo film, “La voce della luna” ed è ciò che ho cercato di esprimere ne “La Strada” tanti anni fa. I sentimenti non sono cambiati. Ne “La Strada”, cercai di mostrare la personale e soprannaturale comunicazione fra un uomo e una donna che apparentemente sembrerebbero incapaci di capirsi l’un l’altro».

Il film riprende altri due elementi peculiarmente dickensiani. Il primo è il suddetto interpolato, il quale trascinato sul rullo diviene, per fare un esempio, l’apparizione di un’immagine fuori tempo o luogo. Il cavallo privo di cavaliere che passeggia al cospetto di Gelsomina; i tre musicanti che sfilano suonando lungo la strada. Il secondo elemento che tratteggia la scrittura del romanziere è la miscela di dramma e humor. Una sorta di fiaba romantica dove per “romantico” si contempla la tragedia, un fine che non comporti il lieto.

Edificio Fellini – Anime e corpi di Federico

Alla figura dell’isolato si accompagna naturalmente quella del pazzo. I folli di Dickens, come quelli di Fellini, sono spesso consapevoli della propria condizione. Sono piccoli spiritelli che vivono in un universo parallelo. Il rimando a una follia che non risparmia alcuno. La rappresentazione è quella di una malinconia certa, che scivola nei sottotesti di Dickens e nei volti attoriali di Fellini.

*** 

“Sono quella balorda intensità ch’è un’anima”. Jorge Luis Borges

“Jorge Luis Borges” by susanamule is licensed under CC BY-NC-ND 2.0

Jorge Luis Borges, uno dei grandi maestri della cultura latino-americana, figura come il più rappresentativo esponente di quella foggia letteraria che, tramite lo sviluppo dei fondamenti della realtà e l’impiego dei complessi richiami culturali, crea un universo paradossale e immaginario in cui il lettore non sempre è capace di giungere alla comprensione del vero significato.

Borges, nella sua opera, scarta ogni forma di suddivisione tra reale e irreale, tra verosomigliante e assurdo e, colliquando in unitarietà i dati storici e i principi narrativi, genera quadri inverosimili e sconcertanti in cui l’individuo si trova sovente in preda a fissazioni scioccanti e ostaggio di una realtà stretta da limiti fantastici e fallaci.

Parte della poetica di Borges è assicurata in un testo fondamentale – Carme presunto e altre poesie – da cui germinano apparizioni, reminiscenze e previsioni che offrono la fascinazione delle congetture, delle circostanze apparenti e delle chimere che turbano l’individuo lasciandolo in una situazione di indugio perpetuo sul suolo di riscontri impensabili.

Il ventre lucente per Borges è l’universo infinito dell’aspetto simbolico, il giardino verdeggiante della supposizione, da cui il poeta trae la sua grande poetica.

Insonnia

Di ferro,

di arcuate travature d’incommensurabile ferro conviene che

sia la notte,

affinché non la facciano scoppiare e la sventrino

le molte cose che i miei occhi ricolmi hanno visto,

le dure cose che intollerabilmente l’affastellano.

Il mio corpo ha fiaccato i livelli, le temperature, le luci:

dentro vagoni di una prolissa strada ferrata,

in un simposio di gente che si detesta,

nella linea slabbrata dei sobborghi,

in una villa afosa d’umide statue,

nella notte stracolma in cui s’affollano il cavallo e l’uomo.

L’universo di questa notte presenta la vastità

dell’oblio e l’inesorabilità della febbre.

Invano voglio svincolarmi dal corpo

e dall’incubo di uno specchio incessante

che lo moltiplica e l’assedia

e dalla casa che ripete i suoi patii

e dal mondo che prosegue fino a uno sminuzzato sobborgo

di stradoni dove il vento s’ammansa e di balordo fango.

Invano attendo

le disintegrazioni e i simboli che antecedono il sonno.

Prosegue la storia universale:

i minuziosi tragitti della morte nelle carie dentali,

le circolazioni del mio sangue e dei pianeti.

(Ho detestato l’acqua putrefatta di una pozzanghera,

ho abortito al tramonto il canto del passero.)

Le spossanti, interminate miglia della periferia verso il Sud,

miglia di pampa immonda e oscena, miglia di vituperio,

non voglion cader dal ricordo.

Plaghe sommerse, ranci ammassati come cani, pozze di

fetido argento:

io sono la sentinella detestabile di quelle immobili

postazioni.

Ferrospinato, terrapieni, cartacce, rifiuti di Buenos Aires.

Questa notte credo nella tremenda immortalità:

nessun uomo è morto nel tempo, nessuna donna, nessun

morto,

giacché questa inevitabile realtà di ferro e di fango

deve attraversare

l’indifferenza di quanti siano dormienti o

morti

quand’anche si occultino nella corruzione e nei secoli

e condannarli a una veglia terrificante.

Tosche nuvole color vinaccia infameranno il cielo;

albeggerà nelle mie palpebre serrate.

  • 1936, Adrogué

Cambieremo. In peggio.

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Come sta?

Foraggia la sua misantropia a colpi di rabbia.

Rinsangua la sua rabbia a colpi di malinconia.

Piange lacrime ormai asciutte.

Si piega una ruga per tutti i come sta che non ha ricevuto.

Esala il rammarico per tutti i come sta che non ha donato.

Non si vanta di vivere da solo. E isolato.

Non perdona la mancanza di tenerezza, neanche la sua.

Non perdona coloro che usano a sproposito il sostantivo “karma” credendo di dissimulare una cattiveria meglio espressa da un più ruspante “Non sputare in cielo che in faccia ti torna”.

Non pensa che il bene si meriti, figuriamoci il male.

Indossa un abito liturgico slabbrato dalla mancanza di fede.

Si bistra gli occhi di nero per l’assenza di qualcuno.

Non detiene una mascherina per il selfie.

Accende sigarette al posto di lumini.

Nonostante le apparenze non scrive.

Smette il corteggiamento della frase.

Si prende la licenza di essere melenso.

È lezioso senza rammarico.

Ha paura ma ha paura di dirlo.

Se hai paura ti tirano le pietre.

Perde l’ultimo sparuto mutevole colpo di sonno.

Perde tolleranza, armonia e accondiscendenza.

Come sta?

Ha una quarantena nel cuore.

Sylvia Plath – Autopsia di un inconscio

Creación colectiva sobre la vida y obra de Sylvia Plath Temporada 2011” by matacandelas is licensed under CC BY-NC-SA 2.0.

 

La realtà è quella che mi invento

Il maniacale inseguimento della perfezione conduce difilato alla sanguinaria persecuzione di se stessi. In preda a un’idea fissa verso una suggestione particolarmente mobile, la chimera della compiutezza incede nel mostro che porta la creatura dentro un vorticoso tormento. L’ideale perfetto è lesto, astuto, conosce le regole del nascondimento: quanto più ci si accosta tanto più l’utopia si fa distante. Ove si manca l’occasione, il patimento cresce sino alla piena. Nessun argine può contro un supplizio autoinflitto dalla fotografia dello splendore massimo che non trova alcuna fissità nell’elemento umano. L’affanno di un animo stancato dall’acrimonia verso se stesso e che, nelle presunte tare, rivela già la sua perfezione.

Sylvia Plath (Boston, 27 ottobre 1932 – Londra, 11 febbraio 1963) descrive, nella vita e nella scrittura, il più inclemente giudice di se stessa. Esclusivamente e senza ombra di dubbio, al di là della sua esistenza, può sopravvivere quel mito della perfezione che tallonerà per tutta la vita. E tutta la vita di Sylvia è dentro quei trenta anni di creatività e supplizio. La natura vive la perfezione, gli altri sono perfetti, tutto ciò che non la abita è perfezione. La vita, nella grazia della natura, prende a muoversi nei versi, le fronde nelle parole, il cielo nelle sfumature e, la luna, la grande madre severa, si fa sguardo imperturbabile nell’esistenza della poetessa. È prima attrice de La Rivale, poesia dell’opera Ariel, libro postumo uscito nel 1965, due anni dopo il suicidio. La bellezza è mortificante poiché difficile da contenere. Dallo spazio lunare, la bellezza illumina con fermezza annientatrice.

La scorsa di Sylvia sulla circostante distesa dell’esistenza è come quella di un esule che sosta nel continuo senso di abbandono. Gli esseri umani sono venuti al mondo con il solo fine di lasciarla, gettarla in una solitudine mordace; uno statuto speciale all’interno del quale la donna si dedica al suo personale sezionamento. Tanti piccoli pezzetti da indagare e resuscitare nel verso. Parte dalle sue membra per piombare con forza all’interno dell’inconscio, operare dei tagli e infine abbattere il suo edificio vitale. Quanto più distrugge tanto più il verso rinasce. Vita e scrittura impattano in un gioco al massacro sino all’ultimo soffio.

La relazione più duratura è quella che la poetessa intreccia con il dolore. Un’angoscia ineffabile che, nella disapprovazione di se stessa, trova la ragione di vita. Sylvia è il suo processo: una corte marziale dove la vittima è trattata al pari del carnefice senza possibilità di appello o di assoluzione. Permeabile all’inquietudine, si dispone nella direzione di quel dardo che lei stessa prende a tirare. Esiste un monstrum, una creatura terribile e al contempo ammaliante che giace indisturbato sul fondale della sua anima. Indossa le sembianze sfocate di un dualismo che prende a vampirizzarla nel corpo per giungere più in fretta nei foschi scomparti della sua mente.

***

Risulta arduo tornare indietro dalla lettura della Plath.

Vi è un incessante flirtare con l’oblio, con un’immagine illusoria di ciò che vorrebbe essere e non sarà mai. Poiché quell’immagine non esiste se non nella costruzione certosina di un abbaglio. Il miraggio si impone nell’eccezionalità dei toni scuri sino all’ottenebramento.

***

Fortemente autobiografico, il romanzo La campana di vetro, rappresenta un percorso di scrittura dove la Plath si pone alla forsennata ricerca di un carattere ben definito. E, l’indagine, è talmente importante che viene eseguita mediante uno pseudonimo: Victoria Lucas. L’opera ripercorre i luoghi mentali e fisici vissuti prima del tentativo di suicidio. La gestazione di uno stato d’animo spartito tra la disillusione e la mancata accettazione della sopravvivenza. Il disincanto attende ansante al termine della costruzione fantastica. Ogni uomo viene posto su un dubbio piedistallo per essere infine trangugiato da una realtà che vanifica la congerie onirica. L’elemento maschile è pertanto un portatore sano di solitudine. Le aspettative vengono puntualmente disattese, l’edificio crolla e, sfiancata dal suo lavoro di costruzione fantastica, crolla anche Sylvia. Gli altri, all’oscuro delle sue personalissime edificazioni, si fanno estranei e si realizzano nella profezia più fedele: nessuno è capace di amarla. Ciascun disinganno si perde in un rivolo d’acqua che, esposto al gelo, diviene ghiaccio da sciogliere nei versi della sua lirica.  

Mi sentivo come un cavallo da corsa in un mondo senza ippodromi.

L’aspettativa gemica in ogni moto vitale.

***

Ad affastellare una mente sovraesposta al dolore, contribuisce il desiderio costante di due situazioni antitetiche e contrastanti. Da un lato vi è la ragazza destinata ad appagare i desideri di una gigantografia rappresentata dal nucleo familiare, dalla società e presumibilmente anche da lei stessa, dunque esaudire un matrimonio che si faccia stabilità per la donna e la poetessa. Dall’altro sopravvive, non senza recalcitrare, la donna viva solo nella scrittura che guarda al matrimonio come un ostacolo alla realizzazione di se stessa nella parola. L’oscillazione tra i due stati è il terreno fatale di quel tormento che la seguirà per tutta l’esistenza.

***

Accade che la mente si rivolti in mondi altri e, in quell’altrove, la creatura si lasci cadere per rinascere in un essere perfetto e, come tale, inesistente. Sylvia è tutto questo e tutto questo è la scrittura di Sylvia: l’inclemenza di Sylvia sulla Plath.

Più sei un caso senza speranza più ti tengono nascosta

***

[…] lunghe gambe a descrivere la traballante aderenza al suolo.

Il pensiero, trascinato in vetta, soffre l’altitudine e la riduzione dell’ossigeno lo porta a una sincope tutta di mente. Il capo si fa pesante poiché trascina il fardello più pesante: l’insindacabile giudizio su se stessa.

  • da Anime Inquiete – 23 storie per mancare l’esistenza