Renée Vivien, la poetessa delle violette

Renée Vivien, pseudonimo di Pauline Mary Tarn (Londra, 1877 – Parigi, 1909) è la poetessa che nasce nel ventre della Belle Époque e cresce nell’appellativo di Saffo ‘900. Donna di grande fascino e verseggiatrice di elegante fattura, indossa, non senza un mal celato tribolo, le vaiate vesti di una creatura libera soprattutto nella manifestazione dell’amore per le donne. Dentro un corpo fiaccato dall’anoressia e dall’abuso di alcol, muore a soli trentadue anni a causa di una pleurite che accelera il suo lento declivio verso la morte. Incorniciata da una lunga chioma di capelli biondi e ammantata da un incanto non comune, la poetessa è particolarmente sensibile al canto della morte, una sorta di richiamo che si fa desiderio e infine aspetto legato intimamente all’amore. Innamorata di Baudelaire e Saffo – di quest’ultima la Vivien pubblicherà adattamenti e traduzioni, favorendo il recupero e la valorizzazione della poetessa greca – attraverso endecasillabi, sonetti e poesia in prosa, canta l’amore, sovente tribolato, per la figura femminile. Un carme che la incorona come la prima poetessa francofona a manifestare liberamente l’amore saffico. Nell’opera Il puro e l’impuro, la scrittrice francese Colette le dedicherà diverse pagine:

L’incantevole viso di Renée non rispecchiava che una parte di questa puerilità, nella guancia rotonda e soave, vellutata, nel labbro, superiore ingenuo, rialzato, all’inglese, su quattro denti piccolini. Un sorriso frequente e radioso illuminava i suoi occhi castani, ora bruni, ora verdastri alla luce del sole. Portava lunghi i bei capelli d’un biondo argenteo, fini, lisci, e se li annodava sul sommo del capo in una crocchia che poi si disfaceva, un filo dopo l’altro, come una paglia sottile…

Colette, amica e vicina di casa di Renée, osserva la lenta e volontaria consunzione che affligge la poetessa:

Vuotò il bicchiere d’un colpo, non le mancò il respiro, non battè ciglio, e la sua gota rotonda mantenne il suo floreale candore. Non fu quella sera che mi resi conto che si nutriva di una cucchiaiata di riso, di un frutto, soprattutto di alcool.

Padrona della lingua francese, Renée Vivien lascia numerose poesie in quel luogo edificato sulle fondamenta di un’elegante palazzo di tristezza.

La divinità sconosciuta, una prosa poetica tratta Dal verde al viola:

La donna che amo, la donna sconosciuta, abita in fondo a un antico palazzo dove si ostina una sera perpetua. 

Il vecchio palazzo veneziano dove ha germogliato la sua infanzia, dove ha fiorito la sua adolescenza, sonnecchia nel silenzio delle acque morte. L’ombra del passato attenua le fragili sfumature delle stoffe e i colori dei quadri. Si sentono sospirare appena i respiri del mare nelle pieghe delle tende pesanti.

C’è silenzio dentro di lei e intorno a lei.

Si capisce, avvicinandosi, che ha sempre vissuto in solitudine. Ha lunghe mani alle quali la penombra ha dato i toni ingialliti dell’avorio vecchio. Il suo sguardo ha il riflesso delle acque morte. Parla a voce così bassa che bisogna concentrarsi per sentirla.  E le sue parole sembrano l’eco di un lamento che nessuno ha mai sentito.

Nella camera dove dimora, si sente la misteriosa presenza dell’Anima. Le piacciono i fiori che appassiscono, e si rattrista voluttuosamente quando il crepuscolo fa cadere con rimpianto i petali di una rosa.

Il suo vestito a lutto ha la dolce consistenza delle tenebre. È come avvolta dalla notte.

I suoi capelli sono intessuti di raggi notturni e mescolati alla porpora, come se l’Ombra avesse svegliato le sue calme violette.

La amo perché mi è sconosciuta ed esiste solo in un sogno.

Renée Vivien era solita portare con sé un mazzolino di violette.         

“Sono quella balorda intensità ch’è un’anima”. Jorge Luis Borges

“Jorge Luis Borges” by susanamule is licensed under CC BY-NC-ND 2.0

Jorge Luis Borges, uno dei grandi maestri della cultura latino-americana, figura come il più rappresentativo esponente di quella foggia letteraria che, tramite lo sviluppo dei fondamenti della realtà e l’impiego dei complessi richiami culturali, crea un universo paradossale e immaginario in cui il lettore non sempre è capace di giungere alla comprensione del vero significato.

Borges, nella sua opera, scarta ogni forma di suddivisione tra reale e irreale, tra verosomigliante e assurdo e, colliquando in unitarietà i dati storici e i principi narrativi, genera quadri inverosimili e sconcertanti in cui l’individuo si trova sovente in preda a fissazioni scioccanti e ostaggio di una realtà stretta da limiti fantastici e fallaci.

Parte della poetica di Borges è assicurata in un testo fondamentale – Carme presunto e altre poesie – da cui germinano apparizioni, reminiscenze e previsioni che offrono la fascinazione delle congetture, delle circostanze apparenti e delle chimere che turbano l’individuo lasciandolo in una situazione di indugio perpetuo sul suolo di riscontri impensabili.

Il ventre lucente per Borges è l’universo infinito dell’aspetto simbolico, il giardino verdeggiante della supposizione, da cui il poeta trae la sua grande poetica.

Insonnia

Di ferro,

di arcuate travature d’incommensurabile ferro conviene che

sia la notte,

affinché non la facciano scoppiare e la sventrino

le molte cose che i miei occhi ricolmi hanno visto,

le dure cose che intollerabilmente l’affastellano.

Il mio corpo ha fiaccato i livelli, le temperature, le luci:

dentro vagoni di una prolissa strada ferrata,

in un simposio di gente che si detesta,

nella linea slabbrata dei sobborghi,

in una villa afosa d’umide statue,

nella notte stracolma in cui s’affollano il cavallo e l’uomo.

L’universo di questa notte presenta la vastità

dell’oblio e l’inesorabilità della febbre.

Invano voglio svincolarmi dal corpo

e dall’incubo di uno specchio incessante

che lo moltiplica e l’assedia

e dalla casa che ripete i suoi patii

e dal mondo che prosegue fino a uno sminuzzato sobborgo

di stradoni dove il vento s’ammansa e di balordo fango.

Invano attendo

le disintegrazioni e i simboli che antecedono il sonno.

Prosegue la storia universale:

i minuziosi tragitti della morte nelle carie dentali,

le circolazioni del mio sangue e dei pianeti.

(Ho detestato l’acqua putrefatta di una pozzanghera,

ho abortito al tramonto il canto del passero.)

Le spossanti, interminate miglia della periferia verso il Sud,

miglia di pampa immonda e oscena, miglia di vituperio,

non voglion cader dal ricordo.

Plaghe sommerse, ranci ammassati come cani, pozze di

fetido argento:

io sono la sentinella detestabile di quelle immobili

postazioni.

Ferrospinato, terrapieni, cartacce, rifiuti di Buenos Aires.

Questa notte credo nella tremenda immortalità:

nessun uomo è morto nel tempo, nessuna donna, nessun

morto,

giacché questa inevitabile realtà di ferro e di fango

deve attraversare

l’indifferenza di quanti siano dormienti o

morti

quand’anche si occultino nella corruzione e nei secoli

e condannarli a una veglia terrificante.

Tosche nuvole color vinaccia infameranno il cielo;

albeggerà nelle mie palpebre serrate.

  • 1936, Adrogué

Cambieremo. In peggio.

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Come sta?

Foraggia la sua misantropia a colpi di rabbia.

Rinsangua la sua rabbia a colpi di malinconia.

Piange lacrime ormai asciutte.

Si piega una ruga per tutti i come sta che non ha ricevuto.

Esala il rammarico per tutti i come sta che non ha donato.

Non si vanta di vivere da solo. E isolato.

Non perdona la mancanza di tenerezza, neanche la sua.

Non perdona coloro che usano a sproposito il sostantivo “karma” credendo di dissimulare una cattiveria meglio espressa da un più ruspante “Non sputare in cielo che in faccia ti torna”.

Non pensa che il bene si meriti, figuriamoci il male.

Indossa un abito liturgico slabbrato dalla mancanza di fede.

Si bistra gli occhi di nero per l’assenza di qualcuno.

Non detiene una mascherina per il selfie.

Accende sigarette al posto di lumini.

Nonostante le apparenze non scrive.

Smette il corteggiamento della frase.

Si prende la licenza di essere melenso.

È lezioso senza rammarico.

Ha paura ma ha paura di dirlo.

Se hai paura ti tirano le pietre.

Perde l’ultimo sparuto mutevole colpo di sonno.

Perde tolleranza, armonia e accondiscendenza.

Come sta?

Ha una quarantena nel cuore.

Sylvia Plath – Autopsia di un inconscio

Creación colectiva sobre la vida y obra de Sylvia Plath Temporada 2011” by matacandelas is licensed under CC BY-NC-SA 2.0.

La realtà è quella che mi invento

Un maniacale inseguimento della perfezione conduce difilato a una sanguinaria persecuzione di se stessi. In preda a un’idea fissa verso una suggestione mobile, la chimera del grande impeccabile incede nel mostro che porta la creatura dentro un vortice di afflizione. Il bello ideale conosce le regole del nascondimento: quanto più ci si avvicina tanto più l’utopia si fa distante. Ove si manca l’occasione, il patimento cresce sino alla piena. Nessun argine può contro il supplizio autoinflitto: la fotografia dello splendore massimo non trova spazio nell’elemento umano. L’affanno di un animo stanco che nel vizio rivela già la sua perfezione.

Sylvia Plath (Boston, 27 ottobre 1932 – Londra, 11 febbraio 1963) descrive la più inclemente giudice di se stessa, incalzando quel mito della perfezione che seguirà per tutta la vita. E tutta la vita di Sylvia è dentro quei trenta anni di creatività e supplizio. L’esistenza, nella grazia della natura, prende a muoversi nei versi, nelle fronde delle parole, in quel cielo screziato di sfumature e la luna, la grande madre severa, si fa sguardo imperturbabile sull’esistenza della poetessa. È la prima attrice de La Rivale, poesia dell’opera Ariel, libro postumo uscito nel 1965, due anni dopo il suicidio. La bellezza è dolorosa. Dallo spazio lunare, la bellezza illumina con fermezza annientatrice.

La scorsa di Sylvia sulla circostante distesa dell’esistenza è come quella di un esule che sosta nel perpetuo senso di abbandono. Gli esseri umani vengono al mondo con il solo fine di lasciarla, per confinarla dunque in una mordace solitudine; statuto speciale all’interno del quale la donna si dedica al suo personale sezionamento. Tante piccole tessere da indagare e resuscitare nel verso. Muove dalle sue membra per atterrare con forza all’interno dell’inconscio, operare dei tagli e infine abbattere il suo edificio vitale. Quanto più distrugge tanto più il verso rinasce. Vita e scrittura impattano in un gioco al massacro sino all’ultimo afflato.

La relazione più duratura è quella che la poetessa intreccia con il dolore. Sylvia è il suo processo: una corte marziale dove la vittima è trattata al pari del carnefice senza possibilità di appello o di assoluzione. Permeabile all’inquietudine, si dispone nella direzione di quel dardo che lei stessa prende a tirare. Esiste un monstrum, una creatura terribile e al contempo ammaliante che giace indisturbato sul fondale della sua anima. Indossa le sembianze sfocate di un dualismo che prende a vampirizzarla nel corpo per giungere più in fretta nei foschi scomparti della sua mente.

***

Risulta arduo tornare indietro dalla lettura della Plath.

Vi è un incessante flirtare con l’oblio, con un’immagine illusoria di ciò che vorrebbe essere e non sarà mai. Poiché quell’immagine non esiste se non nella costruzione certosina di un esile inganno. Il miraggio si impone nell’eccezionalità dei toni scuri sino all’ottenebramento.

***

Fortemente autobiografico, il romanzo La campana di vetro, rappresenta un percorso di scrittura dove la Plath si pone alla forsennata ricerca di un carattere ben definito. L’indagine è  importante, per tale motivo viene eseguita mediante uno pseudonimo: Victoria Lucas. L’opera ripercorre i luoghi mentali e fisici vissuti prima del tentativo di suicidio. La gestazione di uno stato d’animo spartito tra la disillusione e la mancata accettazione della sopravvivenza. Il disincanto attende ansante al termine della costruzione fantastica. Ogni uomo viene posto su un dubbio piedistallo per essere infine trangugiato da una realtà che vanifica la congerie onirica. L’elemento maschile è pertanto un portatore sano di solitudine. Le aspettative vengono puntualmente disattese, l’edificio crolla e, sfiancata dal suo lavoro di costruzione fantastica, crolla anche Sylvia. Ciascun disinganno si perde in un rivolo d’acqua esposto al gelo, vale a dire ghiaccio da sciogliere nei versi della sua lirica.  

Mi sentivo come un cavallo da corsa in un mondo senza ippodromi.

L’aspettativa gemica in ogni moto vitale.

***

Ad affastellare una mente sovraesposta al dolore, contribuisce il desiderio costante di due situazioni antitetiche e contrastanti. Da un lato vi è la ragazza destinata ad appagare i desideri dell’altro; la gigantografia rappresentata dal nucleo familiare e dalla società: esaudire un matrimonio che si faccia stabilità per la donna e la poetessa. Dall’altro sopravvive, non senza recalcitrare, la donna viva solo nella scrittura che guarda al matrimonio come un ostacolo alla realizzazione di se stessa nella parola. L’oscillazione tra i due stati è il terreno fatale di quel tormento che la seguirà per tutta l’esistenza.

***

Accade che la mente si rivolti in mondi altri e, in quell’altrove, la creatura si lasci cadere per rinascere in un essere perfetto, dunque fittizio. Sylvia è tutto questo e tutto questo è la scrittura di Sylvia: l’inclemenza di Sylvia sulla Plath.

Più sei un caso senza speranza più ti tengono nascosta

***

[…] lunghe gambe a descrivere la traballante aderenza al suolo.

Il pensiero, trascinato in vetta, soffre l’altitudine e la riduzione dell’ossigeno lo porta a una sincope tutta di mente. Il capo si fa pesante poiché trascina il fardello più pesante: l’insindacabile giudizio su se stessa.

  • da Anime Inquiete – 23 storie per mancare l’esistenza

Un modo di dire blu di Prussia

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Il grammofono suona una canzonetta francese: il salmo di una Fata. La voce di Edoardo devia la rotta di un sole che vorrebbe andare a colpire il parabrezza. Si riflette negli occhi di una mancata Fata per formare una cornice di latta e cristallo. L’uomo intima l’ALT! L’uomo in divisa intima l’Alt alla Fata di Bennato. Osservo la coda presa in mezzo alle zampe di un pastore tedesco crocifisso di terrore. Il perdersi, tutto suo, in una strada di esistenze al volante. Fisso quell’appendice di manto blu di Prussia e penso a quel qualcuno che giunge alla porta con la coda in mezzo alle gambe. Un modo di dire prende corpo e ripensamento. Il modo di dire si fa modo di essere. Ho visto un modo di dire farsi creatura. Ho visto una creatura farsi modo di dire. Il pastore tedesco, precluso alla devozione, insegna il modo di dire alla Fata: gli animali istruiscono gli esseri umani.

  • da Inchiostrando qua e là sul manto blu di Prussia, pag. 354

Jeanne Hébuterne – Le souffle de Modì

«Dedo pour les amis, ravi de faire votre connaissance»

Solomon R. Guggenheim Museum“Solomon R. Guggenheim Museum” by Moody Man is licensed under CC BY-NC 2.0

Incursioni contemporanee tentano l’indagine e l’insolente ricollocamento all’interno di abusate diagnosi. Svilente l’immagine di “donna all’ombra di Modigliani”; deprezzante quanto inesatta. Jeanne Hébuterne (Meaux, 6 aprile 1898 – Parigi, 26 gennaio 1920) resta sulla vetta più alta come la sovrana assoluta della vita e dell’arte di Amedeo Modigliani. Alcun vano referto di dipendenza affettiva ad abbattere l’esistenza di una giovane donna consapevole sino alla morte. Cosciente che l’amore per un’altra creatura valica persino la vita. Donna tra le donne, di tragica bellezza, scrive le pagine di un romanzo di fervente pulsione; danza funesta, debordante nel sentimento. Tre anni legano i destini di questi due creature dell’arte suprema, la tela che non contempla argini di salvezza; tre anni di creazione e dispersione; tre anni di colore e distruzione. Perché così è l’amore, nel diletto e nella croce, una vampa di romantica disperazione.

Noix de coco, appellativo introdotto da Léonard Tsuguharu Foujita, pittore giapponese per cui Jeanne fu modella e compagna, indica precisamente la sua bellezza: una noce di cocco a suggerire il contrasto tra il biancore del volto e il bruno lucente dei suoi capelli. Noix de coco è il trionfo definitivo e fatale della volontà di amare sopra ogni cosa. Una mareggiata dentro un’esile figura, un uragano pronto a scatenarsi davanti alla prima contrarietà invisa all’amore. Nulla può impedire a Jeanne di legare per sempre la sua anima a quella di Dedo.

Jeanne è la grande affermazione dell’amore sulla vita e oltre la morte, l’urto atavico sul cosmo tutto, l’opera d’arte totale seguita dall’elemento umano. Jeanne è la madre, l’amica, l’amante e il femmineo. Jeanne è la borghese che rinuncia alla borghesia, la figlia che rinuncia ai genitori, la madre che rinuncia ai figli. Jeanne è l’immolazione estrema in coscienza di sacrificio.

Parigi è la grondaia che vigila sulle vite disgraziate dei due amanti, una ville fiaccata dalla guerra che poco riesce sulla vita. Una città dalla quale si fugge solo per potervi tornare. Un distacco necessario al ricongiungimento. Nondimeno trattiene il calore di Montmartre, le lunghe notti trascorse a bere sino al delirio, il tempo sottratto al presente nel discorrere di quegli ideali soffiati via dal conflitto. E dunque tutto si sposta a Nizza; Modigliani e Jeanne vivono il rimando dentro una volata: passi destinati all’appassire nell’intelaiatura della Promenade des Anglais.

Modì, che sin da bambino, convive con una salute cagionevole, è altresì logorato dall’abuso di alcol e droga. Straviziato e malato, sovente si fa violento per poi tornare nelle pieghe del volto di Jeanne e farsi nuovamente amante innamorato. La donna, a fatica, ospita i suoi vizi, trattiene la gelosia, ingerendo quantità smodate di fiele e amore. Perché Jeanne è madre di un’altra Jeanne, la creatura nata dalla loro unione. E a Nizza, lontano da Parigi, porta in grembo un altro figlio.

In preda a deliri di autodistruzione, Modigliani ritrae altre donne. Elvira La Quiche disegna il legame di una vita: l’oscillazione perpetua tra la prostituta e l’assenzio. Una galleria di figure femminili popola la sua arte; incontri occasionali o incessanti, sotto lo sguardo di una città stanca. Parigi assediata tratteggia l’esatta riproduzione dell’anima martoriata dell’artista. Ogni angolo è lo squarcio sull’abisso che lo abita. Voragine in cui Jeanne si muove al buio benché in perpetua perlustrazione. In ultimo, la padronanza esibita da Modigliani, altro non è che l’esatta immagine della fuga: la segreta delle sue numerose fragilità.

***

Jeanne non sopravvive all’ombra di Modì. Jeanne è la creatura che assume su di sé le sfolgoranti tenebre dell’artista, facendosi luce anche nell’angolo più disgraziato della loro stamberga. E lo fa alla maniera dei grandi: in solitudine. Sul volto una malinconia che la rende tragicamente bellissima. Così è l’arte, così è la bellezza: tragica.

***

Dal 1918, la femme Coco, diviene la modella più ritratta dal pittore: lei in attesa, lei madre, lei finalmente donna. Le tele mostrano la dichiarazione di un’arte che parte dalla vita, versa sogni cocenti e torna nuovamente all’accadere di un sentimento pieno.

***

Il quinto piano in Rue Amyot a Pargi descrive l’ultima tela di Jeanne nel volo definitivo dentro il ventre oscuro dell’arte. Jeanne poteva sopportare tutto di Modì, ma non la sua fine dentro la quale si ricongiunge come in un’opera di Schiele: tragicamente meravigliosa.

Estratti da Anime Inquiete – 23 storie per mancare la vittoria

Jeanne Moreau – la première dame del cinema

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Esiste la bellezza inconfutabile, vorticosa e travolgente di Brigitte Bardot. La solarità nelle trame dorate di capelli, l’irresistibile richiamo di labbra e sguardo in quell’ingenuo vezzoso palpebrare. Esiste poi la bellezza e il suo carico, quel peso che fa di una donna bella, una creatura bellissima. Un fardello tutto di malinconia: dal cuore allo sguardo. Esiste il nietzschiano dardo lento della bellezza, un moto latente che non rumoreggia, ma penetra in silenzio, lentamente e in maniera definitiva. Esiste la bellezza come onere di una grazia nostalgica, negli occhi che raccontano una storia inafferrabile, quella dell’attrice, cantante e regista Jeanne Moreau. Il perdersi dentro lo sguardo in uno struggimento dal sapore remoto, una seduzione innata e ignara, che rende una donna lontana da qualsiasi posto e creatura.

Similmente la si contempla in Ascenseur pour l’échafaud, nell’epica passeggiata per le strade di una città che non le appartiene. Una sorta di pedinamento dove la macchina da presa, sembra essere asservita alle dipendenze di una dama lontana e conturbante in egual misura. È l’incontro decisivo con Louis Malle, la regia d’autore che promuove un’attrice nuova e fuori dagli schemi del cinema classico. Una Moreau con il pathos nell’espressione: davanti una pellicola devota e arrendevole. Il portare in trionfo la bellezza che non invade, ma lentamente penetra, sino a incollarsi indosso, bruciando senza addolorare. Non un piacere gaudente, ma un lento assaporare.

Il termine divina per questa maestosa signora di ottantasette anni, non sembra mai essere abbastanza. Musa della Nouvelle Vague, con l’opera Les Amants, regala a Louis Malle un’altra interessante figura di donna. Con lo stesso sottofondo malinconico, Jeanne Tournier, porta un bottino di scandalo che supera in corsa quello di Florence de l‘Ascenseur. Fuori dal personaggio del cinema di consumo, ancora un incanto inaccessibile si muove bellamente tra gli uomini. Ne sceglie uno con il solo fine di giungere sino in fondo a una trama che non le interessa. Il destino del carico della bellezza è tutto di solitudine.

Tali figure di donne, gravate dal peso dell’attrattiva misteriosa, paiono scontrarsi con quel sentimento più in sintonia con una bellezza meno sfingea: l’amore. Fissata nel volto della Lidia di Antonioni, vi è tutta la crisi della coscienza amorosa. Una paralisi che la rende impotente all’inesorabilità di una fine: quella del sussulto di cuore. Jeanne Moreau incarna alla perfezione la donna lucida e disincantata: la disillusione è nella città, dietro l’angolo, nel volto di un uomo incapace di amarla perché irraggiungibile.

Quello della diva francese è uno charme tutto di arcani nel ventre di una bellezza laconica. Il dettaglio corre dal campo cerebrale a quello carnale sino a depositarsi nella zona del sogno. Lo stesso François Truffaut, accanto al quale l’attrice si rende memorabile nella Catherine di Jules e Jim, la racconta in queste poche righe:

Ogni volta che me la immagino a distanza la vedo che legge non un giornale ma un libro, perché Jeanne Moreau non fa pensare al flirt ma all’amore.

Quell’amore che per un donna dall’attrattiva impenetrabile, assume il volto di una tensione continua che si alimenta nella certezza di una mancanza. Esiste pertanto il carico della bellezza che poche interpreti, pensando all’Italia è d’obbligo citare Silvana Mangano, portano sullo schermo, conferendo una vera e propria identità a un’incarnazione più cerebrale e malinconica.

Barbadillo, 15 settembre 2015

Il borgo

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Arrivai in paese con un paio di capelli lunghi e due suole brune acconciate ai miei piedi. No: arrivai in paese con un paio di scarpe rosso cremisi e una lunga stola di capelli. Non sapevano chi fossi. E io lo stavo ancora stabilendo. Autrice? Schiccheracarte? Saggista? Schiccherafogli? Scrittore? Ex docente? Majorette mancata? Aspirante amazzone? Madre perduta? Moglie chimerica? Frustrazione in movimento? Fierezza in crescendo? Con tre chilometri all’andata e tre al ritorno, tra uliveti e cagnette bianche in combattimento per mio giubilo, decisi di essere tutto quello che non fui e il grande nulla che diventai: un camminatore sulla strada verso il borgo.

  • da “Il romanzo che non scrissi”

Syd Barrett: Dioniso di Cambridge

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Syd Barrett (Cambridge, 6 gennaio 1946 – Cambridge, 7 luglio 2006), fondatore e primo leader dei Pink Floyd, immagine visionaria della corrente psichedelica, esprime la grandezza dell’artista e il vortice oscuro nel quale precipita. Leggendario in vita, eterno nella morte, perdura a scintillare attraverso la luce del suo diamante.

Dentro l’amore per l’arte nasce e muore la parabola infelice di un’epica leggenda della musica. Un riflesso che trascende quello sguardo profondo alternando malinconia a dispersione. Gli altri si turbano nei suoi occhi, lui si perde dentro se stesso. Una mente eccessivamente onusta per contenere una creatura debordante e priva di sponde: Syd Barrett. Fiabe e miti si avvicendano intorno alla sua figura. E ancora oggi, a un palpito dal decennale della sua morte, qualcuno lo va cercando, qualcun altro lo va imitando, tutto nella mancata accettazione di una storia triste. Il suo spirito disegna quello dionisiaco, del tutto descritto da Nietzsche proprio ne La nascita della tragedia dallo spirito della musica. Dioniso, divinità greca, diviene nel filosofo la forza dionisiaca: ebbrezza, delirio orgiastico e musica, l’elemento antitetico allo spirito apollineo. Nel dionisiaco, Nietzsche assimila la fonte originaria del pessimismo greco non decadente. Viepiù l’autore afferma che nella tragedia, la forza si esterna anche nel “lanciare lo sguardo nell’abisso”. Quel baratro che il diamante pazzo spadroneggia con così tanta veemenza da farne infine una infausta dimora, la voragine che il Dioniso di The Madcap Laughs non riesce a governare. Una complessità oscura si appropria del suo corpo e della sua mente. Impietosa segreta che lo espone a molteplici mutamenti nell’aspetto e nel pensiero.

Con il medesimo furore, l’impulso alla vita di dionisiaca appartenenza, rappresenta in Barrett, l’inchino alla morte. La fragilità del diamante pazzo, come ne La Tragedia, disegna lo spirito che individua e riconosce la fuggevolezza dell’esistenza. E la caducità in Syd, sottolinea il suo erculeo segno  di riconoscimento all’interno di una eccezionale sequela: la fulgente apparizione, la creazione di un forziere musicale straordinario e un allontanamento che non troverà più recupero poiché il primo strappo è quello da se stesso. Una natura artistica lo muove alla pittura, una inclinazione fortemente creativa lo traina nel verso musicale. A quattordici anni riceve in regalo una chitarra dai suoi genitori e, da quel preciso momento, il suo componimento sovrano nell’accadere del vivere si volgerà in tragedia. Pochi anni e lo stesso Barrett è nella decisione del nome del gruppo musicale: Pink Floyd. Appellativo erroneamente considerato sinonimo di Lisergic Acid Diethylamide, ovvero LSD. Al contrario il moto creativo è nei nomi di due bluesmen: Pink Anderson e Floyd Council. Tra pittura e musica, tra fiori e diamanti, si incunea all’interno del gruppo il primo movimento di esondazione della sua imprevedibile creatività.

Aveva addirittura troppo talento, se possibile. E anche uno strano carisma. Ma non c’erano avvisaglie in lui di quello che sarebbe successo in seguito. Era incredibilmente dotato per la pittura e sembrava esservi più interessato. Col senno di poi, era quella che non doveva mollare. Il music business è così pieno di imbroglioni e di sfruttatori che un vero artista è sempre vulnerabile.

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I diversi amplificatori che adopera nelle indagini musicali sono l’avvilente metafora dell’estensione di una pena, una deriva di quel grondante lato oscuro che si dilaterà all’interno dei suoi contorti meandri mentali.

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La vita dell’artista è nelle trame di una tragedia musicale poco incline alla fama e troppo favorevole a sconfinare quell’esile sbarramento tra la lucidità e la follia.

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Il diamante pazzo è nel ricordo di un giorno di giugno nello Studio 3 di Abbey Road, dove la band che non lo vede da anni, scorge una strana creatura in sala registrazione, in sovrappeso e con il capo rasato: è Syd.

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Barrett è nelle spire di Wish you were here e in quelle di Shine on you crazy diamond. Syd è nel ricordo indelebile di chi lo ha vissuto, nello scoramento di chi lo ha perso molto prima della morte, nella storia della musica e negli annali di una tragedia.

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Roger Keith Barrett è nel caos, incastonato nell’animo di un artista, in una No man’s land: tutto nel ventre oscuro di un diamante che continua a brillare.

  • Estratto da ANIME INQUIETE – 23 storie per mancare la vittoria

Pierre Drieu La Rochelle – L’âme doux

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«Spesso un Narciso che sogna di possedere essendo posseduto»

(Diario, 1939 – 1945)

È nel tacito principio di delicatezza che si incorniciano le cose nel silenzio lasciando l’operato al presagio. Sul medesimo solco si racchiudono i gesti nell’aura della stasi. È un contegno di attesa nel fluire del tempo acché il momento si consegni allo sguardo interiore. L’intima bellezza viaggia su rotaie di cristallo, tutto nella cura dell’emozione di esistenze altre. La delicatezza di Pierre Drieu La Rochelle (Parigi, 3 gennaio 1893 – Parigi, 15 marzo 1945), non tocca solo un movimento estetico, ma un vero e proprio moto dell’anima. La sua scrittura è un afflato di garbo, patrimonio di un mondo perduto e custodia di un gentile palpebrare: movenza impercettibile di uno sguardo mediante il quale vedere la vita, introiettarla e stoicamente rifiutarla. Le opere di Drieu, dai romanzi sino ai diari, figurano una galleria di riflessioni sull’esistenza e sulla spiritualità. Ogni singola pagina accoglie la direzione per restituire, attraverso un aforisma, un pensiero o finanche un interrogativo, fogli pronti a trafiggere per smarrirsi nella memoria. L’opera diaristica di La Rochelle, distintamente in Journal d’un délicat e, in misura maggiore, in Journal 1939-1945, romanzo e diario postumi ambedue, si muovono sulla piega dell’attualità, custodiscono lo spirito del tempo che, per alcune trame, si espande sino al nostro. La sua Europa è forata dal refolo dell’aridità. Per quanto l’autore veda nella scrittura diaristica un modello succedaneo del lavoro più profondamente creativo, le parole sono grazia trainata dalla complessità di uno spirito sopraffatto e deluso.

Il diario è qualcosa cui dedicarsi nel tempo perso pur restando un importante forziere di quella nobiltà pessimista che si incolla su ogni singolo tendine della mano scrivente. Pulsazioni vigorose vanno incontro alla vita e dalla stessa vengono avvilite. Scoramento che non cede alla resa. Al contrario, seppur all’interno di un suolo disincantato, si edifica sopra una presa di coscienza.

Per un esteta della malia attrattiva, l’immagine della donna rappresenta la principale sorgente dalla quale gemica la creazione. Donna come natura selvaggia; impulso e creatura intellettuale in una sola eccezione: Victoria Ocampo. La passione tra Drieu e Victoria figura una straordinarietà: la Ocampo è donna di intelletto. È un coup de foudre a intiepidire una fredda giornata parigina di febbraio. Siamo nel 1929, lo scrittore è al termine del suo secondo matrimonio. L’incontro tra i due è profezia della nascita di una passione dirompente quanto dolorosa. Per quanto in conflitto su diversi argomenti, sono due creature discordanti che suonano all’unisono. Si sfidano su temi politici, religiosi, etici. Controversie sedate da una stima reciproca: due abissi che si scontrano con il solo fine di incontrarsi. Per Victoria Ocampo, primogenita di un’agiata famiglia argentina, sposata – come molte liaison di La Rochelle –  ma di fatto separata, la lettura sottolinea una condizione per giungere all’autore. Nell’opera del dandy parigino, impatta con la curiosità per l’uomo. Un viaggio inchiostrale con il fine di giungere alla meta: attraversare lo scrittore. Insieme si avvieranno a un percorso comune, quello amoroso. Nel bagaglio, la consapevolezza di non essere la sola, ma l’unica fra tante. Quello della Ocampo è un trasporto generoso da diversi punti di vista, non ultimo quello economico. Tema ricorrente nelle relazioni intrattenute dallo scrittore. Una sorta di riconosciuto mecenatismo femminile per il quale l’uomo sente la sua inadeguatezza nei confronti delle “donne da marito”. Non si sente a proprio agio con la donna casta. A tale figura preferisce la compagnia di donne ricche che possono provvedere alla propria vita e, per estensione, a quella del letterato. Drieu è pervaso da una “impotenza a tratti” che trattiene l’aria di trovare origine nello sfioramento di una vergine.

Bisogna essere molto forti per amarti senza esserne danneggiati, Drieu

Il trasporto di Drieu per Victoria appare conflittuale quanto indispensabile. La fiamma si alimenta nell’assenza. Spregiudicato e tenero, cinico e amorevole, non si risparmia per quella creatura con la quale può discorrere di Céline, Joyce, Valéry. È necessario parlare di lei e con lei. Nella privazione e nell’attesa cresce la sua fiamma. Nella volontà di negare il moto geloso, invero afferma una fermezza di possesso. Le confessa l’inconfessabile. Indugia nel gioco dell’attesa per sfuggirle e poi tornare con veemenza a cercarla. L’amore tra la Ocampo e La Rochelle, non si realizza nell’appartenenza ma nell’idea indispensabile di appartenersi.  Victoria sarà l’unica donna a custodire il privilegio e la condanna di ricevere lo scritto testamentario con i motivi del suicidio dello scrittore.

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In Journal d’un délicat Jeanne è il disegno dell’universo femminile. Il dialogo malconcio tra l’eroico e la vita trova in lei la prima manifestazione. Una figura che lentamente si incunea nel suo rifiuto di amare; giunta troppo tardi nella vita dell’autore poiché egli si è infine disposto nel verso del divino. Ma Jeanne non nasce nel troppo tardi: il diniego di un delicato la precede. Una ripudia autoinflitta alla sessa stregua della sua autodistruzione, pertanto non sulla donna ma su ciò che rappresenta. L’intima rinuncia alla creatura femminile rappresenta il rifiuto della fine di un seduttore: Jeanne è tutte le altre e dunque lo specchio di un arresto. Un finale sigillato nel ventre della solitudine.

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La solitudine di Drieu La Rochelle uomo e scrittore – nella caducità di un animo che svela la fragilità dell’esistenza – incede in paura e la paura in pena. Una doglianza domandata come unica sospensione da un’afflizione perenne. L’immagine femminile è il trait d’union tra Drieu e la vita.

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La sterilità di La Rochelle si contrappone alla fertilità del mondo femmina in un fermo declino alla vita e all’amore. La sua opera impianta una preziosa occasione per sollevarsi da un caos effettivo, ubriacarsi di delicatezza e compiere una sorta di ascesi dentro la penna di uno scrittore elegante, scisso tra il grido eroico e l’autodistruzione.

 

  • Estratto da ANIME INQUIETE – 23 storie per mancare la vittoria