L’inconveniente di amare: Friedgar Thoma ed Emil Cioran

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“Per nulla al mondo – Pour rien au monde”, uscito nel 2010 per l’Orecchio di Van Gogh, torna in libreria in una nuova edizione per La scuola di Pitagora, a cura di Massimo Carloni, con il complemento di alcune lettere di Simone Boué indirizzate all’autrice Friedgard Thoma.

Père Lachaise, il cimitero di Parigi, uno sguardo assorto in direzione di una donna in stato di gravidanza e il principio di un mondo è lì a compiersi nel titolo dell’opera L’Inconveniente di essere nati. Un pensiero che zigzagando tra poesia e aforisma, si inerpica sul lubrico sentiero alla ricerca di un senso. Indagine che l’autore del libro, Emil M. Cioran, sviluppa in dodici capitoli di amara e folgorante consapevolezza. Otto anni dividono la nascita dell’opera (1973) dalla presa di una giovane professoressa tedesca (1981), Friedgard Thoma: comme on dit, galeotto fu L’Inconveniente di essere nati.

Numerose le lune disincantate trascorse sopra la vita del filosofo rumeno, una mole che dispone l’uomo nella collocazione strategica per essere trafitto da una detonazione chirurgica. Un congegno preciso sino all’incredulità, una sorta di cecchino caricato a passione che giunge nel momento giusto, colpendo l’autore sino all’ultima parola. Un cuore prostrato e con la guardia abbassata da tempo, descrive il miglior bersail per accomodarsi ai piedi di un ardore vivo e martellante: una donna inaspettata. L’eros penetra in Cioran alla maniera di una malattia. Malessere che si incunea brutalmente senza trovare resistenza alcuna. La sola opposizione è negli scritti di un “fu cinico”: ma pessimismo e nichilismo non delineano sovente l’esito di un “prima”, danneggiato nel ventre di un’idea, di un idealismo finanche storico o di un intimo debilitato?

Cara Friedgard,

ho pensato a Lei e a tutto quello che sarebbe potuto essere giovedì sera… se non avesse opposto resistenza. L’ho sentita sospirare e piangere. Per oltre un’ora le scene più intime si sono svolte nella mia mente, con una precisione tale che mi sono dovuto alzare dal letto per non impazzire. Abbiamo discusso troppo. Ho compreso in maniera chiara di sentirmi legato sensualmente a Lei solo dopo averle confessato al telefono che avrei voluto sprofondare per sempre la mia testa sotto la sua gonna. Come possono essere letali certe cose. – Tutto in fondo è cominciato dalla foto, con i suoi occhi direi.

Friedgard Thoma entra nella vita dello scrittore con la grazia di una lettera, il magnete di una foto e la potenza di un giovane uragano. Tempesta che trascina via ogni precedente convinzione sull’amore e fa di Cioran un uomo. Una creatura che abbandona il vecchio pudore di mostrarsi in tutta la fragilità di un debilitato dal sentimento. L’avvincente professoressa, donna nella completezza di una miscela letale di intelletto ed eros, muove i fili di una relazione che non vedrà mai il tramonto definitivo. La passione di Cioran è travolgente, una fiumana che lo trae in un pensiero fisso: un’ossessione di mente e carne. Dove è finito il Cioran pessimista, nichilista, cinico che non sente alcuna attrazione carnale per le donne con le quali stabilisce solo un’empatia intellettuale? Un vortice di ripensamenti sull’intera opera o una nuova prospettiva da adoperare?

Come può capitare, ad uno scettico di professione come me, di assumere un’attitudine così anti-scettica?

Accade poiché l’unica salvezza dell’essere umano è proprio nel ventre di quel sentimento fortemente maltrattato, fonte di impaccio e trattenuto nella sprovveduta convinzione di immortalità. È l’amore, quella giostra incredibile che in un istante porta in vetta, e in quello successivo, cala negli abissi più oscuri. E se lo si considera solo alla stregua di una bagattella, forse, di fatto, non lo si è mai incontrato. Tale riflessione perviene proprio da Al culmine della disperazione; alla luce dei fatti, degli ultimi anni e della Thoma, si potrebbe dunque ipotizzare uno strano caso di nichilismo profetico? Negare e negarsi qualcosa nella scrittura come atto per riaffermarsi con ancora più veemenza nella vita.

Gli inizi della loro relazione grondano di impeti e parole, di lettere e telefonate; pulsioni che portano a un rendez-vous anche fisico e a vivere una prima frattura. I due sono divisi da molti anni, Friedgard è giovane, il filosofo è già transitato sotto l’impietoso rigore del tempo. Per la donna le due diverse carnalità delineano un limite, guastando l’illusione di un amore puramente cerebrale. Per Cioran l’erotismo interrotto è la stillante ferita che solo il tempo farà meno dolorosa. Friedgard è il richiamo dell’intelletto capace di parlare di Nietzsche, di poesia e di riportarlo finalmente alla musica.

Cara Friedgard,

devo a Lei il mio ritorno alla musica – e questo non lo dimenticherò mai più.

 

In tale prospettiva la Thoma figura un azzardo: la donna completa. Cioran dispone di tale consapevolezza, ma non della forza di abdicare.  I fili della donna si spostano sopra il verso di un’intima amicizia, fatta di confronti e passeggiate sino a un’importante conquista: la fiducia della compagna di sempre dello scrittore, Simone Boué. Da un attacco fatto di lettere e telefonate ardenti, il tempo si farà medicamento, i toni volgeranno alla pacatezza e alla profondità di un amore importante. Il carteggio fissa la liturgia di un sentimento senile, nella perturbante dicotomia tra eros e rituali di inabissamento. Oltremodo una guida per il filosofo nella rivisitazione della misoginia delle sue prime opere. Un Cioran impensato, tratteggia la sentinella nell’opera di Friedgard Thoma.

Di seguito la lettera cuore del carteggio:

Cara Friedgard,

Ho appena riletto la Sua lettera pervasa di poesia – ho pianto (piango spesso da quando la conosco!). Ieri ho letto una citazione dalla Maitri Upanisad: il nostro corpo sarebbe una massa di lacrime. Quattro mesi fa, prima del suo viaggio qui, non avrei potuto sostenere questa affermazione in base ad una mia esperienza personale. Folle, bellissimo, straordinario! Da sempre ho tentato di liberarmi dalla ‘creatura’. La solitudine era la mia religione. In verità mi sono sempre sentito solo – con delle eccezioni tuttavia: la più singolare è la presente. Lei è diventata il centro della mia vita, la dea di uno che non crede in nulla, la più grande felicità e sventura che mi sia capitata. Order? Se pronunciasse questa parolina, ed io fossi morto, risorgerei all’istante. Dopo che per lunghi anni ho parlato con sarcasmo di tali… cose come l’amore (e simili) dovrei essere punito in qualche modo, e lo sono, ma non importa. Il fallimento è il punto cardinale del mio programma. Tuttavia ho una qualche possibilità: Lei è propensa a vivere ai margini, anche se solo un poco, ma questa riserva è già tanto – almeno per me. Mi considero un marginale, e interiormente reagirei come tale anche se venissi tradotto in tutte le lingue del mondo, compresa quella dei cannibali. Gli ultimi due versi di Eichendorff e gli altri ‘una Stella’ erano del tutto consoni al mio 14 luglio emotivo. Lei ed io, condividiamo certamente un ‘lato notturno’ e se penso a questa ricchezza comune, come pretendere che queste maledette lacrime non si impadroniscano ancora di me? 

Sarà per quel nulla al mondo, ma sembra che siamo fatti di quel nichilismo che auspica l’amore.

* Friedgard Thoma, Per nulla al mondo – Un amore di Cioran. La scuola di Pitagora edizioni, a cura di Massimo Carloni, traduzione di Piepaolo Trillini, revisione di Massimo Carloni e Lilla Mentrasti.

  • da Barbadillo, 4 febbraio 2017

Chi di macchietta fece virtù – Paolo Villaggio

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Muore a Roma all’età di 84 anni l’attore Paolo Villaggio, noto soprattutto come il ragionier Ugo Fantozzi. Interprete di numerose pellicole, dirette da registi di fama internazionale, uno su tanti, Federico Fellini, resta nell’immaginario collettivo come colui che di macchietta fece virtù. (da Barbadillo, 3 luglio 2017)

È per quell’incessante battagliare racchiuso dentro a quel “vorrei ma non posso” che attanaglia le vite di molti comuni mortali. La tensione perpetua verso il lavoro migliore, quando non il capo più amabile. Il turbamento alla volta di quella signorina tutta ossa e riccioli ritenuta così bella, purché non rappresenti la moglie; e perché no, anche il desiderio, per nulla celato di poter mostrare al mondo una figlia più aggraziata. Nondimeno l’uomo torna sempre a quel caldo condominio all’apparenza ricusato, capace di scatenare in lui anche forti gelosie di fronte a una Pina innamorata di un energumeno tutto farina e capelli. Più che dell’archetipo dell’uomo medio, descrive la figura dei desideri mai appagati, qui circoscritti nella classe sociale del ragionier Ugo Fantozzi, ma dilatabile all’infinito umano: la brama dell’irraggiungibile conciata a festa e sarcasmo.

De facto lui è Paolo Villaggio nella descrizione dell’epico ragionier Ugo Fantozzi, colui che con maestria e sapienza ha saputo pepare il fondale di quel “vorrei ma non posso” e farne risata nazionale. La figura è mitologica non solo nel caricaturale ma anche nella misura in cui porta alla riflessione e al fluire delle domande: quanti non inveiscono alle spalle del proprio capo? Quanti non desiderano la donna d’altri? E quanti ancora non scivolano in ineffabili goffaggini al cospetto dell’oggetto del proprio desiderio? Fantozzi non è superabile, ma valicando per un momento tali interpretazioni, risulta, oltre ogni analisi antropologica o presunta tale, ricordare le capacità di un attore che ha saputo abbracciare diverse generazioni e carpirne la risata con destrezza e sagacia. Con i suoi dieci “Fantozzi”, da quelli di Salce a quelli di Parenti, ha donato modi di dire, leggerezza e quel sottile sarcasmo da custodire gelosamente nel nostro cassone di preziosi cinematografici.

Anche se l’identificazione con il personaggio del ragioniere è stata così chirurgica da portare spesso a confondere, almeno nell’eloquio comune, Fantozzi con Villaggio, è significante sottolineare come l’attore abbia lavorato con grandi registi: da Grimaldi a Corbucci, passando per Fellini, Comencini, Scola e Magni. Con Federico Fellini il rendez-vous avviene nel 1990 proprio sul set del suo ultimo film La voce della luna. Da “Il poema dei lunatici” di Ermanno Cavazzoni, il regista romagnolo dirige Paolo Villaggio dentro l’interpretazione di una malinconica creatura metafisica: il prefetto Gonnella. In volata con Ivo Salvini (Roberto Benigni), vivono il tempo saturnino della Pianura Padana. I due protagonisti in uno struggimento nostalgico ascoltano la voce dei pozzi e quella della luna, nel rifiuto di un’imminente contemporaneità che neroneggia sull’esistenza. Paolo Villaggio resta impresso nella pellicola dentro la sequenza di un ballo, quando nella buglia ansimante e rumorosa ritrova infine la donna amata e perduta. La volta azzurra è quella di un valzer:

Il ballo è un ricamo

è un volo

è come intravedere l’armonia delle stelle

è una dichiarazione d’amore.

 

Paolo Villaggio è ancora l’umano quanto burbero maestro Marco Tullio Sperelli in Io speriamo che me la cavo di LinaWertmüller. È interprete di una lunga e fortunata carriera, segnata, come ogni grande che si rispetti, anche da qualche flop. Poche righe che non figurano un addio, l’artista nell’ovvietà di chi scrive, continua a vivere nelle proprie opere, ma solo una piccola occasione per ricordare la valentia di un interprete che di macchietta fece virtù.

La banalità dell’amore

L’immagine è sotto licenza 
by G4GTi
 CC BY 2.0

 

La Banalità dell’Amore è un’opera scritta in chiave teatrale sul discusso legame sentimentale tra la teorica della politica Hannah Arendt e il filosofo Martin Heidegger. L’autrice, Savyon Liebrecht, adotta la scelta narrativa della pièce teatrale, ambientando la storia tra i due amanti su un palcoscenico diviso a metà; qui i ricordi si riavvolgono e si sovrappongono in un’unica certezza: l’amore tra la Arendt e Heidegger.

Un campale palcoscenico suddiviso in due parti ben distinte a farsi voce di una storia; la narrazione di un dissidio amoroso, storico e identitario: il discusso legame tra Hannah Arendt e Martin Heidegger. È un memoriare che l’autrice Savyon Liebrecht, ne l’opera La Banalità dell’Amore, sceglie di cadenzare mediante il verso teatrale. Una pièce che, tra retrospezione e sovrastruttura temporale, riammanta in sé il sistema spazio tempo e rivela, alla maniera di una sceneggiatura, i dissidi scardinanti le vite dei due protagonisti. Conflitti che dal palco si fanno stemmi ferenti di un corpo dilaniato in senso e senno, in carne e ratio, in nazione e appartenenza, in memoria e presente di un’anziana Arendt che si riavvolge in una giovane Hannah.

Il primo attore si esibisce nell’imponenza di una metafora dell’assenza che comanda la volta del palco: la creatura divisa. Nella pièce il dissidio è rinvenibile al cospetto di una Arendt che, subito dopo un infarto, viene invitata da un presunto studente di filosofia a rilasciare un’intervista sul processo Eichmann per gli archivi dell’Università di Gerusalemme. L’altra, nella divisione del palco e dell’esistenza, è nella fanciulla Hannah, la giovane studentessa di filosofia di Martin Heidegger presso l’Università di Marburgo. Sul tavolato le due donne comunicano da differenti scenari: l’appartamento di New York nel 1975, luogo dell’intervista e la baita dell’amico Raphael Mendelsonhn nel 1924. Il rifugio nella Schwarzwald figura il latibolo amoroso, inesorabile, drammatico e edace tra la studentessa di diciotto anni e il professore di trentacinque, sposato a Elfride Preti e padre di due figli.

Da una lettera di Heidegger alla Arendt:

Tu rappresenti una nuova felicità per me, per la quale sono riconoscente ogni giorno. Non potrei immaginare la mia vita senza di te, senza parlarti, senza vederti, senza toccarti. Tu sei parte di me. La notte ti sogno. E ho capito che sarebbe stato così sin dal primo momento in cui sei entrata nella mia classe, con l’impermeabile e quel tuo buffo cappello calcato fin sopra gli occhi. E alla prima frase che ti è uscita di bocca ho riconosciuto le tue qualità, la tua sensibilità, l’attitudine alla ricerca, ad andare in fondo alle cose.

Nello scorrere della pièce, la suggestione segue le orme della fantasticheria nell’evocazione del poeta Rainer Maria Rilke poiché l’azzardo si svolga in un peculiare abrégé, dentro le Elegie Duinesi; distintamente l’incipit della prima: “… perché il bello è solo l’inizio del tremendo”, poiché la liaison tra la Arendt e Heidegger non può che essere custoditaa in tale virgolettato “Il bello è solo l’inizio del tremendo”. Per entrambi, mai pensiero fu più profetico. Tutto il sentimento che investe i due amanti descrive la profezia di un’oscurità che ottenebrerà le loro esistenze per molto tempo.

Sul palcoscenico è nuovamente il conflitto ad agguantarsi la scena, con disinvoltura e guitteria si muove all’interno di Hannah, la donna dalle origini ebraiche investita da un sentimento tracotante quanto fosco per l’uomo che è sempre più vicino ad Adolf Hitler. Ma Heidegger non le parla di Nazionalismo quanto della rinascita del mito nella cultura tedesca e la rassicura in merito alla questione ebraica:

Quello che dice a proposito degli ebrei è un chiaro espediente per ottenere più voti, nient’altro. Quando arriverà il momento capirà che è meglio mettere da parte la questione ebraica e concentrarsi sulla rinascita della nostra cultura. Ed è questa la cosa importante: la nostra cultura. Che non ha eguali al mondo fin dall’epoca dell’antica Grecia. E la nostra lingua, la più sublime, l’unica nella quale sono in grado di esprimere il mio pensiero.

Naturaliter, la storia porterà ambedue in altre direzioni poiché “il bello è solo l’inizio del tremendo”. La Arendt su quel palcoscenico è marionetta i cui fili sono fortemente tirati da infesti dualismi: è tedesca, è ebrea, naturalizzata statunitense, sopra un suolo edificato sul livore di tutti. Un primo odio le proviene dalla Germania poiché “piccola giudea”; Israele non le riserva un trattamento migliore con un disprezzo più maturo per aver minimizzato la crudeltà di Adolf Eichmann ne l’opera La Banalità del Male. Libro nel quale spiega che il male di Eichmann è banale in quanto ordinario: è l’assenza di un dialogo con se stessi, una mancanza di pensieri a fare di un uomo ordinario il grande simbolo del male. Ancora violente folate di ripugnanza per essere stata l’amante di Heidegger e infine il malanimo di un intervistatore che si rivela il figlio del suo più caro amico Raphael Mendelsohn che la crede una doppiogiochista. Un’unica chiave rende solide le fondamenta di quel palco diviso, l’amore per Martin Heidegger:

Eternamente identici…

Accadono storie che annunciano l’imminenza del dramma al primo palpebrare. Vi è una piccola voce che resta inevasa poiché emette un unico suono per una sola volta: è quella vibrazione che porta il tempo a raddurarsi per un istante impercettibile. Ogni amante si fa sordo proprio a quel momento poiché sa che “il bello è solo l’inizio del tremendo”. E quel tremendo è il migliore che possa capitare in un tutta la vita.

 

*La Banalità dell’Amore, Hannan Arendt e Martin Heidegger, Storia di un sentimento mai sopito, di Savyon Liebrecht,  Edizioni e/o, pp 114, euro 14

  • da Barbadillo, 30 giugno 2017

Je ne suis rien

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Nel nauseabondo subisso che intasa la rete attraverso un “je suis” quotidiano, si scorge, anche da lontano, uno stillicidio fatto contraddizione. Si potrebbe osare nella consultazione, non totalmente inappropriata, la voce di qualche pagina del DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) per azzardare un’anomalia dissociativa dell’identità. Ma la realtà è sempre più agevole del repentaglio di una fantasia e figura come la triste constatazione che un giorno siamo gli eroici “Je suis” per divenire nell’istante successivo i detrattori di quella stessa asserzione.

Nel disturbo ipotizzato dal manuale si contempla ugualmente una perdita di memoria, tratto che ben si accomoderebbe a una quotidianità tutta intrisa di “Io sono” e non, nostro malgrado, “Cogito ergo sum”. In troppo flusso di coloro che sono qualcuno, personalità scritta, dichiarata, twittata e anzitutto udita, la sola logica si trova nel non pensare a tutto ciò che non siamo. Non siamo Hebdo, non siamo Amatrice, non siamo la Siria, la Turchia o il Bataclan. Non viviamo la morte di coloro che hanno perso la vita per una vignetta, per quanto la satira, quel tipo di satira, possa o non piacere. Nella satira non vi è compassione, ma se ne trova ancor meno nel dichiararsi qualcuno che non si è. Non siamo Amatrice, Accumoli e Arquata del Tronto. Si può provare a immaginare, i più sensibili finanche a sentire, ma le nostre notti non sono vampirizzate dalla presenza di un dolore per la perdita di un figlio, una moglie o un amico. Non trascorriamo le giornate in una zona di guerra con la paura, che non è un fantasma, sempre innanzi. Quel terrore di non sapere se l’alba del giorno dopo, seppur di sangue, sorgerà ancora.

La compassione è un sentimento, un’empatia verso qualcuno, seguita da un irrefrenabile istinto di alleviare lo squarcio. Ed è presumibile che alberghi in molti di noi, ma per il tramite di una pietas che domanda silenzio. L’emozione quanto più si fa dichiarata e viene alla luce, soprattutto sotto quella illusoria della ribalta virtuale, tanto meno si rende onesta. Se con il gagliardetto in petto ci si è sentiti Hebdo, si è stimata la loro nota satira rivolta verso o contro chiunque, oggi non ci si dovrebbe indignare per una linea di condotta che è stata sempre la medesima. O, ancora, non si doveva essere alcun Hebdo in un passato non molto remoto. Non ci si schiera solo quando la cosa non ci riguarda da vicino, ci si dispone indipendentemente, poiché si crede fedelmente in quella parabola. Personalmente, e questo poco importa, non amavo le vignette di Hebdo prima dell’attentato e oggi ancor meno. Ma non sono mai un “Je suis” se non il “Je suis” del nulla che mi abita davanti allo strazio di qualcuno. Dolore di fronte al quale mi percepisco impotente e troppo spesso anche inutile.

La satira comporta cattiveria e, deridere, seppur crudelmente, è il suo compito: nella coerenza colpisce tutti e indistintamente. Non si tratteggia una giustificazione, ma si invita a ritrovare un’identità, un gusto, qualcosa che sia solo nostro e ci renda identificabili al di fuori di un post virtuale o vitale che sia. Diversamente si scivola nella diagnosi del manuale, dove nulla vi è di biasimevole, ma il merito non è compreso. Siamo creature con una propria personalissima storia e questo ci deve distinguere naturalmente dal voler essere sempre qualcun altro che non possiamo sentire. Quanti hanno sentito il terremoto, hanno pianto, hanno provato dolore, ma quanti sono Amatrice nella sua essenza di un cuore distrutto. Solo Amatrice è Amatrice.

L’indignazione non è a comando, lo sdegno non è a oltranza, il disgusto non sale su un carro ricolmo di esacerbati. Il risentimento è intimo quanto la pietà. Certamente la collera può farsi rimbombante, ma mai a intermittenza. È l’introspezione raccolta dentro noi stessi che dovrebbe condurci verso l’idea del giusto o dello sbagliato; considerazioni che prescindono da qualsiasi morale. E l’etica non è comunitaria, non si trova all’interno delle tendenze twitter o nel volto indignato del noto di turno. Non si tratta di coerenza, ma solo di comprensione, di capire finalmente da che parte stare e starci. Di essere noi e definitivamente noi, vestire i nostri abiti e non importa che non rispondano alla chiamata della corrente, sono i nostri abiti. Si vuol desinare con il cattivo? Si faccia. Si vuol indugiare nel mal pensiero? Si resti. Ma tutto nella consapevolezza che i nostri nemici di oggi non possono evolvere in amici dei nostri nemici di domani.

Je ne suis rien.

  • da l’Intellettuale Dissidente, 3 settembre 2016

 

Figli di una letteratura superiore: il tesoro del dottor Destouches

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L’eccezionale saggio di Andrea Lombardi offre la rara occasione di conoscere e comprendere le molteplici e spesso contrastanti sfumature del genio di Céline attraverso una mole notevole di documenti, interviste, ricordi, lettere.

Una babilonia di questioni reali o virtuali volteggiano intorno al quesito dei quesiti: “qual è il libro che cambia la vita?” La scelta può ricadere su risposte multiple che circoscrivono il prodigio in un numero che oscilla tra il cinque e il dieci. Ma il libro che marchia è come il grande amore: uno e definitivo. Il resto è nient’altro che tributo di quell’uno, orbita del podio. La nostra risposta che risulta interessante solo per il valore inestimabile dell’opera oggetto dell’articolo, cade senza alcun dubbio su il Voyage au bout de la nuit di Louis-Ferdinand Céline. È il viaggio in quella lettura che irrompe mediante una frattura estrema; tra un prima ricolmo di allettanti verità e un dopo debordante di sconsolanti certezze. Lo smascheramento di un’umanità priva di speranza, che nello scorrere della pagina, si fa ineluttabile scoramento. Ma il viaggio diviene anche indagine sull’autore. Céline si incolla indosso, è quella realtà che più tenti di non guardare, più scava in profondità per riproporsi ogni volta nel tuo personalissimo giro di angolo. E allora succede di ritrovarsi all’interno di Mort à crédit nell’inchiostro delle prime righe già impresso sulla pelle:

«Eccoci qui, ancora soli. C’è un’inerzia in tutto questo, una pesantezza, una tristezza…»

Fardello, che ancora a conclusione della lettura, si fa nuovamente pungolo alla curiosità. Un avanzare tortuoso che passa per i discussi Pamplhet spingendosi sino alla Trilogia del Nord: le agitate acque che non si arginano. Il tomo che prendi, lasci e riprendi in una sorta di stato d’animo conflittuale, per quanto calamitante. Si resta sulla soglia di un linguaggio che non permette la via di mezzo tra il trangugiamento e la distanza. Si rimane frastornati da quella scrittura che non è parola, misura e ancora parola. Disorientati da una punteggiatura che a scuola avresti scontato infine con la penna rossa. Ma sopravviene l’urto fragoroso di percepirne la grandezza. Si viene investiti da quel gigantesco timore reverenziale di trovarsi presumibilmente al cospetto del più grande scrittore del XX secolo. E allora la spirale è ancora nel procedere, nell’avanzare in un’insaziabilità che raramente si manifesta. Una voracità e un’ingordigia che riescono a trovare una sospensione in un meraviglioso prodigio cartaceo, tutto impregnato di Monsieur Céline. Un portento colma l’italianissimo vuoto celiniano, a cura di Andrea Lombardi e con la collaborazione di Gilberto Tura su Louis Ferdinand Auguste Destouches. È una tavola bandita a festa, un banchetto romano dove ogni appetito trova soddisfacimento. Quelle trecentodiciotto pagine ove il lettore coglie l’occasione di incontrare le numerose vite dell’autore; qualunque contraddizione si annienta all’inizio e al termine di ogni ulteriore esistenza. Si sosta incuriositi su un Destouches patriottico ed entusiasta di andare in guerra. La stessa che lo fagociterà nell’orrore del suo inchiostro. Si indugia sullo svelamento che Mort à crédit riconosce un altro traduttore, oltre al noto Giorgio Caproni. Un Caproni appassionato anche nel raccontare un presunto rammarico; l’eccitazione e il dolore di aver offerto una voce all’intraducibile Céline e, insieme, a tutte le ombre che l’operazione comporta.

Si solidifica la certezza, attraverso saggi e documenti, di un monumentale innovatore linguistico e letterario. Lo scomodo latore di una frattura: la lingua scritta evolve sulla pagina in lingua parlata. La parola si fa ritmo in un cadenzare disarticolato che figura in imprecazione al reale; invettiva contro l’accadere fatale dell’istante. La martoriata mente del medico di Meudon è il luogo dove la fantasia cede fievolmente il posto a nuovi colori: fosche tinte di rancore iperrealistico.

«Mi importa soltanto lo stile», asserzione peculiarmente celiniana che tende a riproporsi come emblema di scrittura in tutto l’attraversamento del libro. E accade che quello stile, non custodisca altro nome che il suo, dentro un’unicità definitiva e inimitabile. In un’epifania di neologismi, la sua lingua si spiega all’infinito, alla maniera di un lenzuolo tirato da più parti nel cuore della vita. Una scrittura che si fa ”l’oltre-scrittura”, il superamento di quel francese che non può e non vuole essere grido di dolore fuori dall’inchiostro nero d’avorio di Céline. E dall’altra parte della parola giunge un “oltre- intellettuale” che per scorrere nel foglio abbisogna di insozzarsi nell’abisso, liberato dalla volontà di emanciparsi da una voragine certa. La guerra è dichiarata all’illusione. E Céline indossa la pagina con tutta la repulsione che lo abita, disarciona la letteratura, getta tutto l’orrore nel ventre dell’ingiuria. Un percorso a ostacoli che, zigzagando tra i puntini, si arresta al cospetto di un esclamativo; sbandamento tra l’arretrare e l’incedere, tra i cadaveri e la puzza che lo scrittore mai si concede di tacere.

È il disincanto che investe l’esistenza umana in una pagina in corsa; l’addio al sogno nel benvenuto a quell’artista, quell’unico artista, che cambia la vita in un Vojage scuro quanto l’esistenza. Céline, medico delle banlieue, è la lanterna che illumina il macabro collasso dell’Europa; non pone psichiatrici “se”, mostra la tenacia della grande caduta. Un modus che trova le radici nella resa della realtà come il verso di un’immediata rovina. Sciagura, che in special modo nell’uso dell’argot, rivela il proprio naturale sviluppo. Un’attitudine a svelare l’ineluttabile attrattiva della sua epoca verso l’apocalisse, attraversa tutte le preziosissime pagine del libro. La ritroviamo nelle parole di Ezra Pound in un discorso radiofonico del 1943:

«Bonjour, Ferdinand/ non credo sia il mio dovere il catalogare le

pubblicazioni francesi/ ma riconosco sempre un vero libro quando ne

vedo uno/ a prescindere dal contenuto/

Ferdinand ha saputo TROVARE la realtà/Ferdinand è uno scrittore

Il prossimo sarà l’ultimo/

Gnrr gnrrgnrrgnrr.

Suicidio della nazione.

Gnières! Gn/gn

Questo sarà il suicidio della nazione.

Non si ritornerà più al paese.

Non solo per la sua copia, l’abbondanza delle sue parole/Non solo per il

suo contenuto/ Si deve leggere Céline un giorno o l’altro. I membri attivi

del pubblico devono COMPRARE le loro copie de l’École des Cadavres/

non basta ascoltarmi per 5 minuti alla radio, o di sfogliare una delle sue

opere a casa di un amico».

Ancora in quelle di Pierre Drieu la Rochelle, attraverso il saggista Frédéric Saenen:

«Drieu scopre in Céline ben più che un temperamento nichilista. Comprende che il medico dà una diagnosi spietata sulla società solo per pervenire meglio a guarirla dai mali che la opprimono; e che malgrado l’onnipresenza della morte nel suo universo, è in fondo la vita che intende servire, con l’esaltazione della danza, del canto, d’una poesia dell’anima inaudita sino ad allora nella letteratura francese».

Un volume che, nell’impagabile cura di Andrea Lombardi, si fa prezioso forziere, messaggero di aneddoti, curiosità, vicende e storie che colmano il vuoto italiano in materia di Céline. Si mostra l’incontro di un Destouches con l’eminenza della beat generation, tutta in una curiosità: la scoperta che gli amati cani del medico servono apparentemente solo per causare fracasso. Con meraviglia si leggono e rileggono le parole di Charles Bukowski in merito al suo viaggio all’interno del Vojage. Nelle parole dell’illustratrice Eliane Bonabel irrompe un eccezionale ricordo. Una discreta amicizia della durata di trenta anni; colei che per prima lo incontra dopo il lacerante ritorno dalla Danimarca:

«L’espressione di “Céline veggente” è stata talmente usata che è divenuta quasi banale, ma di fatto esatta. Anche negli ambiti che gli interessavano poco aveva delle folgorazioni straordinarie che vedo confermate nel tempo. Non è il suo comportamento a volte pittoresco che lo rendeva unico, ma la struttura della sua mente, un tipo di rapidità d’analisi, dei lampi che non ho riscontrato in nessun altro. Non amo le espressioni magniloquenti, ma il termine di genio non mi sembra esagerato se riferito a lui. Eppure, più che l’essere eccezionale, più che lo scrittore unico, è l’amico premuroso e gentile, dalla sensibilità quasi femminile che ricordo. Il nostro rapporto è stato caloroso, ma senza mai la minima confidenza; tutto era implicito, senza pettegolezzi inutili né sentimentalismi. Sapevamo, ciò bastava».

Un saggio da dischiudere lentamente, un remoto baùle in cui i ricordi si fanno corporei in una prodigiosa danza della memoria. Una visione fantastica che contempla una delle due interviste rilasciata dalla sua unica figlia Colette Destouches-Turpin. Il medico è nello scrittore, lo scrittore è padre di puntuta distanza in un sigillo di sangue e amore:

«Eccolo da me, si getta tra le mie braccia, e allora lì lo riconobbi. È così leggero, così vecchio… Non parlammo. Le nostre lacrime che cadevano, qualche parola incoerente, ed era tutto… avevamo detto tutto…»

Nulla si può trascurare nel fondo di tale cassa, ancor meno la reminiscenza di uno degli ultimi quattro vicini del Destouches di Meudon; Pierre Duverger, tutto in un’enunciazione definitiva: «Céline? La lucidità del nostro orrore».  Un cappello magico dal quale Lombardi estrae le parole della bella romanziera Maud Sacquard de Belleroche:

«Ho avuto numerosi amanti, ho frequentato tantissimi scrittori, e ho conosciuto il successo letterario. E un giorno, leggendo Nord, mi trovo personaggio del romanzo… Quello che vi posso dire, è che in tutta la mia vita, di scrittori e uomini di successo ne ho incontrati parecchi. Ma di geni, uno solo; e quel genio era Céline. Un genio così, non si incontra tutti i giorni! Ve lo posso dire…»

E ancora foto, ricordi, lettere: il voyage nella letteratura. Un voyeurismo famelico finalmente saziato. Un vuoto colmato da quel magico scrigno che troneggia fiero in un volume da collezione.

– Louis-Ferdinand Céline. Saggi, interviste, ricordi e lettere (Ed. Italia Storica, pp. 324) A cura di Andrea Lombardi con la collaborazione di Gilberto Tura

  • da l’Intellettuale Dissidente, 18 luglio 2016

Gabriella Ferri – Calliope romana

Musa del canto romano, ispiratrice di una sua personalissima Odissea, Gabriella Ferri è la malinconica Calliope “testaccina”.

Romana come il primo dei sampietrini conficcato sul suolo dell’Urbe. Grazie a una meravigliosa Dove sta Zazà, inclina la sua voce anche nel verso partenopeo. E fluttuando tra la Campania e il Lazio, si fa grandezza di un patrimonio tutto italiano. La Janis Joplin dei vicoli romani è la nobile custode di un’estensione rocamente poderosa – l’allegoria dell’amica italica dello statunitense Tom Waits. Poiché se di interpretazione popolari si è sempre parlato, è nell’elemento del blues che la Ferri incunea le sue ballate; possibilità di fulgore ed espansione.  In Dove sta Zazà – scritta nel 1944 da Raffaele Cutolo – “il possesso dei diavoli blu” è tutto in quel ciondolare tra un inizio lento e disperato, indugiando nel parlato sino ad arrivare alle vette di un grido lacrimante.

Gabriella Ferri è nel blues quanto nello scanzonato, nella teatralità come nell’intimismo, narra l’unione simbolica del “clown bianco” e “l’augusto”, una combinazione esplodente dove il basso e l’alto volteggiano all’unisono. Il bianco è la grazia di Remedios o di Sempre. L’augusto è descritto dal voltolarsi con Enrico Montesano nell’interpretazione de A Cammesella  o dagli stornelli con Claudio Villa. Un dualismo peculiare di ogni grande artista che termina troppo spesso in una lacerazione privata. Strappo, tanto prezioso alla sua arte, ove il popolare si accomoda nel ricevimento del blues. E la vita, quella vera, fuori dal palcoscenico? La melodia blu evolve nel colore di una malinconia tutta di silenzio e vuota di versi. Dunque silente, brutalmente taciturna, mesta nondimeno detonante. La musa è quella di una mitologia; una dilatazione fatta disperazione: una presunta gloria sancita proprio dal respingimento di un Sanremo qualunque, peculiare sorte che negli anni diviene l’abbraccio caloroso nella misura della grandezza.

La Ferri donna è tutta dentro quei grandi occhi bistrati di nero, uno sguardo malinconico, talmente ripiegato su se stesso da non riuscire a scorgere la manta che è congegno di amore da qui al per sempre. Non nella morbosità di un dettaglio biografico, ancor meno nell’occupazione di una sacralità mortuaria, ma nel rendere omaggio in una piccola ode si fonda  lo scritto: elegia di una barcarola controcorrente, dentro il testo Vamp di Paolo Conte e nelle corde di una ballata triste in Stornello d’estate.

Voce al sapore di miele e fiele, vigorosa nel canto, fragile al cospetto di una esistenza impietosa. Dentro una bellezza fatta di trame dorate, si incolla indosso con le oscillazioni vocali nell’immagine  di un eyeliner nero quanto la sua caducità. Patrimonio italiano, popolarmente vertiginosa, amata da un amore insolvente. La musica conserva un obbligo d’amore con Gabriella Ferri.

da IlGiornaleOFF, 24 dicembre 2016

Gustavo Adolfo Rol – Nella storia di Torino

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Il principio assoluto e definitivo:

il destino ha finalmente incontrato la vita.

(G.A. Rol)

Il nome e la vita di Gustavo Adolfo Rol (Torino, 20 giugno 1903 – Torino, 22 settembre 1994) non possono in alcun modo essere disgiunti dalla città natale: Rol è dentro il racconto favoloso sino a farsi lui stesso narrazione leggendaria.

L’alba della città risplende nel sole dell’Egitto ed è legata alla grande dea madre Iside. Proprio in un reperimento si recupera l’informazione, un lambello a richiamare il motivo votivo consacrato a Iside. Il culto della dea, in una Torino prima di Cristo, risalta con grande forza. Iside è legata alla magia e a quel che si tramanda sulla sua figura: «Dove tu guardi pietosa l’uomo morto ritorna in vita, il malato è guarito». Gustavo Adolfo Rol è dunque del tutto in connessione con Torino, città, oltre la mitologia stessa, contraddistinta da storie e misteri sovente confinanti con la magia. Il fatto di aver soggiornato in posti diversi quali Marsiglia, Parigi, Edimburgo, consente a Rol di avvertire Torino come uno stato dello spirito, una condizione integrante la sua persona.

Ci si appella a una frase presumibilmente appartenuta al commediografo greco Aristofane, quella che vede la patria il posto dove si prospera, per disegnare il legame tra l’uomo e la città. Ed è proprio nel capoluogo piemontese che il dottor Rol vigoreggia, contribuendo alla stessa maniera della dea Iside, a porre alcune guarigioni particolarmente misteriose. Non si considera un veggente, un sensitivo, un indovino e ancor meno un parapsicologo. L’essere tacciato di magia rappresenta un’onta. Rol è un uomo di cultura, consegue tre lauree, studia con impegno, si dedica all’antiquariato e soprattutto dipinge. Alcuna cornice può delineare i contorni della sua immagine. Mediante l’uso delle mani esercita facoltà prodigiose. Capacità che descrive la spinta lavica verso il prossimo. Non si sostituisce ai medici, più volentieri si fa sostegno e supporto per la medicina. Non domanda compensi, è cattolico: credente e praticante. L’unico mago che riconosce è Dio:

Dio è inconsumabile, ed essendo Dio in noi, la vita fisica non si spegne. Io credo nella Resurrezione, nella continuità degli affetti e nella necessità di una temporanea morte, la quale non è altro che un cambiamento.

Appare certamente curioso pensare a un uomo, da molti considerato vicino all’esoterismo, come una creatura devota e fedele alla preghiera cristiana. Di fatto Rol descrive il fuoco di uno spirito libero, si infoschisce nello spazio della magia, ma si offre a molteplici episodi che in qualche modo la evocano. Considerato, nonostante la sua espressa ritrosia, il più grande sensitivo del XX sec., Rol forma il suo pensiero sullo spirito intelligente. In tale teorizzazione non si ravvisa alcuno scontro con la fede. Secondo l’insegnamento dello spirito intelligente, l’essere umano è circondato dagli oggetti e ognuno di questi è capace di farsi portatore di una determinata mansione. Tale compito perpetua anche dopo la fine dell’oggetto. Pertanto tale concezione nasce in virtù del fatto che proprio l’individuo prende parte alla fabbricazione dell’oggetto. In simile catena, la cosa è entrata, anche solo per sfioramento, in adiacenza con altre cose. Il risultato della vicinanza o del toccamento è la nascita di un legame, che non tramonta, ma passa di oggetto in oggetto. Per Rol è certo che esiste uno spirito intelligente delle cose e in logica, tale procedimento avviene anche nell’animale e nell’uomo. L’individuo possiede lo spirito intelligente, un carattere che conosce il passato, il presente e il futuro, mediante l’adiacenza o lo sfioramento della cosa. In tal modo lo spirito dell’uomo resta sulla terra anche dopo la sua morte.

Rol precede qualsiasi obiezione in un distinguo: lo spirito è indipendente dall’anima. Quest’ultima infatti non conosce fine; è immortale e oltremodo dopo la fine si ricongiunge con Dio. È proprio in questo innesto inconsueto tra fede e sperimentazione che risiede l’eccezionalità di Rol. È una creatura concitata nella conoscenza, un temperamento cadenzato dall’arte: la musica, la poesia e infine la pittura. Ed è proprio nella la figura del pittore che ama riconoscersi. Una considerevole sensibilità lo avvicina alle persone, segnatamente per gli esperimenti che il dottore definisce di coscienza sublime, ovvero la consapevolezza di possedere una sagace intuizione in merito al destino e alla natura degli uomini.

A volte deriso, altre venerato, appare plausibile indagare una zona franca nel particolare non trascurabile di aver agito senza finalità economiche.

Gustavo Adolfo Rol è nelle pieghe della sua Torino e nei ricordi dei numerosi personaggi illustri dell’arte e della società. È nelle parole del regista Federico Fellini che è possibile rinvenire la memoria di un individuo carismatico e calamitante. La stima tra lo “spirito intelligente” piemontese e il cineasta romagnolo è, come spesso accade, simmetrica e reciproca. L’uno vede nell’altro l’espressione di una personalità illuminata da una grazia superiore. Nei ricordi di Fellini si rintracciano episodi che tendono a confondersi con la propria debordante fantasia.

Uno dei tanti è nella genesi del film Giulietta degli spiriti, qui nelle parole di Fellini:

“Il sette di fiori. Rol stava dimostrando un trucco con le carte. Dovevo prendere una carta a caso dal mazzo e così mostrai il sette di fiori. Con la sua abituale solennità, Rol mi disse di tenerla sul mio petto senza guardarla. Poi mi chiese: “In quale carta la devo trasformare?” Quindi presi un’altra carta a caso. “Nel dieci di cuori” risposi. Ma mi mise in guardia: “Ricorda, Federico. Non guardare mai il sette di fiori.” Avevo la carta appoggiata al mio petto e Rol cominciò a conferire con la mia mano e il sette di fiori, con lo sguardo fisso e penetrante. Sfortunatamente, fui colto dall’irresistibile urgenza di guardare la carta. Non ho mai dimenticato ciò che vidi: una spaventosa e grigiastra massa putrefatta, una pappa di porridge rivoltante in cui i contorni del sette di fiori si dissolvevano, lasciando una ragnatela di vene sanguinolente. In quell’istante era come se qualcuno mi avesse afferrato gli intestini e li avesse strappati violentemente. Prima di svenire, comunque, ebbi la soddisfazione di tenere in mano il dieci di cuori. Riporto i fatti come li ho vissuti. Sono curioso. Mi interesso a tutto e credo in tutto.”

E nelle memorie di Rol piovono ricordi del regista:

“Tu, solamente tu sei immenso, caro Federico, ed ogni istante trascorso con te è qualcosa che si rivela, illumina l’intelletto e conforta il sentimento. In ogni cosa che dici, nei tuoi gesti, sul tuo stesso volto, affiora tutto ciò che la tua mente ha creato e si accinge a farlo. Ho sempre creduto che le tue opere sono una impellente necessità che il tuo spirito ha di esprimersi come un generoso dovere verso l’umanità che spera.”

Senza voler entrare nel merito delle sperimentazioni, ma esclusivamente nell’istantanea di un personaggio che entra di diritto nella galleria di coloro che vissero sopra o sotto ogni tentativo di inventariato, resta il fascino di un uomo che si impianta in completezza nella storia.

Una natura mossa dall’irrequietezza propria della conoscenza, dove arte e mistero si fondono per dar luce a una creatura capace di accogliere tutte le sagomature artistiche e vitali.

  • da il libro ANIME INQUIETE

Il canto fiero di un’isola: Andrea Parodi

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A poco più di un decennio dalla morte di Andrea Parodi, un ricordo dell’artista e del suo ultimo concerto.

La sua madrina, MariaCarta, è la dea dell’antico canto sardo, una creatura dalle corde primitive, la cui passione parte da Siligo e arriva in tutto il mondo. Il suo padrino è Fabrizio De André, il cantore ligure, legato nella stessa maniera di Maria Carta, alla valorizzazione del dialetto nella musica. La figura battezzata dal pentagramma dei due artisti è Andrea Parodi. Parodi non è solo la voce del gruppo Sole Nero o de Il Coro degli Angeli e infine dei Tazenda; l’artista ritma la più bella colonna sonora del valoroso popolo sardo.

È il timbro etereo nell’esibizione sapiente di un uomo, l’interprete e cantautore dalle doti straordinarie. È colui che si impuntura indosso il brano Non potho reposare, un’ode all’amore, scritta nel 1915 da Salvatore Sini e in seguito musicata da Giuseppe Rachel. La lirica vive il turbamento di un cielo bellico e, proprio in virtù di questo, il sentimento si fa oltremodo travolgente; A diosa (dallo spagnolo dea) diviene la celebre Non potho reposare, a ripresa del primo verso. In questa storia, tutta sarda, un evento si desta nella memoria.

La storia di Parodi è scritta nella timbrica e nel suo patrimonio musicale. Ma esiste un giorno che resta scolpito nei cuori della gente e rende ogni angolo di questa isola un palco stillante di bellezza. Il 22 settembre del 2006, accade nell’Anfiteatro Romano di Cagliari un evento che valica in grandezza l’eccezionalità di qualsiasi concerto: l’artista e l’uomo si fondono nella struggente melodia di un grido umano che giunge infine al più soave dei sussurri. Andrea Parodi, visibilmente debilitato dalla malattia, la stessa che dopo solo ventidue giorni lo porterà alla fine, si esibisce in una delle più grandi manifestazioni che la storia musicale ricordi.

E non vi è enfatizzazione in tale descrizione, la realtà supera ogni parola che si possa scrivere per narrare questa storia: incommensurabile la partecipazione emotiva e quella artistica. L’uomo e il cantore si donano al pubblico nella pienezza di una generosità che fatica a scomparire nel ricordo, finanche dopo molti anni. Quando la fine è vicina, ogni istante della nostra esistenza è tanto più prezioso e, nella possibilità offerta dal dono, l’artista si consacra all’eternità.

Quel 22 settembre del 2006 descrive il grande tempo della consunzione, epoca di un corpo di cuore votato alla musica per farsi potente lezione di vita.

Andrea Parodi interpreta, tra le altre, Gracias a la vida di Violeta Parra, mediante un garbo che adopera per cantare la sua riconoscenza. Gratitudine a un’esistenza che sta per abbandonarlo, non prima di averlo omaggiato di una voce angelica: la linfa vitale che agevola la comunicazione universale. Seppur nell’afflizione del male, da grande uomo, assolto da vana sicumera, il suo grazie alla vita va nel verso dell’amore: riconoscimento sussurrato al cielo per l’incontro con la moglie. Quella donna che è madre e grande madre, accudendolo amorevolmente alla maniera di un figlio richiedente.

Poiché l’amore è spostamento di forze: dall’uno all’altro e ritorno. Ancora un grazie alla vita, la stessa che Violeta Parra si è tolta dopo aver scritto proprio il brano Gracias a la vida. Esistenza con la quale Parodi, già dentro un’amara consapevolezza, scherza e gioca, stabilendo la sua intenzione di continuare a vivere. E magari avere un altro figlio. La conclusione del concerto è nel canto dei canti della terra sarda, Non potho reposare, eseguita dentro un carme struggente da un’esile figura, dove un virtuoso regista avrebbe colto il fotogramma più bello. Un fermo immagine sullo sguardo tra il cantore e la moglie commossa, figura il commiato nella tristezza, ma al contempo nella bellezza di una lacrima che le tavole di alcun palcoscenico possano mai trattenere.

Andrea Parodi resta il simbolo intenso di una terra fiera e silente, un’isola straordinaria che affida il suo cuore al canto del più grande dei suoi artisti. A coloro che non hanno mai incontrato la testimonianza video di quel concerto, va il più pertinace degli inviti per veder spuntare Parodi dal monte.

  • da IlGiornaleOFF, 10 maggio 2017

Lezioni d’amore con Jean-Louis Trintignant ed Emmanuele Riva

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Il canone inverso del regista Michael Haneke: dal possibile all’impossibile.

Esiste tutta una letteratura di amori impossibili festeggiati dalla stessa impossibilità. Condizione che alimenta il sentimento sino a farlo apparire come unico plausibile: l’amore impossibile è dunque il solo possibile. Troneggia nella sfera poetica, spadroneggia nel romanzo e abita la chimera, alimentato da incanti e intricate congerie. È tutto un perdersi in incontri immaginari con i votati al sogno sacrificale del sentimento: Didone ed Enea, Orfeo e Euridice, Romeo e Giulietta.

Amori resi eterni dall’impossibilità di realizzazione. Sussulti incantati che sobillano la sfera del sogno, agitano l’illusione, regalano l’abbaglio della celebrità, in quella zona dove alcuna realtà riesce a fare irruzione. L’amore romantico è patrimonio del segreto che abita ognuno di noi. Un battito nascosto da custodire gelosamente, poiché nella possibilità di realizzazione, risiede la sua fine. L’incanto urta il disincanto, e in quella vampa, dimora tutta la cenere della realtà. Una deflagrazione che rade al suolo il più potente dei miraggi, una collisione senza possibilità di ritorno: l’oggetto del desiderio si umanizza e perde tutto il carico di fascino acquisito nella costruzione illusoria. Ogni istante di permanenza nel reale, diviene sottrazione di favola.

È un meccanismo tutto di mistero quello del sentimento impossibile, una galvanizzazione nel tragico, una epifania dell’incapacità, un delirio da proteggere dall’incursione dell’imminenza affinché resti puro e immutabile.

Accanto a tale letteratura di romantica impossibilità vivono gli altri: creature che abitano l’ordinario. Sono le emozioni immolate all’incedere quotidiano: sdegnano la potenza dell’illusione. Accolgono il calore della grande realtà: ferma e manifesta. Sono gli eroi dell’effettivo presente: l’affidabilità che alcun sogno potrà mai raggomitolare. Esseri consapevoli dell’ineluttabilità della morte come interruzione di amore e di vita. Creature che tratteggiano un percorso inverso, fissando il punto di partenza in un sussulto di cuore nel luogo del possibile.

Sono Emmanuelle Riva e Jean-Louis Trintignant, i monumentali protagonisti di Amour, la pellicola di Michael Haneke, premiata nel 2013 con il premio Oscar. Anne e Georges sono una coppia di ottantenni che ha certamente letto l’impossibilità di una Desdemona e un Otello e, in tale tragicità, ha riconosciuto la consapevolezza letteraria. Amour è l’amore inverso: dal possibile all’impossibile, dal reale all’immaginario, da qui a un altrove. Un canone capovolto che, nell’esecuzione quotidiana, trova la sua linfa: è nelle pieghe dei piccoli gesti di garbata tenerezza. È nel sottofondo della dimora domestica, nella sopportazione dell’amare nonostante l’amore, nel compatimento di note liberate dal sogno letterario. Un percorso schivo, lontano dalle luci della ribalta, un prendere consistenza in quella vita fatta anche di ricevute, emicranie e temute ovvietà.

La macchina da presa di Haneke sottolinea, mediante la fissità, lo scorrere lento della vita di Anne e Georges. Legati da un lungo arco vitale in condivisione, divengono i personaggi mitici di un amore impossibile. Una frattura, un elemento esterno, giunge sul viale del tramonto delle loro vite tranquille: la malattia. L’ictus della donna è il mesto componente cristallizzatore: un amore reale si incunea nel tribolato solco di un’emozione impossibile. Due individui si fanno creature evanescenti, sospese in un presente di tragica urgenza nell’attesa della morte. Nel film, la tenerezza di Haneke, esplode in Trintignant nelle fattezze di un sentimento atroce: un’antinomia propria dell’amore tragico. Una tranquilla esistenza condotta mano nella mano, figura improvvisamente come il più epico trascinamento dentro il grembo dell’eros e il thanatos: Georges si fa l’Orfeo di Anne, Euridice, Didone, Giulietta.

È l’irruzione dell’impossibilità nel reale, del drammaticamente disgraziato nel tranquillo condominio familiare, il passaggio da individuo a personaggio, da contenuto a forma. Involucro investito dall’assenza di decoro che nella malattia custodisce il principale detrattore. L’amore trova prolungamento nell’interruzione della vita: la fine dell’uno è la conclusione dell’altro. Il sentimento pieno e condiviso continua nell’altrove di un’ode, nell’impossibilità tematica del romanzo letterario, nell’ascesa alla dimensione poetica.

Haneke è un acuto osservatore del caos che abita l’animo umano, registra inesorabilmente, avvalendosi di dialoghi ridotti all’essenziale e di una discreta presenza della colonna sonora, quasi un’assenza. La macchina da presa è un garbato scandaglio dell’individuo, immortala il declino del corpo e della mente attraverso una lucida e asciutta analisi del martirio. Nonostante per due ore non accada praticamente nulla, la pellicola, in una sorta di cinema da camera, calamita alla stessa maniera di un film d’avventura per l’animo umano. Squarciante e dilaniante, l’opera è nel tempo dell’attesa, un affresco sul disumano vampirizzare esercitato dal male sull’uomo.

La malattia di Anne è un efferato Don Rodrigo, una Venere implacabile, una folle Bertha tra Jane Eyre e Mr Rochester, un impedimento crudele e vorticoso. È un agguato che trova posa nel tempo dell’impossibilità, un universo letterario accogliente e chimerico. Anne e Georges sono la coppia di eroi quotidiani, sono l’accadere dell’amore autentico: dalla vita sino alla solennità di una polverosa biblioteca, il principio del matrimonio che in quel “finché morte non ci separi” diviene favola letteraria. Nella pellicola di Haneke si stravolge il criterio in un canone inverso: dal possibile di amore, all’impossibile di “Amour”.

  • 28 dicembre 2015

Lezioni d’amore

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* da Barbadillo.it, 17 ottobre 2015

È in una piccola scuola di provincia che lo svagato insegnante di storia dell’arte, si reca ogni giorno da anni per assegnare vita alle proprie lezioni. Lui è il professor Giordano (non è dato sapere se lo sia nel nome o nel cognome), ma da sempre “prof. Vano” per gli alunni. Alquanto garbato nella voce e nella gestualità, meno nelle fattezze fisiche, forte di un calore precisamente adolescenziale, privo di quella malizia riservata al fascinoso docente di francese, alimenta quotidianamente la passione per la sua materia.

È di ieri l’altro la lezione tutta neoclassica nell’allegoria mitologica del gruppo Amore e Psiche. Prof. Vano non risolve nella spiegazione, non lavora in opera di premessa, non si adopera in fiumane di gessetti, ma sottrae l’attenzione fanciullesca al tempio virtuale nella solennità di una mostra. Il momento canoviano, descritto dal marmo bianco, è quello che precede il bacio. L’istante del prima, quello che resta nella memoria degli amanti per sempre. Il tempo dell’amore accade dentro un respiro tra un’antecedenza di attesa e un séguito di volontà teso alla conservazione dell’attimo.

Il segreto della passione è tutto in quel piacere fatto di sospensione: nella tensione verso l’altro che è oltremodo irripetibile. Il turbamento nasce dall’impossibilità di possedere il baleno che, in un ineluttabile avanzamento, non trattiene il segreto per riviverlo. Nel mancarsi degli amanti si alimenta la speranza. Il momento è quello fugace che si festeggia nella caducità del lampo d’amore. Il sentimento si risolve nella perfezione che non contempla l’avvento di un dopo. Un oltre che nel pensiero è già paura della perdita, chimera del viversi quotidiano, richiesta tentennante di certezza: certezza di imperfezione. Ma se il prima è coronamento di cuore e il dopo lacuna di sussulto, cosa avviene nel tempo del mentre? La classe si desta alla riflessione e al dubbio sul mistero dei misteri: tutto è mancanza, tensione e assenza? Il professore da svagato sognatore si fa serio e tenta la considerazione nella volontà di dar voce all’inesplicabile.

Se dagli archetipi è necessario partire, ai classici esuli dalle biblioteche scolastiche, bisogna domandare.

La questione nasce nella piccola scuola di provincia e approda in un’isola remota del Giappone: Uta-jima, l’isola del canto. Tra pescatori di perle e melodie che risuonano dal mare, Yukio Mishima descrive il tempo del mentre di cuore: l’amore è una cosa semplice.
Shinji e Hatsue si deificano nell’avverarsi del prima e sfuggono alla negazione di un dopo imperfetto. La poesia ancor più classica di Amore e psiche, prende vita nell’opera La voce delle onde per sgombrare il campo di cuore da tensioni superflue. L’inquietudine, attraverso la possibilità di realizzazione del sentimento, giunge a un equilibrio di natura, corpo e spirito. Nella semplicità di due creature si compie quello che nell’arte è solo appartenenza dell’istante. Il mare seppur in tempesta è fluida cornice, il carico di lavoro è forza di volontà e le illusioni aderiscono solo al cavillare mentale dell’ispirazione artistica.

Leggere La voce delle onde di Yukio Mishima si completa in un atto del tutto simile a quello del contemplare un’opera d’arte, ponendo il veto a divagazioni estetiche ornamentali, in un cosmo dove l’incontro tra femminile e maschile appartiene alla sfera del possibile. Lo scrittore giapponese abbandona la trepidazione presente in romanzi precedenti, quali Confessioni di una maschera o Colori proibiti e fissa, in un amore innocente e virtuoso, il mentre dell’emozione. Nel tempo in cui la carne non brucia nella carne, l’ammirazione di corpi dei due giovani protagonisti è già profezia di nozze: lirica di due creature che seguono, non anticipando, il corso delle cose. La passione è rapimento che non si farà mai cenere. Nel sorprendersi del turbamento e nella volontà di conservarlo, il tesoro emotivo non si disperde nella fretta. Questo il tempo del mentre che il professore svagato, percorre nella piccola scuola di provincia. Una eco lontano che si riappropria della cultura classica e rinasce in guizzo di vita nella speranza, sovente, sottratta alla contemporaneità.

Ieri l’altro, gli alunni del professor Giordano, hanno visto accadere Mishima nella voce dell’isola di Uta-jima e oggi sanno che l’amore è anche una cosa semplice.