Je ne suis rien

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Nel nauseabondo subisso che intasa la rete attraverso un “je suis” quotidiano, si scorge, anche da lontano, uno stillicidio fatto contraddizione. Si potrebbe osare nella consultazione, non totalmente inappropriata, la voce di qualche pagina del DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) per azzardare un’anomalia dissociativa dell’identità. Ma la realtà è sempre più agevole del repentaglio di una fantasia e figura come la triste constatazione che un giorno siamo gli eroici “Je suis” per divenire nell’istante successivo i detrattori di quella stessa asserzione.

Nel disturbo ipotizzato dal manuale si contempla ugualmente una perdita di memoria, tratto che ben si accomoderebbe a una quotidianità tutta intrisa di “Io sono” e non, nostro malgrado, “Cogito ergo sum”. In troppo flusso di coloro che sono qualcuno, personalità scritta, dichiarata, twittata e anzitutto udita, la sola logica si trova nel non pensare a tutto ciò che non siamo. Non siamo Hebdo, non siamo Amatrice, non siamo la Siria, la Turchia o il Bataclan. Non viviamo la morte di coloro che hanno perso la vita per una vignetta, per quanto la satira, quel tipo di satira, possa o non piacere. Nella satira non vi è compassione, ma se ne trova ancor meno nel dichiararsi qualcuno che non si è. Non siamo Amatrice, Accumoli e Arquata del Tronto. Si può provare a immaginare, i più sensibili finanche a sentire, ma le nostre notti non sono vampirizzate dalla presenza di un dolore per la perdita di un figlio, una moglie o un amico. Non trascorriamo le giornate in una zona di guerra con la paura, che non è un fantasma, sempre innanzi. Quel terrore di non sapere se l’alba del giorno dopo, seppur di sangue, sorgerà ancora.

La compassione è un sentimento, un’empatia verso qualcuno, seguita da un irrefrenabile istinto di alleviare lo squarcio. Ed è presumibile che alberghi in molti di noi, ma per il tramite di una pietas che domanda silenzio. L’emozione quanto più si fa dichiarata e viene alla luce, soprattutto sotto quella illusoria della ribalta virtuale, tanto meno si rende onesta. Se con il gagliardetto in petto ci si è sentiti Hebdo, si è stimata la loro nota satira rivolta verso o contro chiunque, oggi non ci si dovrebbe indignare per una linea di condotta che è stata sempre la medesima. O, ancora, non si doveva essere alcun Hebdo in un passato non molto remoto. Non ci si schiera solo quando la cosa non ci riguarda da vicino, ci si dispone indipendentemente, poiché si crede fedelmente in quella parabola. Personalmente, e questo poco importa, non amavo le vignette di Hebdo prima dell’attentato e oggi ancor meno. Ma non sono mai un “Je suis” se non il “Je suis” del nulla che mi abita davanti allo strazio di qualcuno. Dolore di fronte al quale mi percepisco impotente e troppo spesso anche inutile.

La satira comporta cattiveria e, deridere, seppur crudelmente, è il suo compito: nella coerenza colpisce tutti e indistintamente. Non si tratteggia una giustificazione, ma si invita a ritrovare un’identità, un gusto, qualcosa che sia solo nostro e ci renda identificabili al di fuori di un post virtuale o vitale che sia. Diversamente si scivola nella diagnosi del manuale, dove nulla vi è di biasimevole, ma il merito non è compreso. Siamo creature con una propria personalissima storia e questo ci deve distinguere naturalmente dal voler essere sempre qualcun altro che non possiamo sentire. Quanti hanno sentito il terremoto, hanno pianto, hanno provato dolore, ma quanti sono Amatrice nella sua essenza di un cuore distrutto. Solo Amatrice è Amatrice.

L’indignazione non è a comando, lo sdegno non è a oltranza, il disgusto non sale su un carro ricolmo di esacerbati. Il risentimento è intimo quanto la pietà. Certamente la collera può farsi rimbombante, ma mai a intermittenza. È l’introspezione raccolta dentro noi stessi che dovrebbe condurci verso l’idea del giusto o dello sbagliato; considerazioni che prescindono da qualsiasi morale. E l’etica non è comunitaria, non si trova all’interno delle tendenze twitter o nel volto indignato del noto di turno. Non si tratta di coerenza, ma solo di comprensione, di capire finalmente da che parte stare e starci. Di essere noi e definitivamente noi, vestire i nostri abiti e non importa che non rispondano alla chiamata della corrente, sono i nostri abiti. Si vuol desinare con il cattivo? Si faccia. Si vuol indugiare nel mal pensiero? Si resti. Ma tutto nella consapevolezza che i nostri nemici di oggi non possono evolvere in amici dei nostri nemici di domani.

Je ne suis rien.

  • da l’Intellettuale Dissidente, 3 settembre 2016

 

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