Muore a Roma all’età di 84 anni l’attore Paolo Villaggio, noto soprattutto come il ragionier Ugo Fantozzi. Interprete di numerose pellicole, dirette da registi di fama internazionale, uno su tanti, Federico Fellini, resta nell’immaginario collettivo come colui che di macchietta fece virtù. (da Barbadillo, 3 luglio 2017)
È per quell’incessante battagliare racchiuso dentro a quel “vorrei ma non posso” che attanaglia le vite di molti comuni mortali. La tensione perpetua verso il lavoro migliore, quando non il capo più amabile. Il turbamento alla volta di quella signorina tutta ossa e riccioli ritenuta così bella, purché non rappresenti la moglie; e perché no, anche il desiderio, per nulla celato di poter mostrare al mondo una figlia più aggraziata. Nondimeno l’uomo torna sempre a quel caldo condominio all’apparenza ricusato, capace di scatenare in lui anche forti gelosie di fronte a una Pina innamorata di un energumeno tutto farina e capelli. Più che dell’archetipo dell’uomo medio, descrive la figura dei desideri mai appagati, qui circoscritti nella classe sociale del ragionier Ugo Fantozzi, ma dilatabile all’infinito umano: la brama dell’irraggiungibile conciata a festa e sarcasmo.
De facto lui è Paolo Villaggio nella descrizione dell’epico ragionier Ugo Fantozzi, colui che con maestria e sapienza ha saputo pepare il fondale di quel “vorrei ma non posso” e farne risata nazionale. La figura è mitologica non solo nel caricaturale ma anche nella misura in cui porta alla riflessione e al fluire delle domande: quanti non inveiscono alle spalle del proprio capo? Quanti non desiderano la donna d’altri? E quanti ancora non scivolano in ineffabili goffaggini al cospetto dell’oggetto del proprio desiderio? Fantozzi non è superabile, ma valicando per un momento tali interpretazioni, risulta, oltre ogni analisi antropologica o presunta tale, ricordare le capacità di un attore che ha saputo abbracciare diverse generazioni e carpirne la risata con destrezza e sagacia. Con i suoi dieci “Fantozzi”, da quelli di Salce a quelli di Parenti, ha donato modi di dire, leggerezza e quel sottile sarcasmo da custodire gelosamente nel nostro cassone di preziosi cinematografici.
Anche se l’identificazione con il personaggio del ragioniere è stata così chirurgica da portare spesso a confondere, almeno nell’eloquio comune, Fantozzi con Villaggio, è significante sottolineare come l’attore abbia lavorato con grandi registi: da Grimaldi a Corbucci, passando per Fellini, Comencini, Scola e Magni. Con Federico Fellini il rendez-vous avviene nel 1990 proprio sul set del suo ultimo film La voce della luna. Da “Il poema dei lunatici” di Ermanno Cavazzoni, il regista romagnolo dirige Paolo Villaggio dentro l’interpretazione di una malinconica creatura metafisica: il prefetto Gonnella. In volata con Ivo Salvini (Roberto Benigni), vivono il tempo saturnino della Pianura Padana. I due protagonisti in uno struggimento nostalgico ascoltano la voce dei pozzi e quella della luna, nel rifiuto di un’imminente contemporaneità che neroneggia sull’esistenza. Paolo Villaggio resta impresso nella pellicola dentro la sequenza di un ballo, quando nella buglia ansimante e rumorosa ritrova infine la donna amata e perduta. La volta azzurra è quella di un valzer:
Il ballo è un ricamo
è un volo
è come intravedere l’armonia delle stelle
è una dichiarazione d’amore.
Paolo Villaggio è ancora l’umano quanto burbero maestro Marco Tullio Sperelli in Io speriamo che me la cavo di LinaWertmüller. È interprete di una lunga e fortunata carriera, segnata, come ogni grande che si rispetti, anche da qualche flop. Poche righe che non figurano un addio, l’artista nell’ovvietà di chi scrive, continua a vivere nelle proprie opere, ma solo una piccola occasione per ricordare la valentia di un interprete che di macchietta fece virtù.