Il canone inverso del regista Michael Haneke: dal possibile all’impossibile.
Esiste tutta una letteratura di amori impossibili festeggiati dalla stessa impossibilità. Condizione che alimenta il sentimento sino a farlo apparire come unico plausibile: l’amore impossibile è dunque il solo possibile. Troneggia nella sfera poetica, spadroneggia nel romanzo e abita la chimera, alimentato da incanti e intricate congerie. È tutto un perdersi in incontri immaginari con i votati al sogno sacrificale del sentimento: Didone ed Enea, Orfeo e Euridice, Romeo e Giulietta.
Amori resi eterni dall’impossibilità di realizzazione. Sussulti incantati che sobillano la sfera del sogno, agitano l’illusione, regalano l’abbaglio della celebrità, in quella zona dove alcuna realtà riesce a fare irruzione. L’amore romantico è patrimonio del segreto che abita ognuno di noi. Un battito nascosto da custodire gelosamente, poiché nella possibilità di realizzazione, risiede la sua fine. L’incanto urta il disincanto, e in quella vampa, dimora tutta la cenere della realtà. Una deflagrazione che rade al suolo il più potente dei miraggi, una collisione senza possibilità di ritorno: l’oggetto del desiderio si umanizza e perde tutto il carico di fascino acquisito nella costruzione illusoria. Ogni istante di permanenza nel reale, diviene sottrazione di favola.
È un meccanismo tutto di mistero quello del sentimento impossibile, una galvanizzazione nel tragico, una epifania dell’incapacità, un delirio da proteggere dall’incursione dell’imminenza affinché resti puro e immutabile.
Accanto a tale letteratura di romantica impossibilità vivono gli altri: creature che abitano l’ordinario. Sono le emozioni immolate all’incedere quotidiano: sdegnano la potenza dell’illusione. Accolgono il calore della grande realtà: ferma e manifesta. Sono gli eroi dell’effettivo presente: l’affidabilità che alcun sogno potrà mai raggomitolare. Esseri consapevoli dell’ineluttabilità della morte come interruzione di amore e di vita. Creature che tratteggiano un percorso inverso, fissando il punto di partenza in un sussulto di cuore nel luogo del possibile.
Sono Emmanuelle Riva e Jean-Louis Trintignant, i monumentali protagonisti di Amour, la pellicola di Michael Haneke, premiata nel 2013 con il premio Oscar. Anne e Georges sono una coppia di ottantenni che ha certamente letto l’impossibilità di una Desdemona e un Otello e, in tale tragicità, ha riconosciuto la consapevolezza letteraria. Amour è l’amore inverso: dal possibile all’impossibile, dal reale all’immaginario, da qui a un altrove. Un canone capovolto che, nell’esecuzione quotidiana, trova la sua linfa: è nelle pieghe dei piccoli gesti di garbata tenerezza. È nel sottofondo della dimora domestica, nella sopportazione dell’amare nonostante l’amore, nel compatimento di note liberate dal sogno letterario. Un percorso schivo, lontano dalle luci della ribalta, un prendere consistenza in quella vita fatta anche di ricevute, emicranie e temute ovvietà.
La macchina da presa di Haneke sottolinea, mediante la fissità, lo scorrere lento della vita di Anne e Georges. Legati da un lungo arco vitale in condivisione, divengono i personaggi mitici di un amore impossibile. Una frattura, un elemento esterno, giunge sul viale del tramonto delle loro vite tranquille: la malattia. L’ictus della donna è il mesto componente cristallizzatore: un amore reale si incunea nel tribolato solco di un’emozione impossibile. Due individui si fanno creature evanescenti, sospese in un presente di tragica urgenza nell’attesa della morte. Nel film, la tenerezza di Haneke, esplode in Trintignant nelle fattezze di un sentimento atroce: un’antinomia propria dell’amore tragico. Una tranquilla esistenza condotta mano nella mano, figura improvvisamente come il più epico trascinamento dentro il grembo dell’eros e il thanatos: Georges si fa l’Orfeo di Anne, Euridice, Didone, Giulietta.
È l’irruzione dell’impossibilità nel reale, del drammaticamente disgraziato nel tranquillo condominio familiare, il passaggio da individuo a personaggio, da contenuto a forma. Involucro investito dall’assenza di decoro che nella malattia custodisce il principale detrattore. L’amore trova prolungamento nell’interruzione della vita: la fine dell’uno è la conclusione dell’altro. Il sentimento pieno e condiviso continua nell’altrove di un’ode, nell’impossibilità tematica del romanzo letterario, nell’ascesa alla dimensione poetica.
Haneke è un acuto osservatore del caos che abita l’animo umano, registra inesorabilmente, avvalendosi di dialoghi ridotti all’essenziale e di una discreta presenza della colonna sonora, quasi un’assenza. La macchina da presa è un garbato scandaglio dell’individuo, immortala il declino del corpo e della mente attraverso una lucida e asciutta analisi del martirio. Nonostante per due ore non accada praticamente nulla, la pellicola, in una sorta di cinema da camera, calamita alla stessa maniera di un film d’avventura per l’animo umano. Squarciante e dilaniante, l’opera è nel tempo dell’attesa, un affresco sul disumano vampirizzare esercitato dal male sull’uomo.
La malattia di Anne è un efferato Don Rodrigo, una Venere implacabile, una folle Bertha tra Jane Eyre e Mr Rochester, un impedimento crudele e vorticoso. È un agguato che trova posa nel tempo dell’impossibilità, un universo letterario accogliente e chimerico. Anne e Georges sono la coppia di eroi quotidiani, sono l’accadere dell’amore autentico: dalla vita sino alla solennità di una polverosa biblioteca, il principio del matrimonio che in quel “finché morte non ci separi” diviene favola letteraria. Nella pellicola di Haneke si stravolge il criterio in un canone inverso: dal possibile di amore, all’impossibile di “Amour”.
- 28 dicembre 2015