Lou Andreas Salomé: “La bestia bionda” di Nietzsche

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Fosti il sublime che mi ha benedetto.

E diventasti l’abisso che mi ha inghiottito.

(R.M. Rilke, 1910)

Incantevole esemplare di mantide intellettuale, affastella liason per demolire uomini con il fine di resuscitarli nelle loro opere. Collezionista seriale di noti artisti e filosofi, lambisce conoscenza, brandendo sapere dalle carni maschili. Predatrice culturale, pianta al suo passaggio un campo di cuori malridotti. Un’aristocratica russa con un imperativo indosso: divenire se stessa. Transita nell’animo maschile alla maniera di un percorso precedentemente tracciato che porti a compimento la sua volontà di realizzazione. Capace di ammaliare qualunque creatura, un Casanova in fine gonnella, abdica a una seduzione specificamente femminile per divenire l’Übermensch nietzschiano, l’oltreuomo. Questo e molto altro è Lou Andreas Salomé (San Pietroburgo 1861 – Gottinga 1937), edace femme fatale che, nel sovvertimento di valori e tradizioni, forgia se stessa dentro l’immagine di un’archetipica Artemide di fine Ottocento.

Durante l’adolescenza vive la perdita della fede. Dio, ritratto nella sua mente come un nonno generoso elargitore di doni, diviene infine solo una invenzione creata dagli esseri umani. L’immagine di un’assenza che Lou tenta di colmare nella figura maschile, accordandole un’aura divina. Conferimento che si annuncia a tempo determinato: la rivelazione ineludibile dell’umanità porta direttamente a una nuova ed ennesima assegnazione. Di creatura presumibilmente divina in creatura umana, i suoi passaggi si fanno fughe. Partenze improvvise e precipitose al cospetto di una proposta di matrimonio, il momento fatale nel quale l’amante si fa lontano. E Salomé è nuovamente all’interno di quell’incedere alla volta di altri esseri, oggetti inconsapevoli di ulteriori mandati. Ogni uomo è la preparazione al successivo. Hendrik Gillot, un pastore olandese che incontra all’età di diciassette anni, descrive la circostanza cruciale per la sua formazione intellettuale. Preparazione che nella gatta narcisista si renderà come il più affilato ingegno di seduzione. Nella donna, la sfera cerebrale rappresenta l’arma per ammansire l’uomo. Non tenta la strada della parità tra il maschile e il femminile. Non le interessa la questione dell’uguaglianza, quanto la dimostrazione che nella differenza sessuale, il carisma e la virtù, fanno dell’immagine della donna una creatura umana oltre l’uomo.

[…] Gillot prepara l’allestimento della scena successiva: l’incontro con Friedrich Nietzsche e Paul Rée. È la grande mise en scène dell’attesa trinità, la visione onirica della Salomé, portata infine a compimento. L’irretimento sensuale si impianta nei due uomini per mezzo di un sorprendente rinvenimento: la femmina completa.

[…] Nietzsche e Rée, saldati da una granitica amicizia, tra rincorse e moti di gelosia, la chiedono in sposa. La bestia bionda è già lontana, nuovamente in fuga dall’elemento umano. Lou Salomé, che dal filosofo tedesco ha schisato il moto della caducità mentale, è finalmente pronta per indagare la psiche. Si dispone all’appuntamento con Sigmund Freud, lo studio della psicanalisi, l’introspezione e la consapevolezza che l’elemento fondante di ogni relazione risiede nella perdita. Lo smarrimento di Dio, rappresentante dell’elemento divino e, la scomparsa del padre, figura del principio umano, descrivono in Lou il verso di tutta l’esistenza.

[…] La femme fatale nella figura di Lou Andreas Salomé, cede fieramente il posto alla femme intellectuelle.

  • da ANIME INQUIETE – 23 storie per mancare la vittoria

Così lontani così vicini

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Così lontani così vicini

Disse il regista?

Scrisse il cantore?

No. Il grande No che prese tutte le promesse.

Così vicini.

Così lontani.

Tutto chiuso in una profezia: «Non dimenticateci!». Sapevano loro. Sognavamo noi. Dimenticavano gli altri.

Chi ha avuto la sventura di stare sotto il grido di una terra in rivolta, sente. Sente le urla della natura e sente la ciarla dell’essere umano. Chi è finito nel ventre di una terra rabbiosa, vede il colore oltre il nero della morte. Scruta il grande abito bianco. Osserva il piccolo taglio blu. Fatture indossate nel giorno della festa. Senza più la volta a far da sentinella a lutti inchiodati nell’oblio dell’anima morta. Scruto da lontano. Guardo le lacrime farsi cristalli, i cristalli farsi pietre e le pietre resistere al tempo della noncuranza.

Così lontano quel grande orgoglio che non accostò i così vicini.

  • Anche oggi sono le 3.36 e Franco ha comprato un chiodo nuovo.

 

La timidezza è un’altezza

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Recalcitro come una cavalla in piena doma. Nego l’intervista. L’intervistatore nega il rifiuto. Il rifiuto è il piccolo gesto della grande timidezza. L’intervistatore crede alla livrea di pavone. Decorata? Spaventata, si dice. Smarrita, pure. In favor di camera si spezza il fiato come sulle altezze. La timidezza è un’altezza. Non da scalare. Da abbracciare, forse. Non ho ruote da mostrare. Non ho vanti da vantare. Ho limiti da comprendere. O non comprendere. Ma la coda non so farla. La timidezza è fattura fuori moda. Ci devi essere anche quando non vuoi. Eh, ma non senti l’allettamento? No, mi vergogno (non dico). Penso al balbettare. Alla parola spezzata da una fantastica altezza. Perché immaginaria. Ma tanto fantastica quanto l’altezza e il fiato spezzato. Se non ci sei non sei. Posso esserci anche non essendo in favor? La timidezza è una tavola liturgica posta nel garbo della mia creatura. Reclama credenti in un mondo di oscurità psichedelica. Non essendoci, continuo a essere.

Parole stese al centro del Pantanal

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Non voglio asciugare parole stese al centro del Pantanal

Non sono capace di scrivere un romanzo. Non so dare trama alla trama. Di tramare non mi riesce. Mi suggeriscono di asciugare. Non voglio asciugare parole stese al centro del Pantanal. Non voglio asciugare parole stese al vento del tran tran letteroso. Sì, letteroso. Se le cattedrali accolgono poveri petalosi caduti a terra, perché non prendersi ricchi fogli letterosi ascesi al cielo? Il cielo del grande dettame letterario. E letteroso. Voglio inondare parole di parole. Guardare alluvioni di avverbi trascinare via la corrente dell’asciugamento letteroso. Assistere ad aggettivi in piena, voglio. Vedo l’orpello di parole fatte di pizzo macramé. Chantilly come la crema. Parole cremose di pizzi. Umettate dal merletto chiacchierino.

Potrei scrivere un romanzo su un merletto chiacchierino che incontra un pizzo d’Irlanda. Ma non sono mai stata in Irlanda. E il pizzo diventa merletto taciturno. Tacere pensieri sul grande asciugamento letteroso. Tutti alla rincorsa del grande asciugamento. Suole consumate dal grande asciugamento letteroso. Non letterario. Indico il letteroso con precisione. Perché preciso è il ruolo dell’asciugamento letteroso nella volta letteraria. Secchezza di scuola a prendere giovani mani senza decorazioni. Giovani mani spalmate di brillantina Linetti. Oleare e asciugare. Sbandieratori di siccità. Anoressia della parola nutrita da sonde di regine asciugatrici. Troni letterari a farsi letterosi. Troni letterosi a fabbricar dettami in catena di smontaggio. Asciugati! Se intendi partecipare, asciugati! No, il mio maestro dice di coltivare l’orgoglio di non essere organica. E asciutta. Sono umida e feconda di parole bagnate di brina paratattica. Piogge estive di anacoluti e deittici a bagnare fogli di carne intingola. Sughi, condimenti e brodetti di pesce lemma pescato in alto mare. Lontani dalla riva asciutta. Asciugata alle onde Cavalcanti degli asciugatori. Un cablogramma invia messaggi da cavallucci marini. Un pesce di fattura equina si crede messaggero. Una cavalla di fattura umana si crede scrittrice. Preferisce scrittore. Ma riesce solo a battere gli zoccoli sul foglio creando fori e polvere sul campo preso dal salto agli ostacoli. Ostacolata da se stessa a scrivere di se stessa. Ma se non fai altro? E, dicevo, non sono capace di scrivere un romanzo. Potrei narrare di un cavalluccio marino che si crede un cavallo e tenta il dialogo con il merletto chiacchierino.

La mia penna è sanguinolenta. Il mio inchiostro è un unghia di cheratina in attesa. L’attesa della ferratura. Scrivo alla stato brado. Che mi lascino gli zoccoli inchiostrati di libertà. Espongo tessuti sottostanti al sole asciugante.

  • Pantanal, 13 aprile 2087

L’ufficio del tempo perduto

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Sento profumo di mele cotte. Il profumo è un classico. Il classico odore della dolcezza. Il sapore di un ‘come stai?’ Lontano l’ultimo ‘come stai?’ Remoto, nientemeno. Niente e meno di niente. Ricordo le puntuali valutazioni quotidiane. Mensili, anche. Annuali, pure. Spigolosa o squamosa come una spigola. Come se non bastassero le squame, anche discinta (senza squame), fai sempre quello che ti pare. Devo riuscire a fare quello che non mi pare. La libertà? È la parola bella. È la bella parola consumata. Il termine più abusato. Il meno frequentato. Lo dissi, la bellezza non si lascia avvicinare. Dicevo? La libertà. La libertà è essere liberi dalla dimostrazione. Che? Se ti sfinisci a dimostrare le azioni fatte, non sei libero. Se fai azioni per dimostrare di averle fatte, non sei libero. Dicevo? Come stai? Ricevo valutazioni fuori tema. Non esiste il tema. Ricevo valutazioni. Penna rossa a respingere il foglio. Bianco come le parole mai scritte. Penna nera a impennare il voto. Nero come la valutazione. Nondimeno non faccio altro che ascoltare. Ascolto vite che non vedo vivere. Ascolto per ore. Le ore di ascolto di vite in una vita diventano anni. Non mi rimborsano gli anni all’ufficio del tempo perduto. Ascolto anni di creature che vogliono – fortemente vogliono –  raccontare, dimostrare e infine valutare. Valutare chi non hanno mai ascoltato. Valutare se il mio orecchio è vuoto e le mie ovaie sono piene.  Eh, ma tu. C’è sempre un ma prima del tu. C’è sempre un eh a far da premessa. La premessa invalida il discorso. C’è sempre un’eccedenza nel racconto ascoltato, nell’orecchio ascoltante e nella parola che ora si decide a dire. C’è sempre la parola eccedente. Cattiva, anche. Sono cattiva. Anni di ascolto da scontare: di chi è la cattiveria? Smetto l’ascolto. Voglio diventare buona. Buona con me stessa. Leggo libri e bugiardini da frequentare. Meglio frequentare i bugiardi. I bugiardini non mentono. Metto la marmellata di fragole sopra le mele cotte. Mi rispondo che si sta bene in una casa profumata: fragranza di mele e fragole.

 

(Scritto al galoppo tra la piana del Rascino e il laghetto di Cornino)

Un viaggio chiamato Sibilla Aleramo

I-Immagine-Sibilla-Aleramo.jpg«Voi siete poeta, e vi faranno soffrire»

Eleonora Duse

Sul maroso degli amanti, a fronte di quelli regolari e cinematografici, emergono monumentali e folli quelli irregolari. Appassionati e lontani, famelici e scissi, consumano voluttuosamente colei che detiene il segreto certo dell’amore: Rina Faccio in arte Sibilla Aleramo (Alessandria, 14 agosto 1876 – Roma, 13 gennaio 1960).

Scrittrice e poetessa, custodisce nella vita e nel romanzo la ceralacca rosso carminio per sigillare il sentimento; sconfessare ogni vana tecnica di seduzione in favore di una purezza tutta chiusa nella più universale delle dichiarazioni: Ti Amo. Non le interessa insidiare l’animo maschile per condurlo a struggimento. Sibilla è di natura autentica: la magnificazione risiede nella possibilità, quasi sacrale, di palesare il proprio cuore. Solo in tal modo una donna può dirsi vincente. Nel giocare d’astuzia, la vittoria è solo illusoria; delinea il peggiore dei simulacri: l’incapacità di amare.

La poetessa è prodiga, vive l’esistenza appieno, vibrazione incessante di una vita con la mente nel corpo e il corpo nel corpo. E il corpo è cuore. Priva di corazza, si espone alla ferocia delle meschinità poiché detiene la certezza del giorno a seguire, dunque la disfatta della sera prima preannuncia la completezza del giorno dopo.

Sibilla è il suo corpo, membra esplorate in solitudine e restituite alla pagina e all’amante di una notte o del mai per sempre. Nella donna il confine tra il carteggio e il romanzo disegna la compagine artistica. Gli uomini si fanno amanti per poi farsi pagina e infine romanzo. La vita e la scrittura germogliano sul giunco intrecciato della creazione. L’inchiostro sciaborda nell’incontro dell’amante amato. 

Una pletora di scrittori e artisti figura la manta che avvolge Sibilla.

Con il poeta Salvatore Quasimodo vive un legame profondo e tormentato.

***

Pertanto è la scrittura, la stilla dell’inchiostro, a disegnare una cornice evanescente per i due amanti, un supporto silente che in alcuni casi prende a placarli, in altri a esaltarli, tutto dentro la lirica infinita di un amore maledetto. Dannazione che infine sarà più potente della Aleramo. Il 1918 e l’ospedale psichiatrico di San Salvi a Firenze sanciranno la fine di quel viaggio: il cuore nell’amore e il sangue nella malattia (Dino Campana e Sibilla Aleramo).

  • Da il libro ANIME INQUIETE – 23 storie per mancare la vittoria

Fede (di lei, la fede)

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L’amore è fede nell’amore senza fede

Non ho una fede al mio anulare sinistro a vidimare la presenza di un amore. Ho dieci fedi nel cuore a manifestare l’assenza di una fede. Di una, una soltanto. Le altre nove sigillate nella poca carne delle mie dieci dita. Di quel nove che non avvenne in chiesa. Di quel dieci che non si consumò nel mio bel Comune. Ho una fede di sangue incisa nel muscolo pulsante. Segreto di un mondo. Rivelazione dell’universo. Primo battito terreno dell’eternità. Ultimo segreto tra due dita svestite di preziosi. Legate dal segreto della grande verità: l’amore è fede nell’amore senza fede.

 

(Non ho fede nel sinonimo ma nel segreto ripetuto).

Di lei, i pensieri (II)

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  • continua da pag. 1114

[…] Solo così i vivi si mantengono sani. Se il morto non prendesse leggenda nella vita di un vivo, il vivo impazzirebbe. Ammattirebbe. Il morto si prende bellezza con la morte. Anche il morto più inviso alla vita, produce nel vivo un particolare che ne farà leggenda. Qualcuno si spara. Qualcuno si spara per affrettare la leggenda. Guarda Alain che preferisce il ferro alle pieghe della mia gonna bianco betulla. La leggenda non è vissero felici e contenti sotto un tavolo di betulla a forma di gonna. La leggenda è morirono felici e contenti.

Lascio Parigi e lo diceva uno bravo “brucio Parigi per te ma tu non bruci per me”. Lascio Parigi e faccio ritorno a Ortigia. Dimentico la fisarmonica e trovo il bel caffè. Granita di caffè, caffè alla nocciola, pistacchio nel caffè. Tutto è caffè. Caldo bollente e oscuro cristallino. Tutto è caffè e Voi. A Ortigia gli uomini mi usano il Voi. Cenni con il capo e offerte di Voi. Levito su ogni Voi afferrato. Preso nel cielo pistacchio di Ortigia. Germoglia l’addizione del voi. E l’addizione porta alla somma: trentaquattro Voi al giorno fa una donna scalza che crede di ancheggiare sui tacchi a spillo. Trentaquattro Voi al giorno fa una donna in magliettina a righe di Vestivamo alla marinara che si crede fasciata in un abito nero da sera. Il Voi è un abito di seta, una scarpa di marmo policromo, un gioiello affacciato sul barocco di un balconcino. Il Voi è un corteggiamento. Il Voi è un inchino erotico. La dama si lascia prendere dal Voi e libera dal ventre tutto l’erotismo dell’isola di Ortigia.

Il Voi è un granello di sabbia accampato su capelli bagnati da un mare rovente di cattedrali barocche. Tutto è salsedine e granita di caffè con panna senza ghiaccio. Tutto il pistacchio finisce stretto stretto nella grande brioche. Al bar non trovi la caffetteria. Al bar trovi il bar e Totò. Dimentica Alain. Totò sa che tu sei donna di continente. E contenente. Contenente tutti i caffè e gli amori mancati. Questa prepotenza degli amori mancati che torna a ripetersi. Reitera il reato di aver mancato. Stipata nel senso di colpa, scappa a reiterare. E l’amore manca.

È colpa della bellezza. Anche quella torna sempre a pesare. Chi contiene bellezza ne contiene troppa. E chi è carico di bellezza piega la schiena al fardello. Lo sguardo scivola verso il basso.  Chi è carico di bellezza non può che essere lasciato in solitudine dentro la sua bellezza chinata. Si ama meglio chi non porta bellezza. Perché la bellezza è un carico da scontare. Sei pesante! E quella è la bellezza. Si prende tutto lo spazio, lei. E loro non sanno riconoscerla. Non la vedono. Ma devono pur sentirla in qualche modo. Ne avvertono il peso. E fuggono. La bellezza nasce per creare isolamento. Non c’è spazio per l’amore. C’è lei e tanto basta. Poi quelli tornano canuti con il maglioncino ad aprire la frustrazione panciuta. Hanno avuto l’amore, forse. Ma no, la bellezza no. Sono padri e madri che dicono Beata Te! A te che parli una solitudine senza figli. Perché chi possiede amore dice Beata Te? Vogliamo fare un cambio? Ti offro una bella teca di cristallo in mezzo al deserto. La vuoi? È bellissima. Anche quando non hai nulla, dentro puoi metterci tutto il tuo nulla. Ti protegge dalla fredda notte desertica. Ti tiene al fresco. Fredda e algida. Non invecchi? Sei per sempre ragazza. Ragazza sola che vive dentro una fredda teca di cristallo. Beata te! Certo, non sono mica canuta io! E ancor meno panciuta di frustrazione. Sono adiposa di bellezza e grassa di solitudine. Uno scheletro morente. La bellezza trascina un segreto. Quale? L’inconsapevolezza. La creatura è bella perché non sa di esserlo. Qui si pianta la croce senza delizia. Qui si firma la ferita asciutta. Dall’inconsapevolezza sgorga il sangue. La bellezza sapiente non è bellezza. La bellezza sa di non sapere e fa il verso al filosofo. E il filosofo non può che volgersi al sole di Ortigia.

Ritratti di cinema. Marlene Dietrich, l’Angelo Azzurro del Galgenhumor

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L’umorismo nero o humor noir, direttamente dall’ideatore del termine nella figura di André Breton, confina con la satira, pur custodendo un approccio meno infuocato. Oltre la finalità, quasi esclusiva, della festosità attraverso la violazione di alcune norme, sovente si fa latore di importanti riflessioni. In quello di Breton, le fondamenta si tengono su una certa inclinazione allo scetticismo e al cinismo. Il terreno edificabile figura sempre nella zona della morte. Diversa e certamente più vigorosa è la scena occupata da il Galgenhumor, termine tedesco che si identifica in un’affermazione oltremodo robusta: umorismo da forca. Ed è proprio all’interno di tale “allegria disperata” che si incuneano gli ultimi anni di vita della leggenda del cinema: Marlene Dietrich.

Narrata mediante la raffinata penna dello scrittore e poeta francese di origini russe, Alain Bosquet, l’Angelo Azzurro, non perde i tratti del mito, ma prende a umanizzarsi nelle telefonate e nelle molteplici lettere scambiate con Bisk. Il Galgenhumor, peculiarmente tedesco, contraddistingue ogni conversazione tra i due, alla maniera di un parapioggia da aprire per l’imminenza di un breve e violento rovescio. E, la tempesta incombente, si identifica in quel fardello ineluttabile che porta il nome di senilità. Il mito resta tale solo in una copertura che arresta il tempo nell’ultima immagine, quella definitiva, dentro la quale la senescenza non è ancora giunta. Il Galgenhumor della Dietrich, figura come la tana invalicabile, lo scongiuro con tanto di corna a quella prepotenza davanti alla quale non esiste formazione e, anche un angelo azzurro, per quanto epico, resta impreparato. È lo “sputo in faccia” prussiano che stoicamente rigetta ogni forma di asservimento. Un grido di libertà come affermazione della propria individualità, anche dentro una giovinezza perduta e a forza trattenuta. Un umorismo da patibolo, originario del periodo berlinese, rimasto al suo fianco sino agli ultimi anni parigini. Un cunicolo, ma anche un abito elegante per schermare i vizi fatali del corpo e quelli inevitabili del temperamento.

Scherzare con e sulla morte, burlarsi di un aldilà frutto di altrui invenzioni, fantasie della disperazione create nell’ultimo bagliore di speranza. Quando l’Angelo Azzurro è soltanto Marlene, sfida la donna con la falce, per non cadere in un’afflizione tutta umana e per nulla mitologica. Nella donna, severità e tenerezza si fondono in una relazione di amore, eretta su quell’imperativo che porta direttamente al “per sempre”: non incontrarsi mai. La diva e lo scrittore vivono sotto lo stesso cielo di Parigi e in un patto tutto di deferenza e delicatezza, tacitamente privilegiano l’assenza della presenza per bastarsi in eterno. L’antidoto all’immutabilità di ogni sentimento: non sfiorarsi mai.
Lo scrittore, il poeta e l’uomo figurano in Marlene come il porto sicuro dove porsi al riparo dalle impietose luci della ribalta. Bosquet nello pseudonimo di Anatole Bisk, è il conforto, il consiglio, la ratio che la riporta verso se stessa in un’inevitabile istante di dispersione. Non dentro la morbosità di comprendere se si tratti di un perdersi alcolico o senile, ma nell’eccezionalità di un affetto privo di comodo. Bisk raccoglie le confidenze, la rabbia, le frustrazioni, si fa contenitore ospitale da visitare in qualsiasi momento della giornata, poiché lei è Marlene: la donna nel mito.

L’attrice, la cantante, la madre che vorrebbe essere, si svela un’estimatrice di Rainer Maria Rilke e non indugia nel farsi lei stessa inchiostro di poesia:

La mia innocenza non è mai vana
che fortuna
ma il fardello e il peso
che essa porta
non si vedono
i fili che si stringono
presto a mia insaputa
sarà mio destino
pagare
per l’innocenza
così tardi

Presumibilmente le rare forme di commozione dell’attrice, fluiscono dalle numerose poesie e in quel restare nella ferma morsa dell’isolamento. Bosquet, mediante un verseggiare in conversazioni e lettere private, consegna una diva intatta, laddove l’umanità nulla toglie a una figura altera e oscura. Non scivola mai nel dettaglio maniacale, resta in quell’intimità che nel distacco non fa altro che accrescere il sentimento. Il poeta si impone una vetta di discrezione che non gli impedisce la possibilità di suggerire una condotta nei curiosi rapporti con la figlia. Motiva la Dietrich ad andare a vivere con lei. La diva, in un tono avverso alla sottomissione o a quella che ritiene tale, risponde nel suo stile:

Temo la solitudine, ma l’impongo a me stessa a prova della mia indipendenza.

Anatole incede vigorosamente nel ruolo di guida, dal filo consunto di un telefono, la prende per mano cercando di riportarla a se stessa. L’indipendenza, trascinata sino alle vette più impervie, si rivolta nella severità di una prigione sempre più angusta. Proprio in una domanda per un’intervista rilasciata a Le Figaro, serpeggia il tratto di un’autonomia deleteria:

Da più di dieci anni, lei si è sottratta a ogni manifestazione pubblica. Il suo spazio vitale, non è diventato la sua prigione?

Marlene Dietrich muore all’improvviso il 6 maggio del 1992; con lei l’attrice, la madre, la donna, ma non l’Angelo Azzurro che continua a vivere nella memoria cinematografica. L’amico, lo scrittore, l’amore epistolare degli ultimi quindici anni, la voce poetica dall’altra parte del filo di una stessa città, la omaggia in un requiem tutto di Dietrich.

Requiem per Marlene Dietrich (di Alain Bosquet)

Signora, quanti volti
possiede?
Marlene, che voce hai oggi
voluto assumere per me?
Signora,
lei è stamattina
più innocente del fanciullo
che gioca sul prato.
Marlene,
tu ringiovanisci
come la luce che a mezzogiorno ritrova
la rugiada dell’aurora.
Signora, con la frusta in mano,
ha ella forse ordinato
che vengano aperte le finestre:
che le folle applaudiscano
e gli alberi si mettano attenti?
Marlene, ammansita, ubbidisci,
forse all’istinto,
all’amore, o al mistero?

  • barbadillo, 8 settembre 2016

Vertigine della parola: Poema bianco – Pasquale Panella

 

Foto PP BN
Pasquale Panella 

Pubblicata per la prima volta e, in poche preziosissime copie, nel 2007 per le edizioni IRI, è uscita a dicembre 2017 per i tipi di Miraggi edizioni, l’opera Poema bianco di Pasquale Panella. Invero non si tratta di una riedizione, come afferma l’autore stesso, ma di una prima edizione che vede l’estensione nei capitoli E due, E tre e termina – solo sulla pagina – con Rumori, quest’ultimo in prosa. Il Bianco si intrattiene nelle comuni venature. Pasquale Panella è dentro l’impossibilità di un suono che lo definisca. È voce nel verso, silenzio nel soliloquio e poema in quel bianco che cadenza la parola. Giunge prima della poesia stessa, nel tono (suo) dell’intimità: la lirica precede la pagina. Il giro è fuori dall’umano, lontano dall’elemento di genere per compiersi in un’altra dimensione: invalidarsi per pervenire alla liberazione e far cantare il rumore. L’assenza è intima corporeità di una intesa tra due forme: il doppio trascorre nell’uno assoluto e definitivo.

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Il Poema non si legge, si ascolta. Nell’Ode si ode la vibrazione di lei in lui e il tono di lui il lei, insieme nella voce femminile.

Tu credi che tu, che io, credi

Che siamo noi i protagonisti

(ma di che, delle parole?)

Qui la protagonista è una,

è la mia voce a me

(insomma, un singolare femminile)

 

Il timbro nel tatto, il suono nello sfioramento. Scrivere negando la poesia per accordare corporeità, ossia corpo, al verso. La sagoma di una scultura friabile, posta sul frangente di un corpo armonioso: il lemma. L’altro è il sé, ovvero un luogo. Un altrove dove accadono le cose, i sentimenti nel prima degli oggetti e nel dopo dei corpi. Il midollo nella parola, sollevata dalla forma, per far fiatare solo il sangue. Rosso di cuore e rosa di carne: bianco nello stato metatemporale del compiersi. Quel che è scritto è scritto, non accaduto, ma nel futuro del possibile. Nell’aura l’afflato di una rivoluzione scandita da due offensive; l’incursione a spoetizzare la parola e l’invettiva nel poema d’amore: la guerra è amore tra i sessi. Il non esserci figura l’edificio marmoreo dell’esserci: fondamenta di vocali e consonanti a scompaginare la lirica. L’amore è ossessione fuori dal ricordo e nella memoria agita solo la costruzione della reminiscenza. L’altrove è l’oltretempo di una voce che tuona su se stessa.

È il Poema del sentire nell’assenza, di lambire nell’addio. Il congedo è testimone sensoriale del sentimento che accade. Accarezzare la possibilità, comune alla brama dell’umanità, di morire insieme nell’amore. 

La nostra non che fosse incerta,

anzi, ma sarebbe molto stupido

se ci si innamorasse per vivere

la vita

Morire insieme è il primo

Progetto sovversivo di chi

Si innamora da vivo

 

L’universale senso del patire si impone alla pagina per venirne consumato e infine espulso. Tutto si perde nell’atto del dire, rigorosamente come il libro lasciato al lettore. Il soliloquio non accade: è una storia immortale, e come tale, priva di trame. Vive per sempre nell’istante dello sguardo, nell’infinito di un’indagine all’interno dell’animo. La descrizione non abita, ma risiede nell’istantanea immortalata dalla parola.

L’amplesso di un vocabolo che si compie una sola volta: il momento eterno di Poema bianco. L’amore è nell’immobilità, all’interno di una disposizione che si strugge nel non fare: l’unico sentiero per raggiungersi. Spazio bianco a scrivere il peso della mancanza. La distanza è un cecchino caricato a passione: il solo collante ammesso. Tutto accade come non dovrebbe poiché si è dentro l’accadere. La dissolvenza è nera. Il Poema si ascolta nell’incrociata bianca. Un montaggio di negazioni autentiche sino alla purezza e feroci sino al bianco.

Scrivere, al meglio,

è finire di far testo

E il meglio di ogni testo

È immaginarlo:

sostituire la memoria

con una impalcatura ariosa in aria,

che avverrà, che avverrebbe,

ossia con l’antistoria

Con sapienza, disciplina e letizia, il giocoliere scommette con le sfere in volata. Il funambolo gioca alla vita con la corda. La poesia è in ogni luogo, latita – non qui – il poeta che è giocoliere, funambolo e infine grondaia. Sì, grondaia contenente le parole piovute dal cielo, giunte nell’inchiostro e, in questo, fluite per gemicare luce. Il silenzio custodisce una voce. Il direttore d’orchestra è Pasquale Panella. Il bacio della parola a farsi bacchetta di direzione dentro la fibra di vetro. Il soliloquio è voce silente che mormora dentro le creature. L’amore è riconoscibile poiché non gode di favori espressivi per palesarsi. L’amore è sentito nella parola “fine” poiché il sentimento è opera e nell’opera vive e trova la chiusura.

*Da tracce sparse di un ascolto.

La chiusura in un imperativo: ascoltare Poema bianco.

  • da l’Intellettuale Dissidente, 25 febbraio 2018