Edificio Fellini: scommettere la testa con Edgar Allan Poe

Ad allestire la scena per un incontro giocato nelle stanze anguste della grande oscurità interviene il produttore e autore francese Raymond Eger. Nel 1968 esce Histoires Extraordinaires. Tre passi nel delirio, film collettivo nel quale il fil noir affonda le radici nel creatore del tale of terror, Edgar Allan Poe.

Per girare i tre episodi, Eger interpella i registi Roger Vadim, Louis Malle e Federico Fellini. Mai scommettere la testa con il diavolo è il racconto che ispira l’episodio del cineasta romagnolo, dal titolo Toby Dammit. È girato del tutto in notturna, modalità che permette una vera e propria epifania della visione di un sogno angoscioso quanto la vita. Ça va sans dire: l’esistenza è un incubo.

Toby Dammit, protagonista del racconto scritto da Poe nel 1841, giunge nella Roma felliniana – ancora una volta più felliniana che romana – per stabilire la prepotenza di una vocazione: la vocazione alla morte. La città è parte integrante del progetto mortuario poiché è nel suo grembo che l’uomo acquisisce la certezza di offrirsi alla morte. La Roma di Dammit è del tutto indifferente al suo dolore, lo accoglie e lo scruta da lontano, non vi partecipa se non come mera spettatrice.

Roma è una madre, ed è la madre ideale perché indifferente. È una madre che ha troppi figli, e quindi non può dedicarsi a te, non ti chiede nulla, non si aspetta niente. Ti accoglie quando vieni, ti lascia andare quando vai, come il tribunale di Kafka.

È d’uopo precisare che il rapporto di Fellini con il racconto di Poe appare del tutto alterato dall’esorbitante fantasia del regista. Forse un’occasione mancata per stabilire un’empatia artistica o forse un’occasione per tracimare: un incontro può dirsi mancato quando il regista decide di mostrarsi senza lasciare pertugi a un’ipotetica ispirazione letteraria; lo stesso incontro può definirsi riuscito nell’atteggiamento inverso, quando il regista si slega dall’opera di partenza e ne inventa un’altra.

Questo accade in parte con Toby Dammit . Fellini abbandona un approccio tipico della grande città per riprendere la sua origine provinciale, costruendo daccapo un racconto che ha poco da spartire con quello dello scrittore di Boston. Si tratta di un piccolo accostamento, limitato ai confini tracciabili di un borgo e non alla dispersione cittadina. Lo stesso Fellini dichiarerà di aver letto Mai scommettere la testa con il diavolo soltanto durante le riprese. La sensazione è infatti quella di una modesta appropriazione, il regista prende pochissimi elementi per riscrivere la narrazione e farla propria, realizzando la sua personalissima profezia artistica: lo stile, le tematiche, l’atmosfera di Toby Dammit sono elementi che torneranno assiduamente nelle opere successive.

Le luci torneranno a farsi illuminazione claustrofobica nel seguente Satyricon, dove il giallo che fuoriesce dall’oscurità di Dammit si farà cupo richiamo del destino di una certa umanità, divisa da colori che riescono nell’operazione di essere foschi e accesi allo stesso tempo.

La presenza di suore e preti, già sperimentata nelle opere precedenti e qui rimarcata, nel successivo Roma (1972) diventerà défilé; un passaggio che, nella mostra della sfilata, si arresta per immobilizzarsi e infine divenire uno degli elementi ricorrenti, sino alla ripetizione quasi ossessiva.

I lavori in corso sfiorati in Dammit simboleggiano l’imminenza del presente, dunque l’ineluttabilità di un avvento, quello della modernità, a fiaccare le esistenze del prefetto Gonnella e di Ivo Salvini nell’ultima pellicola del regista, La voce della luna.

La nebbia che avvolge Toby nella corsa verso la morte tornerà con prepotenza a bordo della macchina che sfreccia nel buio sulla quale viaggiano Snaporaz e una rappresentanza di donne, e aggiungerà in questo caso un chiaro riferimento cinematografico: il Kubrick di Arancia meccanica nella nota sequenza dei Drughi in notturna a bordo di un veicolo diretto alla villa degli Alexander. In tale personalizzazione del racconto, la pellicola felliniana sino al midollo, lontana, almeno in questi elementi ricorrenti, dalla suspence di Edgar Allan Poe. Fin qui l’incontro volutamente mancato.

Esiste poi una zona in cui Fellini raccoglie l’invito di Poe a farsi autentico narratore dell’orrore. In Tre passi nel delirio, Toby Dammit è un attore sul viale del tramonto della cinematografia, l’immagine di una profonda disperazione trainata dal vizio dell’alcol e dall’uso di droghe. Si reca a Roma per girare un film, il primo “western cattolico”, conoscere il regista e guidare una Ferrari, il suo cachet per la parte, la sua orsa tra le braccia della morte. Il protagonista, interpretato da un grandissimo Terrence Stamp, è l’effigie più che solenne del dramma dell’esistenza.

La fotografia asfissiante disegna l’assenza di alcuna possibilità di salvezza, e proprio qui accade che il regista si presti all’ascolto del grande enigma di Poe: il tema del male. Il male per lo scrittore conquista la supremazia sul bene senza lotta alcuna, non esiste battaglia tra il bene e il male poiché questo si prende tutto lo spazio e il tempo.

La corsa del Toby filmico e di quello letterario incarna l’accetazione del diavolo come creatura sovrana dell’umanità. Dammit nel film, come Poe nella vita, non crede in dio ma solo nella vita del demonio. Fellini veste il male attribuendogli le sembianze di una fanciulla bionda il cui richiamo è rappresentato da una sfera bianca; in Poe il diavolo è un anziano signore. Il film perde la suspense del racconto ma guadagna nella resa perfetta della disperazione scritta nel volto allucinato di Terence Stamp.

Antonioni aveva licenziato Terencino per Blow-up e l’attore continuava a restare a Roma, in attesa della sua prossima opportunità. Io e Bernardino Zapponi avevamo appena finito la sceneggiatura di Toby Dammit e, per caso, qualcuno mi dette una foto di Stamp con quella sua straordinaria e angelica faccia profondamente decadente: il perfetto dandy perdente, la rock star dionisiaca, l’aristocratico alcolizzato imputridito dall’interno tuttora capace di esercitare il suo monumentale fascino biondo. Sa, qualcuno che potessi identificare con il mio alter ego. Convenimmo d’incontrarci e lo scelsi subito. Un giorno, durante le riprese, mi stavo tagliando i capelli quando Antonioni entrò e si sedette sulla poltrona da barbiere vicino alla mia. “Ho sentito che lavori con Stamp”, disse, “Condoglianze”. “Grazie mille, Michelangelo,” Risposi. “Grazie a te, ho scoperto un genio”.

  • Estratto da Edificio Fellini. Anime e corpi di Federico

Ritratti di cinema. Orson Welles, l’alieno di Rosebud

L’immagine by IISG è sotto licenza 
CC BY-SA 2.0

È dentro voci come eccentrico, esorbitante, visionario e impressionante che si possono racchiudere i tratti delle pellicole di uno dei più grandi cineasti novecenteschi: Orson Welles. La sua vita si interrompe a settanta anni per un attacco cardiaco. Il cinema, sin da subito, si rende conto di aver perso una figura geniale della settima arte. Di corporatura robusta fin dalla giovane età, contraddistinto da una presenza autorevole per un 1,87 di altezza, trascina all’interno delle sue opere una mole generosa di dettagli, sino a generare atmosfere asfittiche. Convinto che il cinema rappresenti qualcosa di esanime, fa del suo lavoro un potenziamento vigoroso al confine, non tanto invalicabile, con il barocco. Welles tenta, mediante il tocco ridondante, un’indagine meticolosa sul personaggio.

Gli ambienti riprodotti dalla macchina da presa figurano un’ulteriore incremento all’immagine attoriale e al fattore drammatico della realtà. L’individuo e il mondo abitato rappresentano una sorta di specchio opaco, poiché un filtro si rende necessario all’alterazione del materiale trattato. In letteratura si chiederebbe un prestito per la definizione, vale a dire l’uso del discorso indiretto per delineare il linguaggio del suo cinema. Per il timore di restare incastonato nella faciloneria, di fatto, il regista non osa nella luce troppo semplice della trasparenza. Pertanto si affida agli elementi barocchi, all’eccesso di orpello, con il fine di restituire un’indiscutibile grandiosità. Solo grazie al monumentale può giungere alla minuzia. Gli oggetti, l’ambientazione e i personaggi rappresentano entità simboliche che rinviano alla zona occupata dalla metafora.

Io credo pensando ai miei film che siano imperniati non tanto sul conseguimento di qualcosa, ma piuttosto sulla ricerca. Se noi cerchiamo qualcosa, il labirinto è il posto più adatto alla ricerca. Non so perché, ma i miei film sono tutti in gran parte una ricerca fisica.

E tale labirinto, il regista lo edifica proprio attraverso l’allegoria e la metafora di un eccesso di cose, pronte a immolarsi nel simbolo per un’analisi della società. L’opera di Welles non va posizionata nel genere che contempla l’evidenza del primo motivo sullo schermo. La sua firma è in una cinematografia che trascende la realtà per come si presenta, abdica in favore di un ammasso di materiale che permette l’alterazione del primo approccio, quello diretto. Il presunto barocco di Welles è irrealistico, poiché il fine è nel porre dei conflitti che valicano la semplice presentazione dei fatti e dei luoghi. La sua posizione è apertamente in antitesi al Neorealismo. Dilatare la realtà con il solo fine di comprenderla.

Nasce nel Wisconsin a Kenosha nel 1915, sin da piccolo campeggia per le sue facoltà e per interessi che spaziano tra la letteratura e il teatro. Nel 1931 è già attore professionista e debutta al Gate Theatre di Dublino. Ma il suo nome sconcerta l’America nel 1938; alle otto di sera di un ottobre qualunque, la sua voce alla radio CBS, per un’intera ora si annoda sulla cronaca di una finzione: un’impellente invasione aliena sta per calare sugli Stati Uniti d’America. La narrazione cronachistica, di fatto, si basa sulla Guerra dei mondi, un romanzo di H.G. Wells. Il suo mito è già vivente e si rivela nella prima occasione cinematografica con il film che lo colloca tra i più grandi registi di Hollywood: Citizen Kane – Quarto Potere. Regista e protagonista della pellicola, dispiega la trama intorno a una parola: Rosebud. Il termine viene pronunciato in fin di vita dal magnate della stampa Charles Foster Kane nel castello di Xanadu. Rosebud è una donna, un luogo, un segreto, un misfatto? Si brancola nel buio. Un giornalista prende l’incarico di svelare l’enigma. Tra flashback e incursioni nel presente, la bobina riavvolge la vita di Kane sino alla scoperta del bandolo della matassa. Rosebud è il nome inciso sullo slittino della sua infanzia: una confessione nostalgica al termine della vita. Il ricordo, risulta ancor più struggente se si pensa che all’epoca del film, Welles aveva solo venticinque anni.

L’estetica cinematografica trova, in questo primo film e negli altri a seguire, un posto d’eccezione: attraverso grandangoli, riprese dal basso, campi lunghi e la preziosa collaborazione dell’operatore Gregg Toland, il film si lega all’Espressionismo, non trascurando taluni classici del cinema muto. Orson Welles gira altri tredici film, tra i quali La signora di ShanghaiMacbethOtelloL’infernale Quinlan, ma la sua risonanza rimane legata a Citizen Kane. L’imperativo si sintetizza sempre nella stessa modalità:

Arricchire il più possibile lo schermo, perché il film in se stesso è una cosa morta.

Nell’Olimpo di Hollywood troneggia con la sua monumentale corporeità e l’epica maestria adoperata nell’uso della macchina da presa, ma innanzitutto come colui che nella piega debordante, inserisce l’individuo al centro di un doppio verso: il bene e il male. L’uomo è inquinabile e corruttibile da molteplici fattori, parimenti risulta una creatura vulnerabile e fragile. Si tratta di un romanticismo portato all’estremo che Welles, pur dalle effimere colline dello Star System, porta magistralmente a compimento.

Hollywood è un quartiere dorato, adatto ai giocatori di golf, ai giardinieri, a vari tipi di uomini mediocri e ai cinematografi soddisfatti. Io non sono nulla di tutto ciò.

Ed è proprio in tale dissonanza che l’artista trova il proprio nutrimento: Welles giganteggia su tutti. Fosse anche il quarto, il suo è il più autorevole: Citizen Kane – Quarto Potere.

(3 maggio 2017).

In memoria di Bruce Lee: il 27 novembre avrebbe compiuto 79 anni. Il Piccolo Drago nel libro di Francesco Palmieri

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Il giornalista e scrittore Francesco Palmieri forgia un’opera in omaggio alla grande figura di Bruce Lee. Tra aneddoti, divagazioni e curiosità, la grazia della sua penna scorre nella vita del Piccolo Drago con la stessa leggerezza della piuma che vive nella mano dell’icona di Hong Kong.

All’interno di un precisa circolarità, tra divagazioni, incursioni tra Oriente e Occidente ed elaborazioni sull’esistenza, Francesco Palmieri forgia un’opera legando indissolubilmente il suo nome a quello di Bruce Lee, il Piccolo Drago. È un libro che segue un movimento lento, una lettura in slow motion, proprio come l’apprendimento delle arti marziali. Dapprima alcune lettere dell’alfabeto a separare lo scritto in capitoli: le tre C di calci, cortili e cuori, le due F di fantasmi e finestre, una O per gli occhi, due S per le sfide e i sogni, una M per le mani che si avviluppa nella L del libro, quello di un mito cinese del ‘900. Le parole formano il cerchio; all’interno tutto torna a ricomporsi e con decoro entra nel flusso della memoria. In tale immagine si muove liberamente la figura più importante, quella di colui che edifica nella sua persona il legame epico tra la cultura orientale e quella occidentale: lui è Bruce Lee, il Piccolo Drago. Una star del cinema, abile marziale, ma soprattutto un rivoluzionario nella misura in cui distrugge completamente lo stereotipo razziale vigente in America, nonché il pregiudizio sul popolo cinese tutto. Diviene un’icona, un simbolo di forza e tensione fisica, di velocità e destrezza, ma anche di disciplina e duro lavoro: qualcuno che richiama le giovani generazioni a seguire un modello.

Nasce a San Francisco nel 1940, cresce a Hong Kong e come nella migliore delle leggende, a diciotto anni, con qualche dollaro in tasca, cento per l’esattezza, riparte per l’America in cerca di successo. L’autore, nella descrizione del viaggio, non manca di associazioni; la più autorevole con la Eveline di un racconto di James Joyce. La finestra è l’occasione per un legame: quella di Bruce è la sollecitazione, l’altra, in terra irlandese, è il ritorno ancor prima della partenza. E nel mezzo, la chiamata al sogno: quello ricercato e quello mancato.

È così, per proseguire il racconto, per sognarlo come durevole
illusione, ma anche per vergogna o pudore di una debolezza alla
Eveline, che alcuni abbandonano magari a malincuore o un po’ esitanti certe finestre – case, odori, certezza – per andare da qualche parte, dichiarando pretesti plausibili a chi resta: il lavoro, lo studio, nelle sincerità più azzardate una passione.

Il passaggio di Lee mostra un pionieristico percorso dove accadono molte cose, con un piede in Cina e un braccio negli Stati Uniti, la sua esistenza si avviluppa più volte con i sogni dell’autore che ne segue le tracce. Accade così con le passioni, capita di perdersi in qualcuno o qualcosa, succede che la nostra ispirazione talloni l’aura ispiratrice e la vita si muova anche in virtù di quella fiamma. Pagina dopo pagina, giunge il lampo fiabesco di un incontro, esattamente nel punto centrale di quel ponte; in quella fantasia galoppante dove il Piccolo Drago si è posizionato e appare proprio come una voce che scandisce all’autore queste parole grondanti di saggezza e trasporto. Accade inoltre che l’arte marziale di Bruce Lee sia la cosa più vicina all’atto della scrittura: dedizione, studio e ardore. Non tralasciando, a ogni modo, un distinguo: lo scrivere si cristallizza sulla pagina, l’arte marziale domanda un corpo che tramandi a un altro. Ambedue contemplano il cuore nelle mani, dita che si muovono in una danza, sollecitate dall’inchiostro o da una sfida, tirate da una preziosa tecnica, prima osservata e poi con il tempo acquisita. Mani che permettono accostamenti cinematografici: quelle del Piccolo Drago, per voce di un indimenticabile Mario Brega in Bianco Rosso e Verdone, possono essere “fero e piuma”. E nel ponte tra Oriente e Occidente, tutto il mondo è paese, quando proprio dalle mani di un parrucchiere – seppure avvezze a criniere da star- testimoni di una performance di Lee all’International Karate Tournament, passano alla bocca, nel consegnare l’importante suggerimento a un produttore televisivo. William Dozier ascolta dall’hair stylist la meraviglia del movimento di Lee: è sempre in uno spazio di chiacchiera che avvengono gli incontri e si fa la storia. E dalle mani di un coiffeur si arriva alla serie televisiva The Green Hornet che vede Bruce Lee protagonista. È curioso, ci illumina l’autore, che in cantonese un Sifu può essere un insegnante di Kung Fu e anche un parrucchiere: entrambi riservano rispetto e considerazione alle mani.

Con la serie Tv di Dozier il Piccolo Drago non decolla a Hollywood, ma entra, non senza una certa perplessità, nelle grandi dimore dei divi. E lo fa alla maniera di chi, pur avendo in qualche modo rotto gli schemi del Kung Fu classico, continua a preservarne dei principi fondamentali, nello specifico quello del Yat yaht waih sì – Jung sang waih fu, ossia Maestro per un giorno, padre per tutta la vita. Non sente di poter godere e donare tale privilegio poiché non si riconosce nell’ambiente e non abbraccia i capricci degli attori, non avverte quel legame così importante. Sulla vigorosa corda che lega i due mondi, Bruce Lee accorpa oggetti, luoghi e sensi. Nei luoghi trovano spazio i cortili: che sia un piccolo borgo in occidente o un quartiere di Hong Kong, quanta vita scorre in quel piccolo universo di spazio e tempo? L’infanzia, il sudore, le grida, i richiami, tutti a far da cornice al cortile. Laddove non si scorgono tali spazi, è possibile trovare dei terrazzi dove esercitare un’arte tesa su un’emozione che prende vita dal corpo. Una fisicità che, nel tramite di un terrazzo, porta dal fuori al dentro e torna ancora alla scrittura. La storia cinese vive nei libri, gli edifici si ricostruiscono, l’inchiostro resta. La cultura orientale non esita al nuovo edìle, il vecchio lascia il posto alla modernità, ma continua a custodire avidamente la scrittura. Poiché è sempre in quel principio di ferro e piuma che i maestri di Kung Fu vivono anche la possibilità di essere degli illustri calligrafi. Particolare non trascurabile è da ravvisare nel fatto che a soli trentadue anni, Lee possiede più di 2.500 libri.

[…] l’ideale compimento delle cose, anche marziali, tende verso la scrittura. Non il guerriero, ma un letterato è il modello esemplare. Perciò il dio taoista della guerra Guan Gong è anche patrono delle lettere effigiato non con l’alabarda, ma seduto mentre legge gli Annali Primavere e Autunni.

La passerella, il ponte o la corda che Mouth Si Duhng – Il ragazzo che non si ferma mai, nell’appellativo materno, si corroborano per il tramite di una letteratura che va da quella inglese a Cartesio, passando per Hermann Hesse per tornare al casellario dei classici cinesi. Il passaggio si fortifica finanche con le idee di un pensatore indiano, elaborazioni che Lee trascinerà nelle sue pagine del Tao of Jeet Kune Do:

Può operare liberamente e pienamente solo chi è ‘al di là del sistema’. Chi seriamente intenzionato a raggiungere la verità non ha uno stile prestabilito, vive unicamente nel reale.

Il ponte che lo stesso autore del libro percorre più volte, figura uno spazio abitato da accurate divagazioni; se da un lato sussurra di un Bruce Lee come idea di perfezione dentro una cornice imperfetta, dall’altro conduce direttamente al cospetto di un presente cinematografico particolarmente vicino. Ed ecco giungere il Tarantino che ripesca il David Carradine, un tempo preferito al Piccolo Drago nella serie Kung Fu, per la monumentale interpretazione di Bill in Kill Bill. Di nuovo tutto nel cerchio, dove il ragazzo che non si ferma mai è sempre la figura dominante. Da lui si parte e a lui si torna. Ma se di un certo cinema di Tarantino la matrice risulta presumibile, differente è l’inimmaginabile irruzione di Carl Gustav Jung, Federico Fellini ed Ernst Bernhard: il ponte si fissa mediante lo Yijing, uno dei cinque classici cinesi. Una versione, con l’introduzione di Jung non poteva sfuggire a colui che nella psicologia analitica ha cercato e trovato parte della sua ispirazione: il cineasta Fellini.

Questo libro, in buona sostanza, sogna per noi. Esprimendosi con lo stesso linguaggio simbolista, misterioso e indecifrabile dei sogni. Perciò non mi dà nessuna inquietudine, anzi mi conforta. Come se battessi dei colpi al portone di un castello…

La grandezza dell’opera di Palmieri è tutta in quella sua sapienza, accarezzata da oriente a occidente, mediante la quale conduce il lettore proprio sulla saggezza di quel ponte. Un capitanare che non avviene solo nel fine di ricordare certa cinematografia di genere che caratterizzò l’immagine di Lee, ma per omaggiare una figura aprendo le porte di una cultura che finalmente si svincola dagli stereotipi e si dona senza riserve. La penna di Palmieri scorre con grazia, la stessa che si deve adoperare nel giro di questo libro. La sua mano è piuma nel racconto e ferro nel sogno.

* Francesco Palmieri, PICCOLO DRAGO – La vita di Buce Lee, Mondadori Libri, pag.183

(28 aprile 2017)

 

 

Leonardo DiCaprio compie 46 anni – viaggio nella carriera attoriale prima dell’Oscar

REVENANT

È quella rondine che non fa primavera. È colui che per pochi impercettibili istanti – quelli impiegati per aggiustare lo stile e il tiro – arriva secondo e non infila la vittoria. È intorno al  podio con l’amara consapevolezza di un trionfo in tasca. È il boccone indigesto dell’Academy Awards. È l’emblema contemporaneo di un’affermazione di “beniana” memoria, “Siamo quel che ci manca”: è tutti gli Oscar non vinti in una mancanza che ne decreta un’eccellenza.

È il prodigio ufficioso e una profezia attoriale nella pellicola del regista Lasse Hallström: What’s Eating Gilbert Grape – Buon compleanno Mr. Grape. È il giovanissimo Leonardo DiCaprio nel ruolo di un disabile: Arnie Grape. Il film figura una storia delicata, una drammaticità edulcorata dalle continue incursioni dell’attore sul pluviometro della città, una ventata di garbata ironia a tutta la storia. DiCaprio è alle prese con la prima mancanza: nomination all’Oscar come attore non protagonista. È in Titanic che le statuette giocano un’impertinente rincorsa con l’attore, la pellicola di James Cameron ne vince ben undici al pari di Ben Hur. Oscar per tutto e tutti con un’eccezione all’eccezionale. Il film è per l’attore una sorta di croce e delizia, in virtù di un ripetuto, quanto erroneo luogo comune: maggiori sono gli incassi, peggiori le prestazioni. È quel piccolo storcimento di naso a opera di molti davanti al successo di botteghino. Spesso si afferma il luogo comune, a volte arriva l’eccezione alla regola. Con The Beach del “trainspottiano” Danny Boyle, gli Academy non fanno nemmeno capolino. La critica e il pubblico bocciano il film. La spiaggia di Boyle è un luogo mentale, un viaggio iniziatico e di ricerca. L’isola è l’uomo dentro e contro la natura. La fuga in un altrove ne disegna una più ovvia: quella da se stessi.

L’incontro con Martin Scorsese: la follia di Howard Hughes

L’incontro decisivo di “Noodle” (testa dura) è quello con il regista Martin Scorsese. L’attore attraversa istrionicamente diversi ruoli, tutti sotto quell’ala protettrice un tempo appartenuta a Robert De Niro. Il primo appuntamento in Gangs of New York, si consolida in una considerevole relazione nel biopic Aviator. La pellicola racconta la vita del magnate statunitense, aviatore, eccentrico ed eccessivo Howard Hughes. Nuovamente alle prese con un disagio, questa volta di origine psichiatrica – Hughes è un germofobico ossessivo – DiCaprio appare nel film un Arnie che ha raggiunto la maturità e la perfezione, portando a compimento la follia in maniera magistrale. Il film vince cinque premi Oscar, l’attore vince se stesso.

Dopo due anni, il sodalizio artistico si festeggia in Departed: il bene e il male vivono in un ritmo furioso, mediante il montaggio sapiente di Thelma Schoonmaker. Le due facce dell’esistenza convivono, si confondono ed esistono nell’angoscia del cattivo e del buono: Matt Damon e Leonardo DiCaprio. La pellicola e il suo ritmo incalzante minano il respiro, le certezze e i confini tra la luce e le tenebre dell’animo umano. In questo incedere veloce, ognuno paga la propria colpa, innata o guadagnata, e non ci sono sopravvissuti. Il film porta a Scorsese quattro statuette: film, sceneggiatura, regia e montaggio.
Qualche anno dopo, con Shutter Island, sotto la stessa ala protettrice, l’attore torna al tema della follia. Una pellicola sull’inganno: quello operato dal regista e l’altro, quello più umano, la rimozione come raggiro dell’uomo su se stesso. È un thriller tutto di psiche, segue i percorsi impervi delle fragilità mentali con tinte fosche e toni noir. DiCaprio è un Arnie, passato per Hughes e approdato all’ultimo e definitivo giro di volta della insania mentale. Se in Departed erano i confini tra bene e male ad essere annullati, qui pazzia e lucidità, realtà e immaginazione, si confondono e confondono. Regia e interpretazione magistrale per zero statuette.

Nel 2011 l’incontro memorabile è tra un repubblicano e un democratico: Clint Eastwood verso Noodle. La storia è quella di J. Edgar, fondatore dell’F.B.I., la pellicola predilige l’aspetto umano a quello politico. Un uomo modernamente vecchia maniera, un contemporaneo classico, l’inventore delle impronte digitali al passo con i tempi, ma totalmente fuori dal tempo. L’interpretazione attoriale pecca in un dato estetico: un trucco eccessivamente marcato nell’invecchiamento che sfocia a tratti in una maschera caricaturale. (Peccato).

Fortunatissimo l’appuntamento con Quentin Tarantino nei meravigliosi fotogrammi di Django Unchained. La sontuosa e originale celebrazione di un certo cinema e il biasimo di un determinato periodo storico. Il tutto farcito da un’ironia irriverente, dettata da una colonna sonora che va dal pop, allo spaghetti western di Django, sino al soul gospel. Leonardo DiCaprio è Calvin J. Candie, il crudele proprietario della piantagione che troneggia sulla pellicola mediante uno strepitoso monologo. L’attore è totalmente nel personaggio fintanto da ferirsi realmente una mano, il regista lascia correre e scorrere il sangue. Nella valigia delle mancanze, l’attore mette una candidatura al Golden Globe come migliore attore non protagonista.

Il ritorno a Scorsese, arriva nel 2013 con The Wolf of Wall Street. La storia è quella della veloce scalata e ancor più rapida caduta del broker Jordan Belfort. Un uomo si muove lestamente tra gli eccessi in una totale assenza di moralità: è il lupo che corre da solo in mezzo agli altri lupi. Il ritmo è scatenato e delirante, DiCaprio è il trasformista dell’animo umano: da un tranquillo borghese a creatura dannata, dionisiaca e incessantemente in stato di alterazione. Nessuna condanna in un mondo al sapor di anestetico: droga, sesso, soldi. Ennesima candidatura per un attore in piena sintonia con il regista in un’interpretazione irriverente e versatile. È l’importante preparazione alla pellicola successiva.

Aspettando Revenant: da Birdman a Bearman

È Hugh Glass, il Redivivo in uscita domani, 14 gennaio, nelle sale italiane. È la vivace speranza del regista Alejandro González Iñárritu. È già una certezza: Golden Globe come migliore attore drammatico. Un’ennesima occasione che lo vedrà vincere o mancare quella impudente statuetta. Riconoscimento privo del potere di spostare, anche solo di un millimetro, un dettaglio qualsiasi nella sua maestria attoriale. Nella pellicola del regista messicano, si mormora di un DiCaprio in stato di grazia. Un lavoro svolto al freddo di Alberta, Canada, tra le ore diciassette e le venti, alla ricerca della luce ideale. Da Birdman a Bearman in un nome: il Noodle, la testa dura che non fa primavera, ma festeggia in ogni film il lavoro dell’attore.

  • 13 gennaio 2016

Monica Vitti: la diva e l’assenza

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“Monica Vitti” by cwangdom is licensed under CC BY-NC-ND 2.0

In un istante tra il tragico e l’eterno, accade una forma di divismo che sembra poter accedere alla divinità. Si alimenta in una condizione di inevitabile isolamento, dentro un’assenza che evolve in solenne presenza. Si compie nella diva del muto Norma Desmond, in quella monumentale opera che è Sunset Boulervard, nell’impietoso avvento del sonoro. Venuta infelice con il contegno di un arresto del momento apogeo. Se per la Desmond – Gloria Swanson – il violento fermo è paradossalmente nell’incedere del tempo, nel contesto di un patrimonio di bellezza tutta italiana in bravura e femminilità, accade in Monica Vitti. Il tragico impaccio passa dall’arrivo del sonoro, per un infausto tramite: un supposto mostro degenerativo.

Nella vita il mito accede a una precoce realizzazione mitologica; non nell’esibizione di un male, ma in un pudore tutto eremitico che fa di una diva una divinità. Nell’altissimo Parnaso, si diffonde un silenzio, una potente assenza che diviene mancanza di grazia e sapienza attoriale, ragionevolmente nell’ultima delle più grandi interpreti che il cinema italiano custodisce avaramente. Monica Vitti è la valida iniziatrice di un archetipo attoriale: l’anima simpatica dentro la bellezza. Erroneamente e per lungo tempo, l’ironia è stata eletta solo patrimonio di una lei, che non potendo appellarsi a un incanto estetico, ripiega sulla distrazione ironica come forma di compensazione. Monica Vitti, all’anagrafe Maria Luisa Ceciarelli (Roma, 3 novembre 1931), rappresenta la sintesi perfetta di armonia corporea e inclinazione irridente.

È la femme dai capelli dorati che provoca la risata, non passando per un più scontato cliché della svampita, ma attraverso quel gioco tutto costruito sul difetto, in un movimento che poco appartiene al superato retaggio della donna ammaliante. Sono le gambe più belle del cinema italiano che sanno muoversi in maniera sgangherata, senza scivolare mai nel grottesco, restando ancorate in quella zona tutta di simpatia. È quella voce roca che non necessita di un superfluo doppiaggio, poiché si aggiusta sul personaggio, di volta in volta, interpretato. La sua maestria attoriale è dentro un’oscillazione che fa di un’attrice una meravigliosa interprete: la sapienza di dissolversi completamente nel ruolo. È l’eclisse, l’avventura e la notte. È la trilogia, la musa e la donna di Antonioni, dove nel piccolo ruolo de La notte figura il raggio di sole dell’altra: Jeanne Moreau. Valentina Gherardini è l’embrione di Lidia Pontano, l’innocenza che la vita, nella totale assenza di autenticità, porterà alla icona di donna tragica. Monica Vitti e Jeanne Moreau, sono nella pellicola La Notte due meravigliose e tragiche facce della medesima medaglia, la gioventù dell’una diviene la maturità dell’altra: in mezzo la vita che scorre senza pietà per alcun essere umano. Ma nella contemplazione del film con pochissimi dialoghi, nel cosiddetto cinema dell’incomunicabilità, non si scorge l’attrice Monica Vitti, ma solo ed esclusivamente Valentina Gherardini, poiché la prima si è magistralmente dissolta nell’altra. Così come non si ravvisa in Amore mio aiutami dove ad avanzare, è una bizzarra e appassionata Raffaella, una tragicommedia che, in un’atmosfera scanzonata, si fa livella di tutte le classi sociali. Ancora una volta l’attrice si dirada nel personaggio e lo spettatore dimentica regia, copione e recitazione. Poi si torna alla vita, si riaccendono le luci e fuori, soltanto fuori dalla sala cinematografica, torna alla memoria la Vitti in Raffaella.

L’attrice è la divina intima del cinema popolare e l’icona sofisticata di pellicole considerate importanti. Un’immagine sacra nell’isolamento di Antonioni e una figura follemente balzana nell’Adelaide di quell’”amo, riamata Serafini Nello e lo appartengo!”. Adelaide Cianfrocchi diviene la figurazione sacrale della commedia all’italiana di Ettore Scola. È la bellezza in grado di oscillare tra l’incomprensibile e il popolare, senza mai cadere nella fissità di un’attrice caratterista. Tra grazia e zona primitiva, si crea uno spazio intermedio, un sunset boulevard tutto italiano dove la Vitti si fa diva vivente. Il suo personalissimo viale del tramonto, tragico e delicato allo stesso modo, è nell’eremo; nella potenza della sua assenza. Una Norma Desmond che con l’avvento del sonoro non svanisce, ma si fa creatura eterna e irraggiungibile. Monica Vitti è il mito che si solidifica nell’incedere del tempo, arrestandolo all’unicità di quei ruoli di impossibile emulazione.

Monica Vitti è la diva incorporea che rende la bellezza accessibile, ne fa un patrimonio scanzonato dove la passione è un equivoco all’interno della quale struggersi in una risata. Porta la lanterna mediante la quale illumina la malinconia con la fiamma dell’irriverenza. Accende l’udito con quella voce roca dove spiega che il segreto della sua comicità è la ribellione all’angoscia, alla tristezza e alla mestizia della vita. Un’affascinante ribelle dell’esistenza che troneggia sull’empireo del cinema. Quello vero.

Faccio l’attrice per non morire, e quando a 14 anni e mezzo avevo quasi deciso di smettere di vivere, ho capito che potevo farcela, a continuare, solo fingendo di essere un altra, facendo ridere il più possibile.

  • 13 giugno 2016

Inquietudine ed estetica in David Lynch

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“D.L” by Marcin Kruk aka NEVARAVEN is licensed under CC BY-NC-ND 4.0

La sua è una macchina portata a farsi frastornante lente d’ingrandimento dei drammi esistenziali. Con ardimento e sagacia, penetra all’interno dell’essere umano, ormeggiandosi nei luoghi più oscuri e inviolati. Zone che osserva, taglia, seziona e restituisce in un’estetica dell’immagine che disegna la perfezione chirurgica.

Se per alcuni l’urto creativo prende forma da uno stato d’animo malinconico, per altri la fonte della creazione è da rintracciare in un ascolto incessante al richiamo dell’inquietudine.

Solo gli inquieti sanno come è difficile sopravvivere alla tempesta e non poter vivere senza.

Quella della scrittrice e poetessa inglese Emily Brontë, si leva come una delle descrizioni più fedeli di siffatto stato d’animo. Un sentimento che porta talora ad avvertirsi come creature incomplete, assiduamente tese alla ricerca del potenzialmente irrealizzabile. Uno stato del corpo e della mente che si materializza in una costante concitazione. Un anelare a quel tratto incompiuto che nell’artista afferra l’occasione per la messa in scena del personaggio principale: la forza creativa.

All’interno di una smania tutta televisiva dei cultori del genere e nell’attesa dei nuovi episodi della serie televisiva Twin Peaks, previsti per l’inizio del 2017, il ritratto dell’inquietudine nella pellicola è del tutto nella figura del cineasta statunitense David Lynch. La sua è una macchina da presa che si fa strepitosa lente d’ingrandimento dei drammi esistenziali. Senza domandare licenza, penetra all’interno dell’essere umano, approdando sin nei luoghi più oscuri e inviolati. Zone che osserva, taglia, seziona e restituisce in un’estetica dell’immagine che disegna la perfezione chirurgica. Tanto più oscuro è l’individuo quanto più cristallina si affaccia l’immagine sul grande schermo. Il conflitto personale è solo un punto dal quale partire per fare di un dettaglio, un campo lunghissimo dove la creatura inciampa in morbosità, ossessioni e incubi.

L’associazione naturale accade nell’ambito dell’immagine con la fotografa newyorkese Diane Arbus. Dilatando tanto più l’accostamento, l’affermazione si scioglierebbe in un’ipotesi dell’assurdo: se Diane Arbus si fosse reincarnata in un regista, l’avrebbe fatto nella figura di David Lynch. Sono universi sotterranei quelli che definiscono, seppur in sfere relativamente diverse nel luogo e nello spazio, l’opera dei due personaggi. Fotografie e pellicole che gridano di creature deformate nel corpo e nella mente. La memoria s’incammina in un verso, la pellicola del 1980 che fa di Lynch, David Lynch: The Elephan Man. Un’opera maniacale nella deformazione fisica del protagonista, Joseph Merrick, non sguarnita da risvolti particolarmente emotivi.

Io non sono un elefante! Io non sono un animale! Sono un essere, umano! Un uomo, un uomo! La gente ha paura di quello che non riesce a capire.

Il film narra una storia vera. Lynch si inserisce per conferire dignità al deforme e sottrarre decenza all’essere umano socialmente accettato. Scova il confine immaginario di ciò che appare normale e concepibile, ma che realmente è solo il cruento che abita l’essere umano. Quel tratto di sadismo che si galvanizza nell’esposizione della sofferenza altrui. Ripugna più il deforme o la mostra del deforme? Repelle esibire l’insano o considerarlo oggetto della mostra? Lynch, mediante una pellicola indimenticabile e toccante, risponde a domande senza tempo e soprattutto si schiera senza dubbio di sorta. Non resta sulla soglia, ma entra con veemenza in quel mondo, lo scardina e lo offre su una tela dalla quale il nostro sguardo non può sottrarsi.

Se in The Elephant Man, l’orripilante custodisce i connotati di un corpo, una voce, un’anima e un pubblico,  in un opera di qualche anno dopo è l’apparenza a farsi mostro senza spirito. Blue Velvet, pellicola del 1986, prende il nome da una sonata di Bobby Winton, cantata nel film da Isabella Rossellini sul palco dello Slow Club. L’opera è un viaggio nell’oscuro, dove il linguaggio tende a farsi più indecifrabile. Lo sguardo che, nella narrazione indossa il carattere doppio mediante il meccanismo del voyeurismo, è un’indagine sui drammi esistenziali. La ricerca è tutta sul campo dei conflitti personali, stipati in un ambiente buio e claustrofobico. La trama è secondaria poiché il regista, nuovamente, conduce al cospetto del male, non differenziandolo dal bene come accadde in The Elephant Man, ma distintamente portandone un’immagine dove un volto  cade nell’altro. La donna si assottiglia in un oggetto del desiderio tale da portare finanche all’abuso e alla sottomissione. La cornice, fuori dagli ambienti oscuri, è una cittadina qualunque che alimenta le ossessioni più della grande metropoli. La musica è una colonna sonora ripetuta all’infinito che segna anche l’inizio della collaborazione definitiva con Angelo Badalamenti.

Tra Wild at Heart, Lost Highway e Mulholland Drive, l’inquieto Lynch inserisce una sospensione, uno sgravio, un alleggerimento: The Straight Story – Una storia vera. Accade realmente che un uomo, Alvin Straight (Richard Farnsworth), decida di ritrovare un legame interrotto con il fratello. Accade che per far questo, stabilisca di attraversare l’America a bordo di un tagliaerba. Accade che una tale opera, nello sguardo del regista, si distenda finalmente sui fotogrammi di uno stato di quiete. E accade che in un’allegoria tutta pittorica dal simbolismo de L’isola dei morti di Arnold Böcklin, approdi finalmente alle atmosfere pacate di una tela di Evgeni Gordiets; surrealista russo distante dalla voracità della metropoli. Il tempo del film è quello della tartaruga o finanche della lumaca: lento, dilatato e solenne. La tensione è vigorosa nel finale: la riconciliazione. Riavvicinamento che si rende metafora dell’importanza del nucleo familiare. Nel lungo viaggio, l’incontro con la ragazza incinta, diviene marcatura potente del motivo fondante: la famiglia.

Quando i miei figli erano piccoli, facevo un gioco con loro. Gli davo in mano un bastoncino, uno ciascuno e gli chiedevo di spezzarlo. Non era certo un’impresa difficile. Poi gli dicevo di legarli in un mazzetto e di cercare di romperlo, ma non ci riuscivano. Allora io gli dicevo: quel mazzetto, quello è la famiglia.

Ancora Angelo Badalamenti, dentro un film costruito sulla potente semplicità dei sentimenti, si fa cornice sonora dello spazio, del tempo e di quella quiete che si innalza a valore inespugnabile. L’attore protagonista, Richard Farnsworth, conquista una candidatura all’Oscar proprio per quello che figurerà il suo ultimo film prima del suicidio.

Superata la quiete di Una storia vera, il regista passa ancora per il filo nero di Mulholland Drive e Inland Empire per lasciare definitivamente la macchina del cinema, almeno quella dei lungometraggi. Artista che si completa anche nella pittura, nella fotografia, nella musica, nonché in una passione per la meditazione trascendentale, figura nella storia del cinema, quello d’autore, un regista singolare, un indagatore dell’incubo che trattiene i filamenti dello spettatore anche fuori dalla sala cinematografica.

Il mio film è composto della materia di cui sono fatti gli incubi. Io ho paura di molte cose, ma soprattutto delle bocche e dei denti degli uomini…

  • Intellettuale Dissidente, 29 ottobre 2016

La peau douce di François Truffaut – Un ritratto della protagonista femminile: Françoise Dorléac

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La vraie actrice de la famille

Catherine Deneuve

Un ridondante diluvio di lunghi capelli a farsi contorno di un volto destinato al fermo immagine. Il piglio nel palpebrare, lo sguardo in rilievo sul tratto di un eyeliner nero. La scesa sullo schizzo di una piccola piramide alla francese e giù, sino a un cuore di labbra disposto all’appeal. La sagoma è quella di un acero rosso, gentilmente sottile, che svetta su passerelle di bellezza. Grazia sigillata dallo stilista di Granville, Christian Dior.

Françoise Dorléac (Parigi, 21 marzo 1942 – Villeneuve-Loubet, 26 giugno 1967) è attrice ancor prima che mannequin. Accanto a Gaby Morlay, germoglia sul tavolato di un palcoscenico a soli dieci anni. È figlia dell’arte la Dorléac, la stessa alla quale si vota poiché è il solo portamento per stare al mondo. Indisciplinata e ribelle, allontanata dal liceo si iscrive al Conservatoire national supérieur d’art dramatique di Parigi.

Dotata di tutta l’immediatezza di una contrada incontaminata, la sua bellezza descrive un luogo disabitato e, come tale, pronto a collegarsi al moto di altri territori. Fresca e indomita con poche, ma considerevoli pellicole girate, diviene il riconoscimento del ricercato incanto parigino. Incantesimo che ammanta la città e l’attrice per soli venticinque anni.

Sorella di Catherine Deneuve, la Dorléac perde la vita in un incidente stradale sulla panoramica Esterel, tra Tolone e Cannes. La destinazione, mai raggiunta, è l’aeroporto di Nizza per volare a Londra e assistere alla proiezione del film Les Demoiselles de Rochefort, diretto da Jacques Demi e interpretato insieme alla sorella.

Destino amaro, comune a molte celebrità che, in pochi anni di carriera, riescono a donare la scia luminosa della loro stella attoriale nel firmamento del cinema.

Le circostanze della morte richiamano un’altra diva: Dorothi Dell. Interprete e cantante statunitense degli anni ’30, bella e biondissima, muore all’apice della sua carriera cinematografica. Resta nella lucina rossa della macchina da presa con una dichiarazione in ceralacca:

Diventerò una vera attrice. Non solo un’attrice in più, ma un’attrice vera, onesta e brava come Marie Dressler.

La Dell muore in un incidente d’auto dopo una festa ad Altadena, sulla strada per Pasadena. Aveva diciannove anni.

Françoise Dorléac, dopo aver recitato accanto a Jean-Paul Belmondo ne L’uomo di Rio, guadagna velocemente notorietà, anche sotto lo sguardo intimo di uno dei protagonisti della Nouvelle Vague, il regista francese François Truffaut. Unitamente nella pellicola La peau douce (La calda amante), l’attrice e il regista, oltre a lavorare insieme, intrattengono una breve relazione sentimentale. Un fatto curioso se si pensa che all’epoca il regista era sposato, esattamente come il protagonista del film e, parte della pellicola, viene girata all’interno dell’appartamento di Truffaut.

Il reale e il cinematografico si confondono per farsi pavimento di un instancabile iperrealismo. Prima di un amore sul solco in bianco e nero della nuova onda francese, l’attrice vive una passione giovanile con l’attore Jean-Pierre Cassel, conosciuto all’Epi Club di Montparnasse, quartiere che la Dorléac indossa scioltamente, proprio per il richiamo al monte Parnaso, la sede delle muse. Questa splendente Afrodite parigina si impone con La peau douce come una divinità che affresca la cinematografia francese in modo sapiente e delicato. Il film di Truffaut sussurra il richiamo alla metafora, una sorta di surreale testamento del rapporto dell’attrice con la vita. La trama del film è semplice: la Dorléac interpreta l’hostess Nicole, la giovane amante di Pierre Lachenay, competente conoscitore di Balzac e direttore della rivista letteraria Ratures. L’uomo è sposato con una donna particolarmente seducente: Franca.

Le mani, in apertura di pellicola, rappresentano l’allusivo emblema della pelle e dello sfioramento come l’epifania della delicatezza portata in trionfo da Nicole. Il ruolo dell’amante è totalmente capovolto, smarrisce le proprietà peculiari della seduzione erotica per destinarsi a una creatura lene e tenera. Nicole descrive una fanciulla alla ricerca di protezione. Al contempo è una donna contemporanea, figlia degli anni ’60, vive un amore nella consapevolezza della fine di ogni sentimento. In un riposto paradosso, la moglie Franca, interpretata da Nelly Benedetti, incarna il ruolo più conforme alla hostess. Una femme impulsiva, sensuale, passionale.

Il montaggio del film, soprattutto in alcune sequenze, è segnatamente serrato, proprio a evidenziare il passaggio ineluttabile del tempo. Una temporalità che pedina soprattutto l’uomo. Un individuo medio, indifferente, apparentemente distante dalle passioni, si lascia condurre da una brama che lui stesso non riconosce.

La macchina da presa è messaggera del volto e dell’animo di Nicole.

Françoise Dorléac disegna l’amara allegoria del piccolo e discreto spazio che la figura dell’amante occupa nell’esistenza. Come il ruolo che interpreta ne La peau douce, nella freschezza di Nicole, la Dorléac è l’amante della vita. Occupa un esiguo spazio temporale, lo vive appieno per poi ritirarsi in silenzio in un altrove di giovani celebrità. È la giovinezza di Parigi, l’amante vivace e moderna della vita corrisposta per soli venticinque anni. Amata sino all’ossessione per giungere nel tragico finale di una dissolvenza nera.

Ma l’acme della passione è nel ventre proibito dell’amante: il tempo di cuore, liberato dalla responsabilità del vincolo e lesto al richiamo del sentimento.

La Dorléac e la vita sono l’amata e l’amante di una liaison dolorosa poiché breve e intensa. Il segno indelebile è sulla città e l’esistenza.

Il cinema piange e applaude.

  • Da Anime Inquiete

In memoria di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia

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La stagione dell’infanzia conserva un timido sottofondo di spensieratezza. Un cantuccio autentico dove rifugiarsi e riprendere vigore. Il primo approccio a quel cinema della distensione, porta la voce di un padre dentro l’affresco poetico di due creature bizzarre. Il particolare si posa sulle radici indigenti di due esistenze. Dettaglio che infonde nella risata del giovane spettatore un respiro di affettuosità. Un leggero afflato che, in punta di memoria, entra nell’atto gioioso. È un guardare l’infanzia dall’infanzia, rintracciando in due grandissime figure attoriali l’archetipo del Puer Aeternus: il fanciullo eterno. Accade la purezza in una perpetua inclinazione farsesca nell’epica coppia comica: Franco Franchi e Ciccio Ingrassia.

Francesco Benenato e Francesco Ingrassia descrivono l’immagine di due grandi comici che abitano il cuore della gente e mancano alla critica salottiera. Collocati nel cinema definito trash o di serie B in un passato non lontanissimo, rimbrottati con la penna rossa dalla maestrina festivaliera, vivono attualmente una degna riabilitazione. Fenomeno tardivo che abbraccia l’arte di molti grandi, una sorta di parabola che dopo la morte muta direzione. La fine come ritorno alla vita nel principio dell’arte. Ebbene la risata di un bambino è giudice notevole, riconoscimento di un prodigio: adulti abitano l’infanzia. La genuinità che riconosce  la naturalezza di due maschere infantili, bucoliche e generose.

Non figurano accademie nella preparazione attoriale della coppia: gli inizi di Franco si rintracciano nelle strade animate dal suono della sua grancassa. Ciccio si fregia di qualche passo sul palcoscenico teatrale. La cornice del loro incontro è una povera e fragile Palermo del dopoguerra. È l’avvilupparsi di due anime bambinesche, gli eterni fanciulli vivono un mondo non esattamente ideale che attraversano sfidando pericoli a colpi di incoscienza. Nella totale assenza di sceneggiatura nasce quel conflitto che sarà il tema comune di tutte le pellicole: l’alto e il basso, il volto plastico e le pieghe distese, lo sganasciato e il malinconico. L’uno maschera tutta facciale, negli occhi ruotanti e nel dettaglio della voce roca in un grido: “Cicciooo!”. L’altro garbato e sognatore, nell’ingenuità si poggia sulle improbabili soluzioni di Franco. E insieme vivono in pellicola in quel rammendarsi nell’invadenza di un imbarazzo esterno, in quell’aggiustarsi sulla soluzione più bizzarra.

Film di serie B che fanno la fortuna di quelli cosiddetti di serie A. Canovacci che la coppia rende pellicole e finanziamenti per la sfera riconosciuta alta della cinematografia. In passato per lunghissimo tempo, il comico ha vissuto nell’isolamento della regione bassa, in quel distacco necessario alla morale a non scontrarsi con la propria immagine. L’ilarità che nasce sulle labbra è momento di sospensione, un istante prolungato necessario alla vita. Un rigenerarsi dall’impegno, una liberazione dall’obbligo e dall’immagine nostra, tutta di compimento e operosità. Franco e Ciccio rappresentano la comicità assoluta di “baudelariana” memoria. E proprio nell’enunciazione del comico innocente/assoluto di Baudelaire, nell’atto di avvicinare l’uomo alla condizione di gioia suprema e primigenia che si ritrova un’arte considerevole della coppia siciliana. Si tratta di tornare in contatto con il mondo infantile fatto di innocenza e beatitudine. Nella creazione di una vertigine si sfrena un gioco, l’attore e la maschera si muovono all’unisono in un unico gesto scenico di dissacrazione. Profanazione che nasce, si alimenta e muore in un rincorrersi di ingenuità fatte azione. Una pantomima con il dono della voce si perde nell’eco di una risata innocente.

Ripercorrere la filmografia della coppia è atto impossibile per l’importante mole di pellicole girate. Stimati fortemente da Carmelo Bene, per proporre un’eccezione al piattume della critica, attraversano mediante ronzini metafisici, generi e parodie. Lavorano contemporaneamente su più set. Vantano collaborazioni con nomi importanti: Steno, Corbucci, Grimaldi, Petri e Girolami. Con la purezza nel volto e il sorriso nel cuore si fanno miracolati nell’assurdo di un’incomprensione. Una roulette russa che dal film Per un pugno nell’occhio, si fa metafora di tutte le pellicole: l’equivoco fortunato che nella follia salva la vita.

Il cinema di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia volta le spalle al sarcasmo, nella velata affermazione che il gesto sovversivo è possibile anche fuori dalla perfidia caustica. L’ambientazione, anche quella più ridicola, è sempre in nome di una delicatezza di chi la vita ha tentato di guardarla negli occhi pur trovandola con lo sguardo altrove. È l’Allegria dei naufragi, meno ermetica di Ungaretti, l’allegoria fatta vita da coloro che attraversano il naufragio e riprendono l’esistenza stretti nella morsa di uno stato gioioso. Il lieto che nasce dall’infausto. Una comicità che, non dimenticando le proprie personalissime radici di indigenza, sostiene un’oscillazione circolare e impercettibile tra il sorriso e la risata.
Nella memoria di alcuni per aver dato voce al silenzio di Buster Keaton in Due marines e un generale, nelle immagini di molti per l’epico grido dello zio matto nel felliniano Amarcord, nelle pagine di altri per l’episodio pasoliniano Che cosa sono le nuvole. Franco e Ciccio, dentro il cuore di tutti nell’immortalità di un richiamo: l’archetipo fanciullesco. Immagini di letizia che superano in forza ogni nome altisonante. Un cinema da godere nella sospensione spensierata, nel sottofondo di un racconto paterno e nelle corde delicate di un’innocenza mai perduta.

1° aprile 2016

La Recherche di Marcello Matroianni

Marcello Mastroianni” by haidee is licensed under CC BY-NC-SA 2.0.

Nel compiersi dell’artista, la nostalgia descrive un fragore, una pressione che muta un sentimento in opera d’arte, un’emozione che trascina sulla tela, il foglio o la pellicola, le molteplici tonalità di un turbamento.

Jorge Luis Borges, saggista, scrittore e poeta argentino, per opera di una composizione poetica, coinvolge nel passaggio di un tempo altro che si dilata ne La nostalgia del presente. Una mestizia, tutta lirica, dove la fantasia aderisce all’oggettività nella ferrea volontà di depredarla. È un piegare la realtà alla propria urgenza – a tratti generazionale – in quell’ammalarsi di passato, nutrirsi e tornare a nutrirsi di nostalgia. Un arrestarsi nell’istante prima dell’accadere per trattenere l’attimo e renderlo in poesia. Non prender vita per esistere con ancora più veemenza sul foglio bianco che si fa messaggero di un sentimento altrimenti destinato a perire. L’inverosimile anelito all’incapacità di impadronirsi del presente, tutto in un’angoscia cautelativa che diviene epifania poetica. È la percezione della perdita che accompagna il caleidoscopio dentro la creazione artistica.

Se in Borges vive La nostalgia del presente, in Mi ricordo, sì, io mi ricordo, la pellicola testamentaria di Marcello Mastroianni, accade una straordinaria nostalgia del futuro, che ripiega in un’intima carrellata, stipata di curiosità, aneddoti e ricordi. Un profondo flashback, dove l’attore, dapprima delizia con una malinconia del futuro, per poi in un secondo momento, scongiurarla nel valico trasversale di tutta la sua esistenza. L’affanno al venturo figura come una sapiente rivisitazione, prolungamento di un’espressione proustiana: «I paradisi migliori sono i paradisi perduti». Così Marcel Proust, alla corte del quale, l’attore si rivolge per forgiare una sua personalissima visione: «I paradisi più attraenti sono quelli che non si è ancora vissuti». Un’ inclinazione elegiaca, che non guarda direttamente al passato, ma transita in un ipotetico futuro, per tornare ancora a ciò che è accaduto e narrarlo in una visione ispirata e corroborata dalla memoria. La nostalgia del futuro, è per l’icona cinematografica, pertinenza della giovinezza che vive di ansie e frenesie. Nella vecchiaia, la creatura si sposta nel rammarico, quello definitivo dell’Eden perduto. E tra una pausa e l’altra, nelle riprese dell’ultimo film, interpretato da Marcello Mastroianni, Viaggio all’inizio del mondo del regista Manoel De Oliveira, si distende l’opera della memoria in Mi ricordo, sì, io mi ricordo di Anna Maria Tatò. Risulta probabilmente errato parlare di una pellicola esclusivamente cinematografica, corretta sarebbe la definizione di un vero e proprio diario intimo, inscenato sul palco del tempo perduto. In un’indolenza tutta del vecchio Snaporaz, l’attore ripercorre un’esistenza, zigzagando tra il dentro e il fuori della MDP. Un’avvincente pigrizia innata nell’individuo e assimilata nel respingimento, sin troppo stretto, dell’ovvia definizione di latin lover. Resa linguistica che l’attore ciociaro rigetta, come frivolo limite all’uomo e all’interprete. L’icona è nello stile congenito e mai nell’ostentazione. 

Ricordi, fatterelli, piccoli odi e grandi amori, si riavvolgono lentamente in un racconto mai piatto, traversando gli anni che vanno dall’infanzia sino a quelli della maturità. Così l’iniziale approccio cinematografico all’età di quindici anni, nella prima comparsa in un film con Beniamino Gigli: Marionette. Siamo nel 1939 e il sogno del cinematografo, si accosta naturalmente al bisogno economico. Il caso e un ristorante a Cinecittà di un amico di famiglia, completano il resto. Di comparsa in comparsa, l’adolescente si fa uomo, sino a farsi interprete. L’appuntamento fatale è quello con Mario Monicelli, le vesti indossate sono quelle di Tiberio Braschi ne I soliti ignoti. Partecipazione che nel ricordo, evoca un Vittorio Gassman inconsueto, non come un uomo altero ma avvezzo a un umorismo sagace e con la beffa pronta per il regista di turno. Dentro una carriera che conta centosettanta film, Mastroianni si piega sulla riflessione di una parentesi. Di quanto la sua vita, quella vera, fatta di affetti e fuori dalle luci del camerino, si sia svolta tra una parentesi e l’altra. Un rammarico: in tanto scorrere di pellicola, il dubbio rovente di non essere riuscito a dimostrare il proprio amore all’interno della sfera affettiva. Pensieri che non impediscono a Mastroianni di invaghirsi di un autore, una teoria o qualsiasi ipotesi che rimandi all’amore:

… bizzarra come l’amore.

Io non sono mai stato un grande lettore, però ci sono

alcuni autori, o alcuni passi dei loro romanzi o scritti, che

mi hanno colpito.

Mi viene in mente quella splendida metafora in cui

Sthendal immagina che l’amore sia una specie di

cristallizzazione. Sì, di cristallizzazione.

Prendete un rametto secco – dice Sthendal –

e mettetelo in fondo a una miniera: quando tornerete

a riprenderlo, lo troverete ricoperto di magici cristalli.

E che cos’altro è l’amore? Non il nostro cuore

che illumina, che rende magicamente speciale

la persona di cui siamo innamorati?

 

E un movimento sull’amore non può che essere avvolto dal fumo di una sigaretta, l’ennesima, quella che rientra nella conta delle cinquanta bionde al giorno per cinquant’anni. Non un cenno di biasimo al vizio, ma un’invettiva contro gli americani e le loro pedanti battaglie sul fumo: «Ma che ognuno campi e muoia come vuole». L’America è anche quel posto dove il Gabriele di Una giornata particolare si reca insieme a Ettore Scola, per ricevere due nomination a quell’Oscar che non arriva. Un luogo dove Martin Scorsese li reclama nella propria villa. Abitazione in uso a mostrare manifesti cinematografici italiani come carta da parati. Una lezione da tenere sempre a mente: quanto, per almeno trent’anni, il cinema americano si sia nutrito di quello italiano; un orgoglio che la nostra memoria, sovente precaria, fatica a ritrovare.

Con La dolce vita, film di Federico Fellini del 1960, Mastroianni, oltre alla celebrazione di attore internazionale, si ritrova di nuovo a fare i conti con quella formuletta così urticante: latin lover. Lui che non pratica night club e le donne le abbraccia solo sullo schermo, invita a guardare l’impotente Bell’Antonio o il marito becco di Divorzio all’italiana. I media ti confezionano un vestito su misura, e anche se non ti calza stretto, resta indosso per tutta la vita. Ma se le classificazioni lo sviliscono, la recitazione lo galvanizza, anche nell’incomprensione di coloro che soffrono per entrare nella parte. Non si affida al metodo Stanislavskij e ancor meno a retaggi accademici, si fregia, al contrario, di un lavoro costruito sul gioco che contempli divertimento e non tormento; così alla maniera dei francesi: un “jouer”. Un’attitudine attoriale spiegata attraverso il Paradosso di Denis Diderot: quanto più un attore si inabissa nella parte tanto il risultato sarà flebile. Il distacco, al contrario, rende lucidi e precisi nell’interpretazione.

In tale flusso di ricordi, certamente il trono viene assegnato all’indissolubile legame di lavoro e amicizia con il regista romagnolo Federico Fellini. Una fratellanza fatta di discontinuità fuori dal set, ciclicità che cristallizza quell’intimità che non domanda costanza o presenza corporea. La cornice del loro primo incontro è Fregene, l’inizio di un’ilarità nel lavoro che li accompagnerà in tutte le pellicole girate: da La dolce vita a Intervista. Mastroianni ci diletta con il racconto di un Fellini calamitato, finanche posseduto, dalla potenza di un viso. Un cinema edificato sul volto e libero dai classici toni dell’attore. Ogni immagine custodisce un’importanza cardinale all’interno delle sue opere, perfino quella dell’ultima delle sue comparse:

L’abilità per esempio di ricordarsi i nomi di tutti, anche dell’ultima comparsa laggiù in fondo: «Maria? Vai un po’ più a destra!». Capirai, una comparsa che si sente chiamare per nome si getta nel fuoco per il suo regista. E questa era una delle sue stregonerie.

La pellicola del ricordo nell’icona del cinema Marcello Mastroianni, rappresenta una delicata urgenza di raccontarsi. Nella figura della regista che lo accompagna in un viaggio nello scorrere della memoria, l’appoggio si fa manifesto in una battuta di Michel Simon, dichiarazione che spesso Mastroianni tende a far propria: «I grandi attori non si dirigono, si guardano». E da tale affermazione il “M.M. – Autoritratto” di Anna Maria Tatò, diviene nell’ultima frase della pellicola un “Mi ricordo, sì, io mi ricordo”.

  • Intellettuale Dissidente, 21 settembre 2016

 

 

Uno sguardo sul Giappone – Akira Kurosawa

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“3 carteles — 3 películas de Akira Kurosawa” by Óscar Vázquez is licensed under CC BY-NC-ND 4.0

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Lontano sino al periodo Heian è il Giappone di Akira Kurosawa in Rashomon. Un cinema diviso tra la solenne figura del samurai e la precaria immagine dell’Occidente, si muove garbatamente nelle profondità dell’individuo. Un’epoca dorata che, nella distanza temporale, mostra la contiguità delle antinomie umane. Dietro la forte presenza dell’elemento maschile, espressa attraverso il corpo, annaspano intimità dilaniate. Esiste una marcata contemporaneità nel film, una sorta di disordine pirandelliano che manipola la verità nel sussurro di una dichiarazione: non sussiste una sola versione oggettiva dei fatti, ma diverse rappresentazioni degli stessi. Ogni personaggio è l’assoluto dell’altro, veicola e interpreta un mondo dove il diavolo è assente perché fugge dagli uomini.

Il Giappone di Akira Kurosawa, pur nell’ambientazione di un tempo lontano, è metafora di un paese sotto assedio – il film è del 1950, l’occupazione americana cesserà nel 1952 – dove ogni uomo disegna il fardello del caos che porta con sé. L’individuo, privo di compattezza, è in balia di se stesso e perduto nella propria parte: un samurai cade nelle debolezze di un brigante; una donna muove la sua parte tra la figura della vittima e quella del carnefice: l’effigie di un cosmo privato delle fondamenta, attraversato da diverse esistenze prive di identità. I frammenti di vita nelle immagini di Daido Moriyama sono la frammentazione della moralità in Akira Kurosawa, due diversi sguardi sul Giappone. Nel tentare la via del proprio personalissimo interesse, ogni personaggio in Rashomon, osserva la propria coscienza andare in frantumi. La pellicola è un’illuminante esegesi del caos: la storia entra nell’individuo e lo scompagina. Un ambientamento remoto, lontano da quello gelido e urbano del fotografo annichilito dall’assenza della natura. La città è l’egoica civiltà , la foresta di Rashomon è l’amnesia di civiltà.

Distanti per nascita e per figurazione del reale, si incontrano in quel punto esatto in cui l’individuo, negli scatti dell’uno e nei fotogrammi dell’altro, è solo con i suoi demoni. Un isolamento che trova le sue radici nella precarietà dell’uomo, un disordine profondo nelle sbavature di Moriyama e nelle sovrapposizioni dei ruoli in Kurosawa. Sullo sfondo c’è il Giappone dei samurai, dei briganti, delle donne passionali, dei freddi paesaggi urbani, di un’anziana geisha, di un paese che, nell’attraversamento del tempo, osserva un individuo frammentato in uno, nessuno e centomila.

  • estratto dell’articolo Due sguardi sul Giappone tra Daido Moriyama e Akira Kurosawa, 31 gennaio 2016