
CC BY-SA 2.0
È dentro voci come eccentrico, esorbitante, visionario e impressionante che si possono racchiudere i tratti delle pellicole di uno dei più grandi cineasti novecenteschi: Orson Welles. La sua vita si interrompe a settanta anni per un attacco cardiaco. Il cinema, sin da subito, si rende conto di aver perso una figura geniale della settima arte. Di corporatura robusta fin dalla giovane età, contraddistinto da una presenza autorevole per un 1,87 di altezza, trascina all’interno delle sue opere una mole generosa di dettagli, sino a generare atmosfere asfittiche. Convinto che il cinema rappresenti qualcosa di esanime, fa del suo lavoro un potenziamento vigoroso al confine, non tanto invalicabile, con il barocco. Welles tenta, mediante il tocco ridondante, un’indagine meticolosa sul personaggio.
Gli ambienti riprodotti dalla macchina da presa figurano un’ulteriore incremento all’immagine attoriale e al fattore drammatico della realtà. L’individuo e il mondo abitato rappresentano una sorta di specchio opaco, poiché un filtro si rende necessario all’alterazione del materiale trattato. In letteratura si chiederebbe un prestito per la definizione, vale a dire l’uso del discorso indiretto per delineare il linguaggio del suo cinema. Per il timore di restare incastonato nella faciloneria, di fatto, il regista non osa nella luce troppo semplice della trasparenza. Pertanto si affida agli elementi barocchi, all’eccesso di orpello, con il fine di restituire un’indiscutibile grandiosità. Solo grazie al monumentale può giungere alla minuzia. Gli oggetti, l’ambientazione e i personaggi rappresentano entità simboliche che rinviano alla zona occupata dalla metafora.
Io credo pensando ai miei film che siano imperniati non tanto sul conseguimento di qualcosa, ma piuttosto sulla ricerca. Se noi cerchiamo qualcosa, il labirinto è il posto più adatto alla ricerca. Non so perché, ma i miei film sono tutti in gran parte una ricerca fisica.
E tale labirinto, il regista lo edifica proprio attraverso l’allegoria e la metafora di un eccesso di cose, pronte a immolarsi nel simbolo per un’analisi della società. L’opera di Welles non va posizionata nel genere che contempla l’evidenza del primo motivo sullo schermo. La sua firma è in una cinematografia che trascende la realtà per come si presenta, abdica in favore di un ammasso di materiale che permette l’alterazione del primo approccio, quello diretto. Il presunto barocco di Welles è irrealistico, poiché il fine è nel porre dei conflitti che valicano la semplice presentazione dei fatti e dei luoghi. La sua posizione è apertamente in antitesi al Neorealismo. Dilatare la realtà con il solo fine di comprenderla.
Nasce nel Wisconsin a Kenosha nel 1915, sin da piccolo campeggia per le sue facoltà e per interessi che spaziano tra la letteratura e il teatro. Nel 1931 è già attore professionista e debutta al Gate Theatre di Dublino. Ma il suo nome sconcerta l’America nel 1938; alle otto di sera di un ottobre qualunque, la sua voce alla radio CBS, per un’intera ora si annoda sulla cronaca di una finzione: un’impellente invasione aliena sta per calare sugli Stati Uniti d’America. La narrazione cronachistica, di fatto, si basa sulla Guerra dei mondi, un romanzo di H.G. Wells. Il suo mito è già vivente e si rivela nella prima occasione cinematografica con il film che lo colloca tra i più grandi registi di Hollywood: Citizen Kane – Quarto Potere. Regista e protagonista della pellicola, dispiega la trama intorno a una parola: Rosebud. Il termine viene pronunciato in fin di vita dal magnate della stampa Charles Foster Kane nel castello di Xanadu. Rosebud è una donna, un luogo, un segreto, un misfatto? Si brancola nel buio. Un giornalista prende l’incarico di svelare l’enigma. Tra flashback e incursioni nel presente, la bobina riavvolge la vita di Kane sino alla scoperta del bandolo della matassa. Rosebud è il nome inciso sullo slittino della sua infanzia: una confessione nostalgica al termine della vita. Il ricordo, risulta ancor più struggente se si pensa che all’epoca del film, Welles aveva solo venticinque anni.
L’estetica cinematografica trova, in questo primo film e negli altri a seguire, un posto d’eccezione: attraverso grandangoli, riprese dal basso, campi lunghi e la preziosa collaborazione dell’operatore Gregg Toland, il film si lega all’Espressionismo, non trascurando taluni classici del cinema muto. Orson Welles gira altri tredici film, tra i quali La signora di Shanghai, Macbeth, Otello, L’infernale Quinlan, ma la sua risonanza rimane legata a Citizen Kane. L’imperativo si sintetizza sempre nella stessa modalità:
Arricchire il più possibile lo schermo, perché il film in se stesso è una cosa morta.
Nell’Olimpo di Hollywood troneggia con la sua monumentale corporeità e l’epica maestria adoperata nell’uso della macchina da presa, ma innanzitutto come colui che nella piega debordante, inserisce l’individuo al centro di un doppio verso: il bene e il male. L’uomo è inquinabile e corruttibile da molteplici fattori, parimenti risulta una creatura vulnerabile e fragile. Si tratta di un romanticismo portato all’estremo che Welles, pur dalle effimere colline dello Star System, porta magistralmente a compimento.
Hollywood è un quartiere dorato, adatto ai giocatori di golf, ai giardinieri, a vari tipi di uomini mediocri e ai cinematografi soddisfatti. Io non sono nulla di tutto ciò.
Ed è proprio in tale dissonanza che l’artista trova il proprio nutrimento: Welles giganteggia su tutti. Fosse anche il quarto, il suo è il più autorevole: Citizen Kane – Quarto Potere.
(3 maggio 2017).