Monica Vitti: la diva e l’assenza

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“Monica Vitti” by cwangdom is licensed under CC BY-NC-ND 2.0

In un istante tra il tragico e l’eterno, accade una forma di divismo che sembra poter accedere alla divinità. Si alimenta in una condizione di inevitabile isolamento, dentro un’assenza che evolve in solenne presenza. Si compie nella diva del muto Norma Desmond, in quella monumentale opera che è Sunset Boulervard, nell’impietoso avvento del sonoro. Venuta infelice con il contegno di un arresto del momento apogeo. Se per la Desmond – Gloria Swanson – il violento fermo è paradossalmente nell’incedere del tempo, nel contesto di un patrimonio di bellezza tutta italiana in bravura e femminilità, accade in Monica Vitti. Il tragico impaccio passa dall’arrivo del sonoro, per un infausto tramite: un supposto mostro degenerativo.

Nella vita il mito accede a una precoce realizzazione mitologica; non nell’esibizione di un male, ma in un pudore tutto eremitico che fa di una diva una divinità. Nell’altissimo Parnaso, si diffonde un silenzio, una potente assenza che diviene mancanza di grazia e sapienza attoriale, ragionevolmente nell’ultima delle più grandi interpreti che il cinema italiano custodisce avaramente. Monica Vitti è la valida iniziatrice di un archetipo attoriale: l’anima simpatica dentro la bellezza. Erroneamente e per lungo tempo, l’ironia è stata eletta solo patrimonio di una lei, che non potendo appellarsi a un incanto estetico, ripiega sulla distrazione ironica come forma di compensazione. Monica Vitti, all’anagrafe Maria Luisa Ceciarelli (Roma, 3 novembre 1931), rappresenta la sintesi perfetta di armonia corporea e inclinazione irridente.

È la femme dai capelli dorati che provoca la risata, non passando per un più scontato cliché della svampita, ma attraverso quel gioco tutto costruito sul difetto, in un movimento che poco appartiene al superato retaggio della donna ammaliante. Sono le gambe più belle del cinema italiano che sanno muoversi in maniera sgangherata, senza scivolare mai nel grottesco, restando ancorate in quella zona tutta di simpatia. È quella voce roca che non necessita di un superfluo doppiaggio, poiché si aggiusta sul personaggio, di volta in volta, interpretato. La sua maestria attoriale è dentro un’oscillazione che fa di un’attrice una meravigliosa interprete: la sapienza di dissolversi completamente nel ruolo. È l’eclisse, l’avventura e la notte. È la trilogia, la musa e la donna di Antonioni, dove nel piccolo ruolo de La notte figura il raggio di sole dell’altra: Jeanne Moreau. Valentina Gherardini è l’embrione di Lidia Pontano, l’innocenza che la vita, nella totale assenza di autenticità, porterà alla icona di donna tragica. Monica Vitti e Jeanne Moreau, sono nella pellicola La Notte due meravigliose e tragiche facce della medesima medaglia, la gioventù dell’una diviene la maturità dell’altra: in mezzo la vita che scorre senza pietà per alcun essere umano. Ma nella contemplazione del film con pochissimi dialoghi, nel cosiddetto cinema dell’incomunicabilità, non si scorge l’attrice Monica Vitti, ma solo ed esclusivamente Valentina Gherardini, poiché la prima si è magistralmente dissolta nell’altra. Così come non si ravvisa in Amore mio aiutami dove ad avanzare, è una bizzarra e appassionata Raffaella, una tragicommedia che, in un’atmosfera scanzonata, si fa livella di tutte le classi sociali. Ancora una volta l’attrice si dirada nel personaggio e lo spettatore dimentica regia, copione e recitazione. Poi si torna alla vita, si riaccendono le luci e fuori, soltanto fuori dalla sala cinematografica, torna alla memoria la Vitti in Raffaella.

L’attrice è la divina intima del cinema popolare e l’icona sofisticata di pellicole considerate importanti. Un’immagine sacra nell’isolamento di Antonioni e una figura follemente balzana nell’Adelaide di quell’”amo, riamata Serafini Nello e lo appartengo!”. Adelaide Cianfrocchi diviene la figurazione sacrale della commedia all’italiana di Ettore Scola. È la bellezza in grado di oscillare tra l’incomprensibile e il popolare, senza mai cadere nella fissità di un’attrice caratterista. Tra grazia e zona primitiva, si crea uno spazio intermedio, un sunset boulevard tutto italiano dove la Vitti si fa diva vivente. Il suo personalissimo viale del tramonto, tragico e delicato allo stesso modo, è nell’eremo; nella potenza della sua assenza. Una Norma Desmond che con l’avvento del sonoro non svanisce, ma si fa creatura eterna e irraggiungibile. Monica Vitti è il mito che si solidifica nell’incedere del tempo, arrestandolo all’unicità di quei ruoli di impossibile emulazione.

Monica Vitti è la diva incorporea che rende la bellezza accessibile, ne fa un patrimonio scanzonato dove la passione è un equivoco all’interno della quale struggersi in una risata. Porta la lanterna mediante la quale illumina la malinconia con la fiamma dell’irriverenza. Accende l’udito con quella voce roca dove spiega che il segreto della sua comicità è la ribellione all’angoscia, alla tristezza e alla mestizia della vita. Un’affascinante ribelle dell’esistenza che troneggia sull’empireo del cinema. Quello vero.

Faccio l’attrice per non morire, e quando a 14 anni e mezzo avevo quasi deciso di smettere di vivere, ho capito che potevo farcela, a continuare, solo fingendo di essere un altra, facendo ridere il più possibile.

  • 13 giugno 2016

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