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Lontano sino al periodo Heian è il Giappone di Akira Kurosawa in Rashomon. Un cinema diviso tra la solenne figura del samurai e la precaria immagine dell’Occidente, si muove garbatamente nelle profondità dell’individuo. Un’epoca dorata che, nella distanza temporale, mostra la contiguità delle antinomie umane. Dietro la forte presenza dell’elemento maschile, espressa attraverso il corpo, annaspano intimità dilaniate. Esiste una marcata contemporaneità nel film, una sorta di disordine pirandelliano che manipola la verità nel sussurro di una dichiarazione: non sussiste una sola versione oggettiva dei fatti, ma diverse rappresentazioni degli stessi. Ogni personaggio è l’assoluto dell’altro, veicola e interpreta un mondo dove il diavolo è assente perché fugge dagli uomini.
Il Giappone di Akira Kurosawa, pur nell’ambientazione di un tempo lontano, è metafora di un paese sotto assedio – il film è del 1950, l’occupazione americana cesserà nel 1952 – dove ogni uomo disegna il fardello del caos che porta con sé. L’individuo, privo di compattezza, è in balia di se stesso e perduto nella propria parte: un samurai cade nelle debolezze di un brigante; una donna muove la sua parte tra la figura della vittima e quella del carnefice: l’effigie di un cosmo privato delle fondamenta, attraversato da diverse esistenze prive di identità. I frammenti di vita nelle immagini di Daido Moriyama sono la frammentazione della moralità in Akira Kurosawa, due diversi sguardi sul Giappone. Nel tentare la via del proprio personalissimo interesse, ogni personaggio in Rashomon, osserva la propria coscienza andare in frantumi. La pellicola è un’illuminante esegesi del caos: la storia entra nell’individuo e lo scompagina. Un ambientamento remoto, lontano da quello gelido e urbano del fotografo annichilito dall’assenza della natura. La città è l’egoica civiltà , la foresta di Rashomon è l’amnesia di civiltà.
Distanti per nascita e per figurazione del reale, si incontrano in quel punto esatto in cui l’individuo, negli scatti dell’uno e nei fotogrammi dell’altro, è solo con i suoi demoni. Un isolamento che trova le sue radici nella precarietà dell’uomo, un disordine profondo nelle sbavature di Moriyama e nelle sovrapposizioni dei ruoli in Kurosawa. Sullo sfondo c’è il Giappone dei samurai, dei briganti, delle donne passionali, dei freddi paesaggi urbani, di un’anziana geisha, di un paese che, nell’attraversamento del tempo, osserva un individuo frammentato in uno, nessuno e centomila.
- estratto dell’articolo Due sguardi sul Giappone tra Daido Moriyama e Akira Kurosawa, 31 gennaio 2016