Paul Léautaud – Un ritratto

Accade che una vasta sorgente di verde accolga il fiore della poesia nel busto di Charles Baudelaire. Succede che quel rigoglio di sentieri dilati la sua vegetazione per porre l’ascolto alla musica suggerita dal busto di Beethoven. Capita che quello stesso giardino di trentacinque ettari si distenda per ospitare il generoso incedere di un piccolo uomo con indosso due cappotti e delle grandi scarpe teatrali. E accade che quell’uomo sia Paul Léautaud, lo scrittore che consuma la sua vita tra i castagneti parigini del Luxembourg e la sua giungla personale di Fontanay-aux-Roses.

Dopo il lavoro al Mercure e prima del rientro a Fontanay, Paul Léautaud sospende il tempo presso il jardin per salvare un gatto dal freddo, un cane dalla fame, un animale da un uomo. E allora questo ami et protecteur des chats et des animaux, giunge tra i passaggi fioriti per vedere germogliare ancora una volta la vita.

Paul Léautaud è lo scrittore che frequenta la scuola della purezza. E cosa significa essere uno scrittore puro? Vuol dire ignorare la compiacenza, disinteressarsi della critica, scrivere senza pensare alla pubblicazione.

Scrivo solo per me, non ho la minima certezza di essere letto un giorno. Probabilmente non sarò più vivo. Quindi sono assolutamente sincero.

Non esiste alcuna dilazione tra lo scrittore e l’uomo: qui l’uomo è la scrittura e la scrittura è l’uomo. L’essere libero, franco fino alla spietatezza, onesto nello sguardo che si fa inchiostro e poi parola. Léautaud è un realistico corrispondente della vita: registra la realtà che si consuma davanti al suo sguardo per poi riferirla alla chiamata della pagina. L’autore non indugia sulla alterazione dei fatti, non è interessato all’esito, dunque non scrive per fare colpo sul lettore. La libertà è un valore che riporta nella scrittura, l’onestà è il solco che segue e persegue la sua penna. Una letteratura onesta che giunge diretta sino a farsi brusca perché la franchezza frequenta gli spigoli, le punte aguzze, gli aculei. L’autenticità è scomoda ma Paul non può fare a meno di incalzarla realizzando la grande fusione tra la scrittura e l’uomo.

Bisogna scrivere ciò che si è visto, ciò che si è inteso, ciò che si è provato, ciò che si è vissuto.

Con la sua andatura curiosa, Paul lambisce le strade parigine: il flâneur si perde nel grembo della città, l’unico ventre caldo capace di accoglierlo. Perché se Parigi è l’eterna presenza, la figura materna è l’eterna assenza. Paul nasce nel 1872 al 37 di rue Molière nel I arrondissement di Parigi, dall’unione tra Firmin Léautaud e Jeanne Forestier. Il 1872 è un anno bisestile: a Giverny in Normandia Claude-Oscar Monet realizza Impression, soleil levant; in Italia il Vesuvio vive un’importante eruzione; negli Stati Uniti apre il Parco Nazionale di Yellowstone e Parigi vede la nascita di uno dei più importanti autori del Novecento francese: Paul Léautaud.

Firmin Léautaud, impenitente seduttore, lavora come suggeritore presso la Comédie-Française. Jeanne Forestier è un’attrice teatrale. Paul cresce tra l’indifferenza paterna e le cure di maman Pezè, la domestica del padre. Abbandonato a cinque giorni dalla nascita, il piccolo Léautaud non conosce l’amore materno. Nel corso della sua vita incontra la madre solo quattro volte. Il ruolo che riveste la figura di Jeanne Forestier è quello della grande assente. Assenza che orienta tutta l’esistenza di Lèautaud, tanto da condurlo a una vita sentimentale recisa e manchevole, come se una sorta di epitaffio sul cuore recitasse che si ama come si è stati amati. Lo scrittore costruisce relazioni soprattutto con donne più grandi, sovente dedite alla prostituzione e mai particolarmente belle. Legami edificati sul rapporto carnale, dove il sesso rappresenta l’unico modo di amare: la carnalità si sostituisce al cuore, non c’è spazio per afflati trascendentali fuori dal corpo. L’unico turbamento che coinvolge lo scrittore è quello che sente per gli animali, stimati come dei veri amici.

E proprio in materia di diritti degli animali, Léautaud può essere considerato, non a torto, un importante precursore: già nel 1937 si schiera apertamente contro la vivisezione, battendosi in seguito contro la corrida e soprattutto contro la caccia. Finanche i villeggianti non passano indenni sotto la scure delle sue invettive, considerati esseri frivoli poiché colpevoli di sacrificare le bestie al capriccio della villeggiatura. Spende parole al vetriolo anche contro lo sfruttamento degli animali nel circo. Nel corso degli anni la sua casa di Fontenay-aux-Roses offre alloggio a più di trecento gatti, almeno centocinquanta cani, un’oca e Guenette, la scimmia salvata da un circo. Il narratore parigino dispone il suo mondo dalla parte degli animali, anteponendo i loro bisogni ai suoi. In tal modo stabilisce una grande distanza tra sé e gli uomini. La sua capacità di amare abbraccia appieno solo l’universo animale, tanto da considerare cani e gatti come delle personcine. Se proprio deve confrontarsi con degli esseri umani, predilige frequentazioni moralmente riprovevoli.

Spesso un furfante è un uomo superiore, a disagio in mezzo ai nostri pregiudizi.

Le grandi assenze si consegnano all’epidermide, narrano un profumo, reclamano un sapore, necessitano della costruzione di un ricordo che non esiste. Le grandi assenze vivono la forza che diserta la presenza, descrivono delle presenze archetipiche che custodiscono l’autorità di un lutto e il potere di una nascita. Le grandi assenze sono bellezze dolorose inguainate da tendaggi scuri, vale a dire oscuri.

Presenze dal sapore acre prosperano sino a diventare delle ossessioni. Accade con gli affetti mancati come con quelli perduti. Abbandonato dalla madre a pochi giorni dalla nascita, Léautaud matura per questa tenerezza mancata una vera e propria fissazione. Come scrittore autobiografico, porterà la figura materna in molti dei suoi scritti: da Petit ami a Lettre à ma mére. Nonostante l’abbandono, Jeanne Forestier svolge un ruolo importante tra Paul e la scrittura: è lei stessa a muoverlo al romanzo.

Se fossi in te, scriverei un romanzo sulla tua vita. È un tema fecondo, e a svolgerlo bene potresti fare la tua fortuna solo con quello. Non ci hai mai pensato?

Léautaud vive ogni istante tra l’urgenza della scrittura e il bisogno di ravvivare quel passato privo di amore per farne infine letteratura.

Il silenzio, la scrittura, la bellezza: in una parola Clarice Lispector

Dobbiamo a Isabella Cesarini, autrice e saggista, la possibilità di conoscere una scrittrice, Clarice Lispector, che pur essendo una delle più grandi voci del 900 letterario, è con ogni probabilità sconosciuta al grande pubblico (pur essendo stata pubblicata da editori come Feltrinelli, Mondadori e Adelphi e sapendo che per grande pubblico intendiamo il piccolo pubblico dei consumatori di quei prodotti editoriali chiamati libri).

Il libro di Isabella Cesarini è Con la parola vengo al mondo (Tuga Edizioni, 2021, 122 pagine,16 euro) e si tratta di un’utilissima guida ai profani. Ma non è una guida nel senso usuale del termine: l’autrice unisce l’utile al dilettevole, la storia con l’avventura (intellettuale).

Clarice Lispector nasce in Ucraina nel 1920 e vive e muore a Rio de Janeiro nel 1977. Scrittrice, saggista, giornalista e traduttrice, la produzione letteraria della Lispector è refrattaria alla categorizzazione per generi. Del resto, come spiega Isabella Cesarini, la trama, la classica trama, nel caso della Lispectorè la cornice che inquadra il flusso di coscienza, anzi di linguaggio.

E’ invece facile isolare alcuni temi: il silenziola donnala bellezzal’infanzia. Forse in una parola: la vita. Come afferma l’autrice, Clarice Lispector scrive per eleggere un nuovo lessico: il linguaggio del silenzio”. Non solo: “Madre, figlia, amante, moglie, la figura della donna nell’opera di Clarice Lispector si colloca dentro un mistero”. La donna è un mistero come la scrittura, non si rivela mai completamente. Come la bellezza, che altro non è se non mancanza: “il vuoto lasciato è il gesto in cui la bellezza si manifesta, esattamente come fa la morte con la vita.

Proust parlava di “essenza carnale” per riferirsi a quelle idee, pensieri, sentimenti, emozioni che non riusciamo a inquadrare, a “vestire”. La stessa cosa pare si possa dire in riferimento alla produzione letteraria della Lispector e come sempre ci viene in soccorso proprio Isabella Cesarini, quando scrive che “La parola di Clarice è carnale quanto le creature narrate, sempre impegnate ad allontanarsi dal pensiero per poter vivere infine solo nei sensi”. Infatti La nausea di Sarte è diversa dalla nausea della Lispector: quella di Roquentin, il protagonista del romanzo filosofico (o l’alter ego di Sartre?) è una nausea mentale, astratta, non giunge alla carne, resta in una dimensione immateriale. Mentre “Clarice Lispector è corpo della parola carnale che torna nel grembo a ogni fine periodo, fine racconto, fine romanzo”. Ma in comune c’è il concetto di epifania, di svelamento indotto da un’esperienza, dalla visione di qualche cosa o da un evento particolare: torna il concetto di essenza carnale, torna la “cosalità” di Sartre e torna pure il Joyce di Gente di Dublino.

Ma non si pensi a una vita di depressione quando si pensa alla vita di Clarice Lispector, dal momento che “la scrittrice vive l’esaltazione dell’esistenza, una passione che giunge direttamente dalla voce del corpo”. E’ evidente che è centrale il concetto di carnalità della parola.

Il libro della Cesarini è fondamentale per iniziare a fare la conoscenza di questa ovattata scrittrice: ce ne illustra dapprima la vita, quindi la cala in una dimensione concreta (carnale!) e poi ci accompagna passo passo all’approfondimento di singole opere, non senza un’utile bibliografia finale. Impossibile, alla fine, non decidere di andare in libreria (o ordinare su Amazon……) il nostro primo libro della Lispector, con cui iniziare questo viaggio.

  • Emanuele Beluffi, IlGiornaleOFF, 12 maggio 2021

Con la parola vengo al mondo. Bellezza e scrittura di Clarice Lispector

L’ultimo libro della scrittrice e saggista Isabella Cesarini da poco uscito per Tuga Edizioni, è un viaggio appassionato nella “Bellezza e scrittura di Clarice Lispector”, somma scrittrice brasiliana del Novecento. La Cesarini penetra nell’opera di Clarice in punta di piedi come si usa con un nostro maestro cui portiamo devozione. Con il suo stile di scrittura raffinato e piano al contempo la Cesarini ci spiega ogni segreto di Clarice partendo dalla biografia, via via entrando nella “parola bella” che si fa corpo e anima nelle straordinarie pagine della Lispector.

Si esce edotti dalla lettura sia entrandovi da principianti digiuni di Clarice sia già amanti dei suoi libri. La Cesarini ama infatti l’oggetto del suo dire e il libro è la prova che non è sempre vero che simpatizzare per un autore non sia buon “metodo” di critica.

Isabella Cesarini riesce ad entrare nell’essenza della scrittura di Clarice, arrivando a una simbiosi con essa, tanto che leggendo distrattamente si potrebbe non capire la differenza tra la lingua della brasiliana e quella della sua critica italiana. Dolce sovrapposizione che conduce il lettore ad apprendere e deliziarsi ancor di più.

“Con la parola vengo al mondo” è consigliato a tutti.

Buona lettura!

  • Patrizio Minnucci, Gente comune, 16 maggio 2021

Incontri nel cuore della cultura giapponese: il nō 

Immagine di Francesco Ungaro

Il nō giapponese rappresenta la forma più antica della cultura teatrale. Si tratta di un dramma lirico che si lega all’Occidente solo nel momento in cui il tratto letterario arriva a farsi più importante. La creazione esprime l’onda travolgente che va a circoscriversi nella forma di un cerchio, dove tutto torna dal passato per illuminare il presente e fissare un legame tra Oriente e Occidente. Il nō, in tale cerchio, passa da Ezra Pound a William Butler Yeats, che tenta di ammantarlo nella poesia per poi tornare a Yukio Mishima. Un accostamento dove l’antico si avvicenda all’istante e, in quel cerchio fecondato dall’onda, tutto si muove come l’attore giapponese: misurato e universale.

Incontri: nel cinema, è un onere, nonché un onore, poter riferire uno dei grandi rappresentanti della tradizione giapponese: Akira Kurosawa. Le pellicole del cineasta attraversano i secoli; dal periodo Heian di Rashomon sino ai richiami recenti, per quanto magici, di Sogni. Provenendo più a fondo nei viluppi dei costumi nipponici, la memoria letteraria va tutta nell’incontro lirico con Yukio Mishima.

Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! È bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! È il Giappone! È il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo.

Il suo nome, già legato a opere come Confessioni di una maschera, Colori Proibiti, Il padiglione d’oro, Sole e acciaio o La via del samurai, trascina ulteriormente nel cuore della cultura giapponese, fornendo il permesso di trattare una delle più antiche forme di teatro, risalendo sino al XIV secolo: il . Una tradizione di trattati che, per ben cinque secoli, vengono trattenuti nel segreto di una memoria. Tesori che nei primi del ‘900 riemergono da un remotissimo paesaggio per narrare un patrimonio tutto giapponese: la cultura del teatro nō. Drammaturgia legata a colui che fu definito “lo Shakespeare giapponese”: Zeami Motokiyo, l’autore, che tra il 1300 e il 1400, figura come il custode di quasi tutto il repertorio nō. Nei paradigmi fissati da Zeami, l’attore gode di una notevole considerazione. Nel muoversi tra i quattro elementi previsti dal teatro, ossia la mimica, la poesia, la danza e la musica, l’artista nella fotografia del palco, svolge una funzione per quanto elitaria, particolarmente sociale. Il nō giapponese rappresenta la forma più antica della cultura teatrale. Si tratta di un dramma lirico che si lega all’Occidente solo nel momento in cui il tratto letterario arriva a farsi più importante. Sino a Zeami, il cardine dello spettacolo è nel canto e nella danza e, l’elaborato scritto, resta solo come un supporto dell’attore. Dopo l’arrivo di quello che può essere definito, se non l’iniziatore, ma il primo forziere di tale arte, lo schieramento avviene in favore del testo, poiché egli stesso è autore e poeta di rara fattura.

La rappresentazione del nō attrae nel proprio orizzonte diverse figure: lo shite, che recitando in maschera, disegna colui che presta il corpo alla danza, alla voce e al canto. Considerato il personaggio principale, si fissa nel ruolo in una definizione: “colui che fa, che agisce”. Nell’occupare tutto lo spazio, generalmente la sua interpretazione, è quella più articolata. Il ruolo secondario è individuabile nella figura del waki che sovente veste gli abiti di un monaco. La sua parte evolve nell’essere il primo a fare l’ingresso sulla scena. Narra il percorso che lo ha condotto sino a quel punto della rappresentazione e infine esce per restare nell’immobilità. Fissità che contempla un’unica eccezione: scongiurare la presenza di un demone. Altre figure, tra il tomo e lo tsure, che non vivono un’esistenza drammatica autonoma, rappresentano pressoché dei ciceroni dello shite e del waki. La loro funzione svolge un ruolo importante soprattutto per l’utilizzo della voce, una sottolineatura dunque, una vigorosa marcatura di tutto lo spettacolo. Nonostante il waki, una volta uscito dal palco, rimanga una presenza fissa e immobile, la sua mansione è importante nella misura in cui diviene la fiamma che arde l’ Universo. Ovvero una pressione che permette l’esistenza dello shite: la densità del silenzio conferisce corporeità e ragione agli accadimenti. Le ultime presenze del nō appartengono alla galleria dei kyōgen, coloro che scaricano la rappresentazione mediante una farsa. Disegnano un vero e proprio bisogno dello spettatore, che dopo il pressante impegno psichico domandato da tale dramma, si abbandona finalmente a una comicità più primitiva. Un intermezzo tra un nō e l’altro, porta gradualmente alla distensione.

Nel teatro, la tradizione del nō realizza la dimensione dell’attore inscindibile, completo, compiuto. Molta autorevole regia dell’Occidente, rappresentata da nomi quali Eugenio Barba, Gordon Craig e soprattutto Antonin Artaud, prendono dall’Oriente proprio l’inclinazione dell’attore al completamento. Rifinitura che non arriva nell’improvvisazione, ma attraverso una severa disciplina di esercizi che abbraccia l’individuo dai sette anni in poi. Sino ai tredici, l’attenzione viene posta sul tratto spontaneo, escludendo comunque quello della mimica. Dai tredici sino ai diciotto, l’interesse include anche l’aspetto vocale, seppur in divenire.

Quel fiore lì non è il fiore autentico, non è che il fiore di un momento

Dai diciotto anni in poi, l’attore arrivando da una vasta gamma di allenamenti, tende a ripiegarsi e a perdere audacia. Pertanto l’unico addestramento va nel verso di non lasciare il nō. Imparando ad ascoltare la raggiunta consapevolezza, a venticinque anni l’impegno inizia a produrre i propri frutti. La parabola ascendente continua sino ai trentacinque. La percezione della sapienza attoriale deve necessariamente provenire anche da una benedizione pubblica. Dai quarantacinque in poi, pur nella cognizione di una consacrazione universale, il fiore può iniziare la sua opera di scomparsa o chiedere l’aiuto di un comprimario. Dunque l’attore del teatro nō, non disegna il talento singolo di tipica ascendenza occidentale o il frutto di qualche anno accademico, al contrario riveste un voto, una vera e propria consacrazione all’arte.

In nome della luce che germoglia da tale figura, accade l’incontro definitivo tra Oriente e Occidente. Ernest Fenollosa, un orientalista statunitense, nell’’800 decide di farsi allievo di un importante attore nō, Umewaka Minoru, con il fine di tornare in patria e rendere l’Oriente più accessibile all’Occidente. Dopo la sua morte, lascia una considerevole mole di scritti sulla cultura giapponese, annotazioni, osservazioni e poesie che la moglie Mary McNeill offre al poeta Ezra Pound:

Lei sarà la persona che pubblicherà i manoscritti di mio marito

Nel 1916 Ezra Pound pubblica i testi di quindici nō con l’aggiunta delle note di Fenollosa. Quanto le arti e non solo l’attore, consacrano il raggiungimento della completezza, è dimostrato da un continuo dialogo tra la musica, la danza, la letteratura e il teatro. La creazione esprime l’onda travolgente che va a circoscriversi nella forma di un cerchio, dove tutto torna dal passato per illuminare il presente e fissare un legame tra Oriente e Occidente. Un’allegoria convessa, sgombra da durezze, dove tutto diventa altro pur non perdendo la propria identità. Il nō, in tale cerchio, passa da Ezra Pound a William Butler Yeats che tenta di ammantarlo nella poesia per poi tornare a Yukio Mishima.

Tra il 1950 e il 1955 Yukio Mishima scrive cinque nō moderni, pièces per continuare a elargire storia e vita a una lunghissima tradizione. La missione dello scrittore si realizza nel rendere più accessibile l’accostamento ai testi tradizionali senza sottrarre il contenuto originale. Se il nō descrive la più antica forma di teatro giapponese, è pensabile che nel tempo si comporti come un notevole collante di eterogenee modalità di pensiero e vita. Un avvicinamento dove l’antico si avvicenda all’istante e in quel cerchio fecondato dall’onda, tutto si muove come l’attore giapponese: misurato e universale.

Quando avrete perfettamente capito il principio dell’incanto sottile comprenderete, per ciò stesso, che cosa sia la potenza.

Edificio Fellini: scommettere la testa con Edgar Allan Poe

Ad allestire la scena per un incontro giocato nelle stanze anguste della grande oscurità interviene il produttore e autore francese Raymond Eger. Nel 1968 esce Histoires Extraordinaires. Tre passi nel delirio, film collettivo nel quale il fil noir affonda le radici nel creatore del tale of terror, Edgar Allan Poe.

Per girare i tre episodi, Eger interpella i registi Roger Vadim, Louis Malle e Federico Fellini. Mai scommettere la testa con il diavolo è il racconto che ispira l’episodio del cineasta romagnolo, dal titolo Toby Dammit. È girato del tutto in notturna, modalità che permette una vera e propria epifania della visione di un sogno angoscioso quanto la vita. Ça va sans dire: l’esistenza è un incubo.

Toby Dammit, protagonista del racconto scritto da Poe nel 1841, giunge nella Roma felliniana – ancora una volta più felliniana che romana – per stabilire la prepotenza di una vocazione: la vocazione alla morte. La città è parte integrante del progetto mortuario poiché è nel suo grembo che l’uomo acquisisce la certezza di offrirsi alla morte. La Roma di Dammit è del tutto indifferente al suo dolore, lo accoglie e lo scruta da lontano, non vi partecipa se non come mera spettatrice.

Roma è una madre, ed è la madre ideale perché indifferente. È una madre che ha troppi figli, e quindi non può dedicarsi a te, non ti chiede nulla, non si aspetta niente. Ti accoglie quando vieni, ti lascia andare quando vai, come il tribunale di Kafka.

È d’uopo precisare che il rapporto di Fellini con il racconto di Poe appare del tutto alterato dall’esorbitante fantasia del regista. Forse un’occasione mancata per stabilire un’empatia artistica o forse un’occasione per tracimare: un incontro può dirsi mancato quando il regista decide di mostrarsi senza lasciare pertugi a un’ipotetica ispirazione letteraria; lo stesso incontro può definirsi riuscito nell’atteggiamento inverso, quando il regista si slega dall’opera di partenza e ne inventa un’altra.

Questo accade in parte con Toby Dammit . Fellini abbandona un approccio tipico della grande città per riprendere la sua origine provinciale, costruendo daccapo un racconto che ha poco da spartire con quello dello scrittore di Boston. Si tratta di un piccolo accostamento, limitato ai confini tracciabili di un borgo e non alla dispersione cittadina. Lo stesso Fellini dichiarerà di aver letto Mai scommettere la testa con il diavolo soltanto durante le riprese. La sensazione è infatti quella di una modesta appropriazione, il regista prende pochissimi elementi per riscrivere la narrazione e farla propria, realizzando la sua personalissima profezia artistica: lo stile, le tematiche, l’atmosfera di Toby Dammit sono elementi che torneranno assiduamente nelle opere successive.

Le luci torneranno a farsi illuminazione claustrofobica nel seguente Satyricon, dove il giallo che fuoriesce dall’oscurità di Dammit si farà cupo richiamo del destino di una certa umanità, divisa da colori che riescono nell’operazione di essere foschi e accesi allo stesso tempo.

La presenza di suore e preti, già sperimentata nelle opere precedenti e qui rimarcata, nel successivo Roma (1972) diventerà défilé; un passaggio che, nella mostra della sfilata, si arresta per immobilizzarsi e infine divenire uno degli elementi ricorrenti, sino alla ripetizione quasi ossessiva.

I lavori in corso sfiorati in Dammit simboleggiano l’imminenza del presente, dunque l’ineluttabilità di un avvento, quello della modernità, a fiaccare le esistenze del prefetto Gonnella e di Ivo Salvini nell’ultima pellicola del regista, La voce della luna.

La nebbia che avvolge Toby nella corsa verso la morte tornerà con prepotenza a bordo della macchina che sfreccia nel buio sulla quale viaggiano Snaporaz e una rappresentanza di donne, e aggiungerà in questo caso un chiaro riferimento cinematografico: il Kubrick di Arancia meccanica nella nota sequenza dei Drughi in notturna a bordo di un veicolo diretto alla villa degli Alexander. In tale personalizzazione del racconto, la pellicola felliniana sino al midollo, lontana, almeno in questi elementi ricorrenti, dalla suspence di Edgar Allan Poe. Fin qui l’incontro volutamente mancato.

Esiste poi una zona in cui Fellini raccoglie l’invito di Poe a farsi autentico narratore dell’orrore. In Tre passi nel delirio, Toby Dammit è un attore sul viale del tramonto della cinematografia, l’immagine di una profonda disperazione trainata dal vizio dell’alcol e dall’uso di droghe. Si reca a Roma per girare un film, il primo “western cattolico”, conoscere il regista e guidare una Ferrari, il suo cachet per la parte, la sua orsa tra le braccia della morte. Il protagonista, interpretato da un grandissimo Terrence Stamp, è l’effigie più che solenne del dramma dell’esistenza.

La fotografia asfissiante disegna l’assenza di alcuna possibilità di salvezza, e proprio qui accade che il regista si presti all’ascolto del grande enigma di Poe: il tema del male. Il male per lo scrittore conquista la supremazia sul bene senza lotta alcuna, non esiste battaglia tra il bene e il male poiché questo si prende tutto lo spazio e il tempo.

La corsa del Toby filmico e di quello letterario incarna l’accetazione del diavolo come creatura sovrana dell’umanità. Dammit nel film, come Poe nella vita, non crede in dio ma solo nella vita del demonio. Fellini veste il male attribuendogli le sembianze di una fanciulla bionda il cui richiamo è rappresentato da una sfera bianca; in Poe il diavolo è un anziano signore. Il film perde la suspense del racconto ma guadagna nella resa perfetta della disperazione scritta nel volto allucinato di Terence Stamp.

Antonioni aveva licenziato Terencino per Blow-up e l’attore continuava a restare a Roma, in attesa della sua prossima opportunità. Io e Bernardino Zapponi avevamo appena finito la sceneggiatura di Toby Dammit e, per caso, qualcuno mi dette una foto di Stamp con quella sua straordinaria e angelica faccia profondamente decadente: il perfetto dandy perdente, la rock star dionisiaca, l’aristocratico alcolizzato imputridito dall’interno tuttora capace di esercitare il suo monumentale fascino biondo. Sa, qualcuno che potessi identificare con il mio alter ego. Convenimmo d’incontrarci e lo scelsi subito. Un giorno, durante le riprese, mi stavo tagliando i capelli quando Antonioni entrò e si sedette sulla poltrona da barbiere vicino alla mia. “Ho sentito che lavori con Stamp”, disse, “Condoglianze”. “Grazie mille, Michelangelo,” Risposi. “Grazie a te, ho scoperto un genio”.

  • Estratto da Edificio Fellini. Anime e corpi di Federico

L’assurdità dell’esistenza nelle “Divagazioni” di Emil Cioran

L’immagine by Arturo Espinosa è sotto licenza 
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Razne – Divagazioni figura l’ultima opera scritta in lingua romena dal saggista e filosofo Emil Cioran. Esce per la prima volta in italiano per traduzione e cura di Horia Corneliu Cicortaş con il contributo di Massimo Carloni e Costantin Zaharia (Lindau edizioni).

Esiste un momento capitale nella vita di ogni scrittore, un cambio in corsa, dove il passato tocca il futuro dentro la cornice di un presente lavico. Il periodo di tempo che si registra tra il 1945 e il 1946, rappresenta per il saggista rumeno Emil Cioran, il grande mutamento della scrittura; non solo nelle venature tematiche, ma nel passaggio finale all’uso della lingua francese. Razne – Divagazioni figura l’ultima opera scritta in lingua romena che esce per la prima volta in italiano per traduzione e cura di Horia Corneliu Cicortaş con il contributo di Massimo Carloni e Costantin Zaharia. Accogliere una nuova forma di espressione, guardar vivere le proprie parole in un ultimo dizionario, tratteggiano nello scrittore un movimento ricurvo verso la malinconia. Malinconia che, distintamente in Cioran, si destina in melanconia; l’humor nero sancito da uno scoramento inesorabile.

La copertina del libro edito da Lindau edizioni

L’essere nell’accadere della vita simboleggia un atto del tutto inintelligibile che non incontra più soluzione alcuna. La volontà di esistere, nelle digressioni del saggista, è la grande attestazione della malattia del vivere; lo stimmung, come stato d’animo malinconico, tratteggia la guida più credibile sulla strada del vuoto. Giacché lo spleen, portato da Cioran alle vette più estreme, si rende timoniere solo in funzione di un fallimento: la frattura della protesta o l’inesistenza della ribellione. Velleità che si infiltrano nello scrittore come vitalità da abbattere, poiché non giungono ad alcuna via di fuga dal mostro che è da sempre il male di vivere. Se il mondo non può essere mutato, cosa vale affannarsi nel vortice del nulla? Al contrario, nella pacata accettazione dell’ineluttabile, sorge la possibilità di non soccombere alla disillusione. Pertanto la malinconia delinea il risultato di un meccanismo vizioso; si fa virgiliana nell’inferno di Cioran. Inferi, che nel vuoto, accadono anche nel ventre del Purgatorio e del Paradiso: l’infondatezza custodisce ogni luogo del vivere. Una eccezionale sollecitazione può alleviare, anche solo momentaneamente, il regno del nulla: la panacea di un ideale. Oltre l’idea stessa, il balsamo è dentro la possibilità di perseguirlo; rincorsa che distrae lo sguardo dall’inesorabile caduta nel vano. Inconsistenza che si fa allegoria dell’”urlo pietrificato” di un D’Annunzio o metafora Kierkegaardiana nella conduzione degli uomini verso il silenzio come unica forma di guarigione. Invero, l’ideale così come la protesta, non figurano altro che due immaginette funeree, piccole sorveglianti di una sospensione che allevia ma non salva. Appare vitale, nel paradosso, l’inesistenza di un senso all’esistenza; un accadimento necessario per l’essere umano. Insistendo nella volontà di esistere, la creatura persevera nell’errore che la vita sia messaggera di un senso e dunque continua a vivere in tale certezza, eludendo il tratto inespugnabile verso la morte.

Ogni punto nello spazio è un crocevia di strade che portano tutte alla morte, così come ogni punto nel tempo è la misura della distanza che ci separa da essa. Qualunque strada si voglia prendere, è lo stesso. I passi, comunque orientati, hanno sempre la stessa direzione. Come mai le ossa dei morti non si sono incendiate in quest’universo che corre sul carro funebre?

Se la malattia del vivere può solo godere di istanti di sospensione, il respiro è indagato da Cioran in altre situazioni, anche nell’ipotesi dell’atto suicidale come unico gesto di libertà. Il male si neutralizza nel male; invischiati nelle paludi del nulla, impegolati negli acquitrini di un’esistenza inorganica, l’unica camera d’aria vive la possibilità di flirtare con il suicidio. Tale assunto custodisce la sola forma di libero arbitrio che l’uomo è in grado di esercitare davanti alla piaga della sopravvivenza obbligata. Una via di fuga dalla morte nella morte. Atto, verso il quale lo stesso Cioran, continuerà a sostenere solo nel concetto. Nulla si farà mai gesto anche perché Non vale la pena uccidersi, dato che ci si uccide sempre troppo tardi. Nella diagnosi patologica, la morte giunge in maniera naturale.

Nelle linee essenziali, la mestizia è una necessità di tristezza, bisogno che appare chiaramente sulla copertina del libro, l’opera di Caspar David Friedrich Der Träumer. Oltre l’immagine pittorica, allegoria di un chiaro stato d’animo, sin dalle prime divagazioni si affacciano temi tanto cari al romanticismo tedesco nello sgomento del sublime. Il prolungamento è nella bellezza che prende e fa proprio il sapore della morte.

Quando osservo il silenzio ultramondano dei paesaggi, l’impassibilità sublime degli alberi, lo sperpero del sole sopra cristallizzazioni verdi che stupiscono e sconvolgono lo spirito, quando dai giacimenti della sensibilità risale alla superficie del cuore una nostalgia senza contenuto, che abbraccia lo spazio con una maestosità soave e funebre, allora la bellezza mi appare come il veleno più forte mai assaporato dall’anima.

La bellezza, pur nelle vesti di una potenza mortale, non trascina mai dentro un istinto di morte. La fine si lascia nella polvere dell’inconoscibile; si abdica in favore della vita, fosse anche quella più terrificante. Tra due misteri, l’individuo s’incammina sul sentiero che suppone di conoscere, quello della vita. Ma chi vive nel presente, ascolta il perenne richiamo di una nostalgia priva di argini; un bisogno di passato, un’occorrenza di futuro, tutto nella negazione dell’istante di un accadere che, nell’oggi, è già tempo di tristezza. La malinconia è finanche quella sentita per la banalità, qualsiasi scappatoia che permetta all’individuo di non volgere lo sguardo all’interno di se stesso. Così la tensione sempiterna a un’operosità emancipata dal senso, pur di non scendere dentro l’animo umano sino nelle viscere per farsi consapevolmente impotenti. Sono divagazioni che ruotano sempre intorno allo stesso mostruoso pianeta: la malattia del vivere che figura come l’unico fil noir in un subisso di digressioni. La più potente arma di seduzione in tale spargimento di idee, giunge dalla fascinazione esercitata dal male.

Nell’ultima opera scritta in lingua romena, si avverte ancora un inconfutabile tensione nella ricerca di una parola che possa infine esprimere il senso, quel senso. Tanto più un universo è zeppo di emozioni e suggestioni, quanto più il fardello si fa pesante nella volontà di narrare. Non esistono nomi che si facciano sostanza, non accadono termini che traducano fedelmente un’emozione senza scivolare dentro un tradimento. La parola, non di rado, interviene a disertare il senso e nel foglio si stende come un limite invalicabile. Ed è in tale zona che Cioran si affida alla definizione e infine alla divagazione per armeggiare nella delimitazione del nulla.

Tutto ciò che non è pura visione del nulla è un castello in aria.

Dentro tale voragine, lo scrittore è mestamente consapevole che l’individuo non può vivere privato da un atto di deificazione. Il culto è vitale quanto la tristezza:

Anche coloro che non credono, credono nel fatto di non credere.

Nel cuore di un credo, di un ideale o di una rivolta, sopravvivono delle creature non lusingate dal fallimento: i neutri. Sono coloro che restano fuori, vivono una temperatura tiepida dove nulla arde o gela: gli individui che esistono lontano dall’eccesso. Ma cacciati dal tracollo, non sono in grado di percepirsi in un’anima. La stessa che in Cioran è rintracciabile nel verso dell’eccedenza, l’immagine simbolica della presenza umana nel mondo. Le digressioni dello scrittore rumeno non custodiscono una morale e ancor meno propongono una soluzione definitiva. Descrivono un brutale universo da pestare per non cadere nella pietrificazione di una parola che mai vive l’edulcorazione. Oltremodo, di fatto, la vita non si svolge nel dulcis:

La vita è la morte quotidiana della Convinzione.

(7 novembre 2016)

Con la parola vengo al mondo. Bellezza e scrittura di Clarice Lispector: l’eterno femminino suggellato dalla parola bella della poetessa Cettina Caliò

In copertina, illustrazione di Stefano Babini

“Il silenzio della parola all’infinito”

Il silenzio si finge voce in ogni crepa che ci tiene interi.

È un linguaggio complesso. Fa l’urlo e fa la musica, come i dettagli fanno l’uomo, la bellezza e la vita stessa.

Clarice Lispector usa la parola per dire il silenzio. Silenzio come fonte di parola. Ci sono cose che si sottraggono alla parola e tuttavia è nella parola – nella scrittura – che trovano un sentiero per arrivare a noi, alle nostre solitudini, alla nostra colpa. Quel sentiero è un cammino carnale, quello che reca con sé arriva in ginocchio per poi ergersi e fare casa, di luci e ombre, dentro di noi. 

È necessità il bisogno di dirsi e darsi significato e significante attraverso la parola. La scrittura strappa e trattiene. Tenta di dire l’indicibile, tenta l’abisso. Parte dal silenzio e ritorna al silenzio, alla nostalgia del sé e di ogni cosa che si pensava fosse. Sempre rimane da tradurre il silenzio.

Nel bisogno della Lispector, di questa donna col sorriso stretto e amaro, c’è la consapevolezza del peso di certe parole che fanno silenzio in tre sillabe: dolore, amore, altrove, memoria, perdita. Sono tre anche le sillabe di silenzio, nostalgia, bisogno, respiro, parola.

Isabella Cesarini (che possiede pensieri di questa fatta: “Siamo sfocate nella vita… mi perdo nelle cose perché le sento prima di saperle”), attraverso un percorso articolato brillantemente in opere e passaggi biografici, offre un ritratto inedito, intenso e affascinante di una figura di grande potenza vitale e letteraria. Una donna piena di solitari luoghi interiori e luogo lei stessa. Luogo sofferto e sfavillante come un fuoco d’artificio.

Isabella Cesarini con questo testo ci ha fatto un bel regalo.

Clarice Lispector è un’ebrea ucraina con il ritmo latino nelle vene. È, in definitiva, popolo eletto.

Cettina Caliò

  • Con la parola vengo al mondo. Bellezza e scrittura di Clarice Lispector di Isabella Cesarini (Tuga edizioni, pp 128, € 16).

“Sono quella balorda intensità ch’è un’anima”. Jorge Luis Borges

“Jorge Luis Borges” by susanamule is licensed under CC BY-NC-ND 2.0

Jorge Luis Borges, uno dei grandi maestri della cultura latino-americana, figura come il più rappresentativo esponente di quella foggia letteraria che, tramite lo sviluppo dei fondamenti della realtà e l’impiego dei complessi richiami culturali, crea un universo paradossale e immaginario in cui il lettore non sempre è capace di giungere alla comprensione del vero significato.

Borges, nella sua opera, scarta ogni forma di suddivisione tra reale e irreale, tra verosomigliante e assurdo e, colliquando in unitarietà i dati storici e i principi narrativi, genera quadri inverosimili e sconcertanti in cui l’individuo si trova sovente in preda a fissazioni scioccanti e ostaggio di una realtà stretta da limiti fantastici e fallaci.

Parte della poetica di Borges è assicurata in un testo fondamentale – Carme presunto e altre poesie – da cui germinano apparizioni, reminiscenze e previsioni che offrono la fascinazione delle congetture, delle circostanze apparenti e delle chimere che turbano l’individuo lasciandolo in una situazione di indugio perpetuo sul suolo di riscontri impensabili.

Il ventre lucente per Borges è l’universo infinito dell’aspetto simbolico, il giardino verdeggiante della supposizione, da cui il poeta trae la sua grande poetica.

Insonnia

Di ferro,

di arcuate travature d’incommensurabile ferro conviene che

sia la notte,

affinché non la facciano scoppiare e la sventrino

le molte cose che i miei occhi ricolmi hanno visto,

le dure cose che intollerabilmente l’affastellano.

Il mio corpo ha fiaccato i livelli, le temperature, le luci:

dentro vagoni di una prolissa strada ferrata,

in un simposio di gente che si detesta,

nella linea slabbrata dei sobborghi,

in una villa afosa d’umide statue,

nella notte stracolma in cui s’affollano il cavallo e l’uomo.

L’universo di questa notte presenta la vastità

dell’oblio e l’inesorabilità della febbre.

Invano voglio svincolarmi dal corpo

e dall’incubo di uno specchio incessante

che lo moltiplica e l’assedia

e dalla casa che ripete i suoi patii

e dal mondo che prosegue fino a uno sminuzzato sobborgo

di stradoni dove il vento s’ammansa e di balordo fango.

Invano attendo

le disintegrazioni e i simboli che antecedono il sonno.

Prosegue la storia universale:

i minuziosi tragitti della morte nelle carie dentali,

le circolazioni del mio sangue e dei pianeti.

(Ho detestato l’acqua putrefatta di una pozzanghera,

ho abortito al tramonto il canto del passero.)

Le spossanti, interminate miglia della periferia verso il Sud,

miglia di pampa immonda e oscena, miglia di vituperio,

non voglion cader dal ricordo.

Plaghe sommerse, ranci ammassati come cani, pozze di

fetido argento:

io sono la sentinella detestabile di quelle immobili

postazioni.

Ferrospinato, terrapieni, cartacce, rifiuti di Buenos Aires.

Questa notte credo nella tremenda immortalità:

nessun uomo è morto nel tempo, nessuna donna, nessun

morto,

giacché questa inevitabile realtà di ferro e di fango

deve attraversare

l’indifferenza di quanti siano dormienti o

morti

quand’anche si occultino nella corruzione e nei secoli

e condannarli a una veglia terrificante.

Tosche nuvole color vinaccia infameranno il cielo;

albeggerà nelle mie palpebre serrate.

  • 1936, Adrogué

Sylvia Plath – Autopsia di un inconscio

Creación colectiva sobre la vida y obra de Sylvia Plath Temporada 2011” by matacandelas is licensed under CC BY-NC-SA 2.0.

La realtà è quella che mi invento

Un maniacale inseguimento della perfezione conduce difilato a una sanguinaria persecuzione di se stessi. In preda a un’idea fissa verso una suggestione mobile, la chimera del grande impeccabile incede nel mostro che porta la creatura dentro un vortice di afflizione. Il bello ideale conosce le regole del nascondimento: quanto più ci si avvicina tanto più l’utopia si fa distante. Ove si manca l’occasione, il patimento cresce sino alla piena. Nessun argine può contro il supplizio autoinflitto: la fotografia dello splendore massimo non trova spazio nell’elemento umano. L’affanno di un animo stanco che nel vizio rivela già la sua perfezione.

Sylvia Plath (Boston, 27 ottobre 1932 – Londra, 11 febbraio 1963) descrive la più inclemente giudice di se stessa, incalzando quel mito della perfezione che seguirà per tutta la vita. E tutta la vita di Sylvia è dentro quei trenta anni di creatività e supplizio. L’esistenza, nella grazia della natura, prende a muoversi nei versi, nelle fronde delle parole, in quel cielo screziato di sfumature e la luna, la grande madre severa, si fa sguardo imperturbabile sull’esistenza della poetessa. È la prima attrice de La Rivale, poesia dell’opera Ariel, libro postumo uscito nel 1965, due anni dopo il suicidio. La bellezza è dolorosa. Dallo spazio lunare, la bellezza illumina con fermezza annientatrice.

La scorsa di Sylvia sulla circostante distesa dell’esistenza è come quella di un esule che sosta nel perpetuo senso di abbandono. Gli esseri umani vengono al mondo con il solo fine di lasciarla, per confinarla dunque in una mordace solitudine; statuto speciale all’interno del quale la donna si dedica al suo personale sezionamento. Tante piccole tessere da indagare e resuscitare nel verso. Muove dalle sue membra per atterrare con forza all’interno dell’inconscio, operare dei tagli e infine abbattere il suo edificio vitale. Quanto più distrugge tanto più il verso rinasce. Vita e scrittura impattano in un gioco al massacro sino all’ultimo afflato.

La relazione più duratura è quella che la poetessa intreccia con il dolore. Sylvia è il suo processo: una corte marziale dove la vittima è trattata al pari del carnefice senza possibilità di appello o di assoluzione. Permeabile all’inquietudine, si dispone nella direzione di quel dardo che lei stessa prende a tirare. Esiste un monstrum, una creatura terribile e al contempo ammaliante che giace indisturbato sul fondale della sua anima. Indossa le sembianze sfocate di un dualismo che prende a vampirizzarla nel corpo per giungere più in fretta nei foschi scomparti della sua mente.

***

Risulta arduo tornare indietro dalla lettura della Plath.

Vi è un incessante flirtare con l’oblio, con un’immagine illusoria di ciò che vorrebbe essere e non sarà mai. Poiché quell’immagine non esiste se non nella costruzione certosina di un esile inganno. Il miraggio si impone nell’eccezionalità dei toni scuri sino all’ottenebramento.

***

Fortemente autobiografico, il romanzo La campana di vetro, rappresenta un percorso di scrittura dove la Plath si pone alla forsennata ricerca di un carattere ben definito. L’indagine è  importante, per tale motivo viene eseguita mediante uno pseudonimo: Victoria Lucas. L’opera ripercorre i luoghi mentali e fisici vissuti prima del tentativo di suicidio. La gestazione di uno stato d’animo spartito tra la disillusione e la mancata accettazione della sopravvivenza. Il disincanto attende ansante al termine della costruzione fantastica. Ogni uomo viene posto su un dubbio piedistallo per essere infine trangugiato da una realtà che vanifica la congerie onirica. L’elemento maschile è pertanto un portatore sano di solitudine. Le aspettative vengono puntualmente disattese, l’edificio crolla e, sfiancata dal suo lavoro di costruzione fantastica, crolla anche Sylvia. Ciascun disinganno si perde in un rivolo d’acqua esposto al gelo, vale a dire ghiaccio da sciogliere nei versi della sua lirica.  

Mi sentivo come un cavallo da corsa in un mondo senza ippodromi.

L’aspettativa gemica in ogni moto vitale.

***

Ad affastellare una mente sovraesposta al dolore, contribuisce il desiderio costante di due situazioni antitetiche e contrastanti. Da un lato vi è la ragazza destinata ad appagare i desideri dell’altro; la gigantografia rappresentata dal nucleo familiare e dalla società: esaudire un matrimonio che si faccia stabilità per la donna e la poetessa. Dall’altro sopravvive, non senza recalcitrare, la donna viva solo nella scrittura che guarda al matrimonio come un ostacolo alla realizzazione di se stessa nella parola. L’oscillazione tra i due stati è il terreno fatale di quel tormento che la seguirà per tutta l’esistenza.

***

Accade che la mente si rivolti in mondi altri e, in quell’altrove, la creatura si lasci cadere per rinascere in un essere perfetto, dunque fittizio. Sylvia è tutto questo e tutto questo è la scrittura di Sylvia: l’inclemenza di Sylvia sulla Plath.

Più sei un caso senza speranza più ti tengono nascosta

***

[…] lunghe gambe a descrivere la traballante aderenza al suolo.

Il pensiero, trascinato in vetta, soffre l’altitudine e la riduzione dell’ossigeno lo porta a una sincope tutta di mente. Il capo si fa pesante poiché trascina il fardello più pesante: l’insindacabile giudizio su se stessa.

  • da Anime Inquiete – 23 storie per mancare l’esistenza

Pierre Drieu La Rochelle – L’âme doux

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«Spesso un Narciso che sogna di possedere essendo posseduto»

(Diario, 1939 – 1945)

È nel tacito principio di delicatezza che si incorniciano le cose nel silenzio lasciando l’operato al presagio. Sul medesimo solco si racchiudono i gesti nell’aura della stasi. È un contegno di attesa nel fluire del tempo acché il momento si consegni allo sguardo interiore. L’intima bellezza viaggia su rotaie di cristallo, tutto nella cura dell’emozione di esistenze altre. La delicatezza di Pierre Drieu La Rochelle (Parigi, 3 gennaio 1893 – Parigi, 15 marzo 1945), non tocca solo un movimento estetico, ma un vero e proprio moto dell’anima. La sua scrittura è un afflato di garbo, patrimonio di un mondo perduto e custodia di un gentile palpebrare: movenza impercettibile di uno sguardo mediante il quale vedere la vita, introiettarla e stoicamente rifiutarla. Le opere di Drieu, dai romanzi sino ai diari, figurano una galleria di riflessioni sull’esistenza e sulla spiritualità. Ogni singola pagina accoglie la direzione per restituire, attraverso un aforisma, un pensiero o finanche un interrogativo, fogli pronti a trafiggere per smarrirsi nella memoria. L’opera diaristica di La Rochelle, distintamente in Journal d’un délicat e, in misura maggiore, in Journal 1939-1945, romanzo e diario postumi ambedue, si muovono sulla piega dell’attualità, custodiscono lo spirito del tempo che, per alcune trame, si espande sino al nostro. La sua Europa è forata dal refolo dell’aridità. Per quanto l’autore veda nella scrittura diaristica un modello succedaneo del lavoro più profondamente creativo, le parole sono grazia trainata dalla complessità di uno spirito sopraffatto e deluso.

Il diario è qualcosa cui dedicarsi nel tempo perso pur restando un importante forziere di quella nobiltà pessimista che si incolla su ogni singolo tendine della mano scrivente. Pulsazioni vigorose vanno incontro alla vita e dalla stessa vengono avvilite. Scoramento che non cede alla resa. Al contrario, seppur all’interno di un suolo disincantato, si edifica sopra una presa di coscienza.

Per un esteta della malia attrattiva, l’immagine della donna rappresenta la principale sorgente dalla quale gemica la creazione. Donna come natura selvaggia; impulso e creatura intellettuale in una sola eccezione: Victoria Ocampo. La passione tra Drieu e Victoria figura una straordinarietà: la Ocampo è donna di intelletto. È un coup de foudre a intiepidire una fredda giornata parigina di febbraio. Siamo nel 1929, lo scrittore è al termine del suo secondo matrimonio. L’incontro tra i due è profezia della nascita di una passione dirompente quanto dolorosa. Per quanto in conflitto su diversi argomenti, sono due creature discordanti che suonano all’unisono. Si sfidano su temi politici, religiosi, etici. Controversie sedate da una stima reciproca: due abissi che si scontrano con il solo fine di incontrarsi. Per Victoria Ocampo, primogenita di un’agiata famiglia argentina, sposata – come molte liaison di La Rochelle –  ma di fatto separata, la lettura sottolinea una condizione per giungere all’autore. Nell’opera del dandy parigino, impatta con la curiosità per l’uomo. Un viaggio inchiostrale con il fine di giungere alla meta: attraversare lo scrittore. Insieme si avvieranno a un percorso comune, quello amoroso. Nel bagaglio, la consapevolezza di non essere la sola, ma l’unica fra tante. Quello della Ocampo è un trasporto generoso da diversi punti di vista, non ultimo quello economico. Tema ricorrente nelle relazioni intrattenute dallo scrittore. Una sorta di riconosciuto mecenatismo femminile per il quale l’uomo sente la sua inadeguatezza nei confronti delle “donne da marito”. Non si sente a proprio agio con la donna casta. A tale figura preferisce la compagnia di donne ricche che possono provvedere alla propria vita e, per estensione, a quella del letterato. Drieu è pervaso da una “impotenza a tratti” che trattiene l’aria di trovare origine nello sfioramento di una vergine.

Bisogna essere molto forti per amarti senza esserne danneggiati, Drieu

Il trasporto di Drieu per Victoria appare conflittuale quanto indispensabile. La fiamma si alimenta nell’assenza. Spregiudicato e tenero, cinico e amorevole, non si risparmia per quella creatura con la quale può discorrere di Céline, Joyce, Valéry. È necessario parlare di lei e con lei. Nella privazione e nell’attesa cresce la sua fiamma. Nella volontà di negare il moto geloso, invero afferma una fermezza di possesso. Le confessa l’inconfessabile. Indugia nel gioco dell’attesa per sfuggirle e poi tornare con veemenza a cercarla. L’amore tra la Ocampo e La Rochelle, non si realizza nell’appartenenza ma nell’idea indispensabile di appartenersi.  Victoria sarà l’unica donna a custodire il privilegio e la condanna di ricevere lo scritto testamentario con i motivi del suicidio dello scrittore.

***

In Journal d’un délicat Jeanne è il disegno dell’universo femminile. Il dialogo malconcio tra l’eroico e la vita trova in lei la prima manifestazione. Una figura che lentamente si incunea nel suo rifiuto di amare; giunta troppo tardi nella vita dell’autore poiché egli si è infine disposto nel verso del divino. Ma Jeanne non nasce nel troppo tardi: il diniego di un delicato la precede. Una ripudia autoinflitta alla sessa stregua della sua autodistruzione, pertanto non sulla donna ma su ciò che rappresenta. L’intima rinuncia alla creatura femminile rappresenta il rifiuto della fine di un seduttore: Jeanne è tutte le altre e dunque lo specchio di un arresto. Un finale sigillato nel ventre della solitudine.

***

La solitudine di Drieu La Rochelle uomo e scrittore – nella caducità di un animo che svela la fragilità dell’esistenza – incede in paura e la paura in pena. Una doglianza domandata come unica sospensione da un’afflizione perenne. L’immagine femminile è il trait d’union tra Drieu e la vita.

***

La sterilità di La Rochelle si contrappone alla fertilità del mondo femmina in un fermo declino alla vita e all’amore. La sua opera impianta una preziosa occasione per sollevarsi da un caos effettivo, ubriacarsi di delicatezza e compiere una sorta di ascesi dentro la penna di uno scrittore elegante, scisso tra il grido eroico e l’autodistruzione.

 

  • Estratto da ANIME INQUIETE – 23 storie per mancare la vittoria