Incontri nel cuore della cultura giapponese: il nō 

Immagine di Francesco Ungaro

Il nō giapponese rappresenta la forma più antica della cultura teatrale. Si tratta di un dramma lirico che si lega all’Occidente solo nel momento in cui il tratto letterario arriva a farsi più importante. La creazione esprime l’onda travolgente che va a circoscriversi nella forma di un cerchio, dove tutto torna dal passato per illuminare il presente e fissare un legame tra Oriente e Occidente. Il nō, in tale cerchio, passa da Ezra Pound a William Butler Yeats, che tenta di ammantarlo nella poesia per poi tornare a Yukio Mishima. Un accostamento dove l’antico si avvicenda all’istante e, in quel cerchio fecondato dall’onda, tutto si muove come l’attore giapponese: misurato e universale.

Incontri: nel cinema, è un onere, nonché un onore, poter riferire uno dei grandi rappresentanti della tradizione giapponese: Akira Kurosawa. Le pellicole del cineasta attraversano i secoli; dal periodo Heian di Rashomon sino ai richiami recenti, per quanto magici, di Sogni. Provenendo più a fondo nei viluppi dei costumi nipponici, la memoria letteraria va tutta nell’incontro lirico con Yukio Mishima.

Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! È bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! È il Giappone! È il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo.

Il suo nome, già legato a opere come Confessioni di una maschera, Colori Proibiti, Il padiglione d’oro, Sole e acciaio o La via del samurai, trascina ulteriormente nel cuore della cultura giapponese, fornendo il permesso di trattare una delle più antiche forme di teatro, risalendo sino al XIV secolo: il . Una tradizione di trattati che, per ben cinque secoli, vengono trattenuti nel segreto di una memoria. Tesori che nei primi del ‘900 riemergono da un remotissimo paesaggio per narrare un patrimonio tutto giapponese: la cultura del teatro nō. Drammaturgia legata a colui che fu definito “lo Shakespeare giapponese”: Zeami Motokiyo, l’autore, che tra il 1300 e il 1400, figura come il custode di quasi tutto il repertorio nō. Nei paradigmi fissati da Zeami, l’attore gode di una notevole considerazione. Nel muoversi tra i quattro elementi previsti dal teatro, ossia la mimica, la poesia, la danza e la musica, l’artista nella fotografia del palco, svolge una funzione per quanto elitaria, particolarmente sociale. Il nō giapponese rappresenta la forma più antica della cultura teatrale. Si tratta di un dramma lirico che si lega all’Occidente solo nel momento in cui il tratto letterario arriva a farsi più importante. Sino a Zeami, il cardine dello spettacolo è nel canto e nella danza e, l’elaborato scritto, resta solo come un supporto dell’attore. Dopo l’arrivo di quello che può essere definito, se non l’iniziatore, ma il primo forziere di tale arte, lo schieramento avviene in favore del testo, poiché egli stesso è autore e poeta di rara fattura.

La rappresentazione del nō attrae nel proprio orizzonte diverse figure: lo shite, che recitando in maschera, disegna colui che presta il corpo alla danza, alla voce e al canto. Considerato il personaggio principale, si fissa nel ruolo in una definizione: “colui che fa, che agisce”. Nell’occupare tutto lo spazio, generalmente la sua interpretazione, è quella più articolata. Il ruolo secondario è individuabile nella figura del waki che sovente veste gli abiti di un monaco. La sua parte evolve nell’essere il primo a fare l’ingresso sulla scena. Narra il percorso che lo ha condotto sino a quel punto della rappresentazione e infine esce per restare nell’immobilità. Fissità che contempla un’unica eccezione: scongiurare la presenza di un demone. Altre figure, tra il tomo e lo tsure, che non vivono un’esistenza drammatica autonoma, rappresentano pressoché dei ciceroni dello shite e del waki. La loro funzione svolge un ruolo importante soprattutto per l’utilizzo della voce, una sottolineatura dunque, una vigorosa marcatura di tutto lo spettacolo. Nonostante il waki, una volta uscito dal palco, rimanga una presenza fissa e immobile, la sua mansione è importante nella misura in cui diviene la fiamma che arde l’ Universo. Ovvero una pressione che permette l’esistenza dello shite: la densità del silenzio conferisce corporeità e ragione agli accadimenti. Le ultime presenze del nō appartengono alla galleria dei kyōgen, coloro che scaricano la rappresentazione mediante una farsa. Disegnano un vero e proprio bisogno dello spettatore, che dopo il pressante impegno psichico domandato da tale dramma, si abbandona finalmente a una comicità più primitiva. Un intermezzo tra un nō e l’altro, porta gradualmente alla distensione.

Nel teatro, la tradizione del nō realizza la dimensione dell’attore inscindibile, completo, compiuto. Molta autorevole regia dell’Occidente, rappresentata da nomi quali Eugenio Barba, Gordon Craig e soprattutto Antonin Artaud, prendono dall’Oriente proprio l’inclinazione dell’attore al completamento. Rifinitura che non arriva nell’improvvisazione, ma attraverso una severa disciplina di esercizi che abbraccia l’individuo dai sette anni in poi. Sino ai tredici, l’attenzione viene posta sul tratto spontaneo, escludendo comunque quello della mimica. Dai tredici sino ai diciotto, l’interesse include anche l’aspetto vocale, seppur in divenire.

Quel fiore lì non è il fiore autentico, non è che il fiore di un momento

Dai diciotto anni in poi, l’attore arrivando da una vasta gamma di allenamenti, tende a ripiegarsi e a perdere audacia. Pertanto l’unico addestramento va nel verso di non lasciare il nō. Imparando ad ascoltare la raggiunta consapevolezza, a venticinque anni l’impegno inizia a produrre i propri frutti. La parabola ascendente continua sino ai trentacinque. La percezione della sapienza attoriale deve necessariamente provenire anche da una benedizione pubblica. Dai quarantacinque in poi, pur nella cognizione di una consacrazione universale, il fiore può iniziare la sua opera di scomparsa o chiedere l’aiuto di un comprimario. Dunque l’attore del teatro nō, non disegna il talento singolo di tipica ascendenza occidentale o il frutto di qualche anno accademico, al contrario riveste un voto, una vera e propria consacrazione all’arte.

In nome della luce che germoglia da tale figura, accade l’incontro definitivo tra Oriente e Occidente. Ernest Fenollosa, un orientalista statunitense, nell’’800 decide di farsi allievo di un importante attore nō, Umewaka Minoru, con il fine di tornare in patria e rendere l’Oriente più accessibile all’Occidente. Dopo la sua morte, lascia una considerevole mole di scritti sulla cultura giapponese, annotazioni, osservazioni e poesie che la moglie Mary McNeill offre al poeta Ezra Pound:

Lei sarà la persona che pubblicherà i manoscritti di mio marito

Nel 1916 Ezra Pound pubblica i testi di quindici nō con l’aggiunta delle note di Fenollosa. Quanto le arti e non solo l’attore, consacrano il raggiungimento della completezza, è dimostrato da un continuo dialogo tra la musica, la danza, la letteratura e il teatro. La creazione esprime l’onda travolgente che va a circoscriversi nella forma di un cerchio, dove tutto torna dal passato per illuminare il presente e fissare un legame tra Oriente e Occidente. Un’allegoria convessa, sgombra da durezze, dove tutto diventa altro pur non perdendo la propria identità. Il nō, in tale cerchio, passa da Ezra Pound a William Butler Yeats che tenta di ammantarlo nella poesia per poi tornare a Yukio Mishima.

Tra il 1950 e il 1955 Yukio Mishima scrive cinque nō moderni, pièces per continuare a elargire storia e vita a una lunghissima tradizione. La missione dello scrittore si realizza nel rendere più accessibile l’accostamento ai testi tradizionali senza sottrarre il contenuto originale. Se il nō descrive la più antica forma di teatro giapponese, è pensabile che nel tempo si comporti come un notevole collante di eterogenee modalità di pensiero e vita. Un avvicinamento dove l’antico si avvicenda all’istante e in quel cerchio fecondato dall’onda, tutto si muove come l’attore giapponese: misurato e universale.

Quando avrete perfettamente capito il principio dell’incanto sottile comprenderete, per ciò stesso, che cosa sia la potenza.

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