RitrattiDiCinema. “Sarà per te” Francesco Nuti

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Non ricordo esattamente quante volte la mia penna si sia accostata al nome di Francesco Nuti. Al contrario, rammento perfettamente il motivo per il quale abbia sempre capitolato davanti alla volontà di scriverne.

L’emozione puntualmente mi prendeva il corpo e scompaginava tutti i pensieri, mi sentivo incapace di trattare l’argomento con dovuta – soprattutto all’artista – lucidità e chiarezza. Ancora oggi, incomoda in questo mio impegno una pesante tara, la stessa che non mi dona freddezza e mi trascina a scriverne in prima persona. Mi concedo l’inettitudine di non saperlo fare in modo diverso.

Volevo parlare di lui ogni volta che la tivù passava Caruso, Willy o Il Signor Quindicipalle. Presa dalla forza innovatrice di tali regie, un vigore affondava prima nell’inchiostro, poi, già nell’istante successivo, con i lampi del presente innanzi, una sorta di indolente mestizia, prendeva il sopravvento. Mai tale scossa mi giungeva dalle morbose notizie di un telegiornale. Ogni sprone mi giungeva difilato dalla sua arte. Dopo aver letto l’autobiografia Sono un bravo ragazzo, curata dal fratello Giovanni, desideravo ancora fortemente parlarne. Ma insisteva uno stato d’animo che mi rendeva inidonea a farlo. Tante volte ho detto a Michele De Feudis: «Scriverò di Francesco Nuti», tutte le volte che non l’ho fatto sino a oggi. Un oggi che proviene da una notte, una di quelle notti in cui il sonno fatica ad arrivare, il televisore è acceso, ma la sua legge è dettata da una melodia, dapprima colonna sonora di quel buio e infine fuoco e vampa. Da un piccolo congegno parte una struggente melodia, Sarà per te, canzone scritta da Riccardo Mariotto e interpretata da Francesco Nuti nel 1988 al 38° Festival di Sanremo. Tra divagazioni, pensieri e immagini impresse nella mente, soprattutto nel canto che abbraccia l’adolescenza, parte infine un impeto di tenacia: finalmente scriverne, fare dedica di queste parole a colui che nel cinema italiano ha posto una traccia e una firma che non possono e non devono cadere nell’oblio.

Sarà per te Francesco Nuti, per quelle fossette che tanto descrivono un volto. Sarà per quello sguardo furbetto che, ancorato al mio ricordo, continua ad ammaliare. Sarà per quei riccioli maliziosi e piangenti che mi affretto a parlare di cinema, il tuo.

Vorrei cantare di pellicole che ancora oggi sono così fortemente attuali e custodi di un certo modo di piegare la macchina da presa alle proprie emozioni. Il linguaggio cinematografico dei suoi primi film, vive un momento di refrigerio pur lasciando trapelare toni di fondo fortemente malinconici. Si tratta di un particolare stato d’animo che non giunge nell’immediato durante la visione cinematografica; torna a bussare in un secondo momento, quando la stessa pellicola dal tono lieve e divertente, passa a quello dolcemente amaro nel battito di una ripiegatura: la riflessione. Lo stesso stato d’animo che, dall’apice del successo in poi, non abbandonerà mai il regista. Al contrario si farà un elemento annientatore che lo porterà a scardinare la voragine sviluppata negli anni e foraggiata – non tanto paradossalmente – dalla notorietà. Un basamento di dolce tristezza, all’interno del quale, il regista edifica le storie, diviene il marchio distintivo della sua poetica del cinema. Alcune morbosità, pur nella tonalità ridanciana, figureranno curiose profezie di una vita particolarmente permeabile alla sofferenza. Un’amarezza che dentro quel sorriso beffardo si distenderà come il filo conduttore di Tutta colpa del paradiso, Caruso Pascoski di padre polacco, Willy Signori e vengo da lontano, Donne con le gonne, sino alla disfatta nel botteghino di Caruso, zero in condotta.

La figura della donna è sovente metafora di una passione maniacale o di un amore non corrisposto. I personaggi, ricorrenti nei nomi di alcuni attori, sono spesso creature inconsapevolmente smarrite e stralunate. La musica, che già nella prima nota di Lovelorn Man, per fare un esempio, riporta direttamente ai meravigliosi panorami della Valle d’Aosta e al magico incontro con lo stambecco bianco di Tutta colpa del paradiso. Melodia di un uomo innamorato, malato di amore, cerca la sua anima nel dolore e finisce solitario sulla propria strada.

E infine il biliardo, una sorta di feticcio che si porta indosso dall’infanzia tra Prato e Firenze. Varca e segna il suo cinema alla maniera di un’inquadratura, la più importante di tutte. Tentando un azzardo nel linguaggio, si potrebbe parlare di un “piano-biliardo”.

È il biliardo che mi ha insegnato a fare il cinema, perché nel biliardo ogni colpo è il risultato della scelta di infinite triangolazioni. Fra le triangolazioni del biliardo e le angolazioni dell’inquadratura cinematografica non c’è differenza.
Il regista, come un giocatore di biliardo, si muove intorno alla scena per scoprire dove piazzare il colpo. Guarda la scena dall’alto, dal basso, da lontano, da vicino, ma solo attraverso il coraggio dell’IMPROVVISAZIONE coglierà l’immagine più bella.

Nel provare a raccontare questa storia, forse dimentico di ricordare la potenza del vuoto che, tra un film e l’altro, si fa sempre più incipiente. Voragine che non può essere colmata con un altro vuoto e ancor meno bonificata da un bicchiere. L’alcol, nel frattempo si rende patologia e travolge senza lasciare prigionieri. Il verso è quello della distruzione. Si diventa inaccessibili al soccorso sino al punto di non ritorno: un incidente, un coma, una malattia e infine il silenzio.

Io sono il tema dell’abbandono, l’asprezza dell’abbandono. Ora che ho più di cinquant’anni conosco ancora il dolore dell’abbandono. Non è vero che ho cercato il successo, è vero il contrario. Ho conosciuto l’asprezza di questo mondo dello spettacolo, con una tale voracità che mi ha fatto imparare tutto e presto, anche l’arte del corteggiamento. Non è vero che io ho preso le donne, è vero il contrario. Ho fatto finta per anni di essere un Don Giovanni e sono ancora qui a leccarmi le ferite. È vero: ho avuto tante donne, tante macchine, tanti soldi, ma tutto si è bruciato in un baleno e tutto ciò che mi è rimasto addosso è quella malinconia che qualcuno dice. Mi sorprendo ancora quando mondo su un palcoscenico. Rimango spiazzato, inebetito, di fronte a un pubblico che non conosco, di fronte a un amore che non conosco. Anche il vino che ho bevuto a volte non lo conosco, ne conosco solo il sapore. L’ho bevuto esclusivamente perché dà tono, dà ebbrezza. Non conosco le donne, ecco perché le conquisto, ecco perché le lascio o mi faccio lasciare.
Chi è Francesco? Ho solo una certezza: il padre di Ginevra.

La vita prende il sopravvento sull’arte poiché non custodisce le proprietà lenitive di una pietas che non le appartiene. Ma in tale superamento il regista resta, e si presenta anche la consapevolezza dell’amore più grande, quello per una figlia. Pertanto torna alla memoria, così all’improvviso, la struggente interpretazione di Sarà per te, un’ode vissuta su un palco dieci anni prima della nascita di Ginevra, avuta dal legame con l’attrice Annamaria Malipiero. Sarà per Ginevra, per un amore mancato, per un altro passato o per noi che lo ascoltiamo sotto la volta di una notte solitaria, al riparo da una delusione e nel conforto della sua voce. Poiché se è vero che dal 2006 quella voce non esiste più, è altrettanto vero che le sue canzoni hanno preso a risuonare più forte. Accadono dei silenzi che strepitano, mancanze frastornanti. Per questa volta l’ho spuntata con la commozione perché la nostra storia è la storia dei nostri artisti che mai vanno dimenticati in vita e dopo la morte. Sono la consolazione, il sorriso, la lacrima, la sospensione: la vita della nostra vita.
“Sarà per te”

Le parole in corsivo sono la voce di Francesco Nuti dall’autobiografia a cura di Giovanni Nuti: “Sono un bravo ragazzo” – Andata, caduta e ritorno. Rizzoli Editore, prima edizione: settembre 2011.

  • da Barbadillo, 6 novembre 2016

Gabriella Ferri – Calliope romana

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“Sampietrino” by Roberto_Ventre is licensed under CC BY-SA 2.0

Musa del canto romano, ispiratrice di una sua personalissima Odissea, Gabriella Ferri è la malinconica Calliope “testaccina”.

Romana come il primo dei sampietrini conficcato sul suolo dell’Urbe, inclina, mediante una meravigliosa Dove sta Zazà, la sua voce anche nel verso partenopeo. E fluttuando tra la Campania e il Lazio, si fa grandezza di un patrimonio tutto italiano. La Janis Joplin dei vicoli romani è la nobile custode di un’estensione rocamente poderosa, l’allegoria dell’amica italica dello statunitense Tom Waits. Poiché se di interpretazione popolari si è sempre parlato, è nell’elemento del blues che la Ferri incunea le sue ballate; possibilità di fulgore ed espansione.  In Dove sta Zazà – scritta nel 1944 da Raffaele Cutolo – “il possesso dei diavoli blu” è tutto in quel ciondolare in un inizio lento e disperato, per poi indugiare nel parlato sino ad arrivare alle vette di un grido lacrimante.

Gabriella Ferri è nel blues quanto nello scanzonato, nella teatralità come nell’intimismo, descrive l’unione simbolica del “clown bianco” e “l’augusto”, una fusione esplodente dove il basso e l’alto volteggiano all’unisono. Il bianco è la grazia di Remedios o di Sempre. L’augusto è il voltolarsi con Enrico Montesano nell’interpretazione de A Cammesella  o l’intonazione degli stornelli con Claudio Villa. Un dualismo peculiare di ogni grande artista che termina troppo spesso in una lacerazione privata. Strappo, tanto prezioso alla sua arte, dove il popolare si accomoda nel ricevimento del blues. Meno alla vita, quella vera, fuori dall’occhio di bue, dove la melodia blu diviene solo il colore di una malinconia tutta di silenzio e vuota di versi. Dunque silente, violentemente taciturna, mesta nondimeno detonante. La musa è quella di una mitologia; una dilatazione fatta disperazione: una presunta gloria sancita proprio dal respingimento di un Sanremo qualunque, peculiare sorte che negli anni diviene l’abbraccio caloroso nella misura della grandezza.

La Ferri donna è tutta dentro quei grandi occhi bistrati di nero, lo sguardo malinconico, talmente ripiegato su se stesso da non riuscire a scorgere la manta che è congegno di amore da qui al per sempre. Non nella morbosità di un dettaglio biografico, ancor meno nell’occupazione di una sacralità mortuaria, ma nel rendere omaggio in una piccola ode si fonda  lo scritto. Elegia di una barcarola controcorrente, dentro il testo Vamp di Paolo Conte e nelle corde di una ballata triste in Stornello d’estate.

Voce al sapore di miele e fiele, vigorosa nel canto, fragile al cospetto di una esistenza impietosa. Dentro una bellezza fatta di trame dorate e uno stile unico, si incolla indosso con le oscillazioni vocali nell’immagine  di un eyeliner nero quanto la sua caducità. Patrimonio italiano, popolarmente vertiginosa, amata da un amore insolvente. La musica conserva un obbligo d’amore con Gabriella Ferri.

da IlGiornaleOFF, 24 dicembre 2016

Gustavo Adolfo Rol – Nella storia di Torino

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Il principio assoluto e definitivo:

il destino ha finalmente incontrato la vita.

(G.A. Rol)

Il nome e la vita di Gustavo Adolfo Rol (Torino, 20 giugno 1903 – Torino, 22 settembre 1994) non possono in alcun modo essere disgiunti dalla città natale: Rol è dentro il racconto favoloso sino a farsi lui stesso narrazione leggendaria.

L’alba della città risplende nel sole dell’Egitto ed è legata alla grande dea madre Iside. Proprio in un reperimento si recupera l’informazione, un lambello a richiamare il motivo votivo consacrato a Iside. Il culto della dea, in una Torino prima di Cristo, risalta con grande forza. Iside è legata alla magia e a quel che si tramanda sulla sua figura: «Dove tu guardi pietosa l’uomo morto ritorna in vita, il malato è guarito». Gustavo Adolfo Rol è dunque del tutto in connessione con Torino, città, oltre la mitologia stessa, contraddistinta da storie e misteri sovente confinanti con la magia. Il fatto di aver soggiornato in posti diversi quali Marsiglia, Parigi, Edimburgo, consente a Rol di avvertire Torino come uno stato dello spirito, una condizione integrante la sua persona.

Ci si appella a una frase presumibilmente appartenuta al commediografo greco Aristofane, quella che vede la patria il posto dove si prospera, per disegnare il legame tra l’uomo e la città. Ed è proprio nel capoluogo piemontese che il dottor Rol vigoreggia, contribuendo alla stessa maniera della dea Iside, a porre alcune guarigioni particolarmente misteriose. Non si considera un veggente, un sensitivo, un indovino e ancor meno un parapsicologo. L’essere tacciato di magia rappresenta un’onta. Rol è un uomo di cultura, consegue tre lauree, studia con impegno, si dedica all’antiquariato e soprattutto dipinge. Alcuna cornice può delineare i contorni della sua immagine. Mediante l’uso delle mani esercita facoltà prodigiose. Capacità che descrive la spinta lavica verso il prossimo. Non si sostituisce ai medici, più volentieri si fa sostegno e supporto per la medicina. Non domanda compensi, è cattolico, credente e praticante. L’unico mago che riconosce è Dio:

Dio è inconsumabile, ed essendo Dio in noi, la vita fisica non si spegne. Io credo nella Resurrezione, nella continuità degli affetti e nella necessità di una temporanea morte, la quale non è altro che un cambiamento.

Appare certamente curioso pensare a un uomo, da molti considerato vicino all’esoterismo, come una creatura devota e fedele alla preghiera cristiana. Di fatto Rol descrive il fuoco di uno spirito libero, si infoschisce nello spazio della magia, ma si offre a molteplici episodi che in qualche modo la evocano. Considerato, nonostante la sua espressa ritrosia, il più grande sensitivo del XX sec., Rol forma il suo pensiero sullo spirito intelligente. In tale teorizzazione non si ravvisa alcuno scontro con la fede. Secondo l’insegnamento dello spirito intelligente, l’essere umano è circondato dagli oggetti e ognuno di questi è capace di farsi portatore di una determinata mansione. Tale compito perpetua anche dopo la fine dell’oggetto. Pertanto detta concezione nasce in virtù del fatto che proprio l’individuo prende parte alla fabbricazione dell’oggetto. In simile catena, la cosa è entrata, anche solo per sfioramento, in adiacenza con altre cose. Il risultato della vicinanza o del toccamento è la nascita di un legame, che non tramonta, ma passa di oggetto in oggetto. Per Rol è certo che esiste uno spirito intelligente delle cose e in logica, tale procedimento avviene anche nell’animale e nell’uomo. L’individuo possiede lo spirito intelligente, un carattere che conosce il passato, il presente e il futuro, mediante l’adiacenza o lo sfioramento della cosa. In tal modo lo spirito dell’uomo resta sulla terra anche dopo la sua morte.

Rol precede qualsiasi obiezione in un distinguo: lo spirito è indipendente dall’anima. Quest’ultima infatti non conosce fine; è immortale e oltremodo dopo la fine si ricongiunge con Dio. È proprio in questo innesto inconsueto tra fede e sperimentazione che risiede l’eccezionalità di Rol. È una creatura concitata nella conoscenza, un temperamento cadenzato dall’arte: la musica, la poesia e infine la pittura. Ed è proprio nella la figura del pittore che ama riconoscersi. Una considerevole sensibilità lo avvicina alle persone, segnatamente per gli esperimenti che il dottore definisce di coscienza sublime, ovvero la consapevolezza di possedere una sagace intuizione in merito al destino e alla natura degli uomini.

A volte deriso, altre venerato, appare plausibile indagare una zona franca nel particolare non trascurabile di aver agito senza finalità economiche.

Gustavo Adolfo Rol è nelle pieghe della sua Torino e nei ricordi dei numerosi personaggi illustri dell’arte e della società. È nelle parole del regista Federico Fellini che è possibile rinvenire la memoria di un individuo carismatico e calamitante. La stima tra lo “spirito intelligente” piemontese e il cineasta romagnolo è, come spesso accade, simmetrica e reciproca. L’uno vede nell’altro l’espressione di una personalità illuminata da una grazia superiore. Nei ricordi di Fellini si rintracciano episodi che tendono a confondersi con la propria debordante fantasia.

Uno dei tanti è nella genesi del film Giulietta degli spiriti, qui nelle parole di Fellini:

“Il sette di fiori. Rol stava dimostrando un trucco con le carte. Dovevo prendere una carta a caso dal mazzo e così mostrai il sette di fiori. Con la sua abituale solennità, Rol mi disse di tenerla sul mio petto senza guardarla. Poi mi chiese: “In quale carta la devo trasformare?” Quindi presi un’altra carta a caso. “Nel dieci di cuori” risposi. Ma mi mise in guardia: “Ricorda, Federico. Non guardare mai il sette di fiori.” Avevo la carta appoggiata al mio petto e Rol cominciò a conferire con la mia mano e il sette di fiori, con lo sguardo fisso e penetrante. Sfortunatamente, fui colto dall’irresistibile urgenza di guardare la carta. Non ho mai dimenticato ciò che vidi: una spaventosa e grigiastra massa putrefatta, una pappa di porridge rivoltante in cui i contorni del sette di fiori si dissolvevano, lasciando una ragnatela di vene sanguinolente. In quell’istante era come se qualcuno mi avesse afferrato gli intestini e li avesse strappati violentemente. Prima di svenire, comunque, ebbi la soddisfazione di tenere in mano il dieci di cuori. Riporto i fatti come li ho vissuti. Sono curioso. Mi interesso a tutto e credo in tutto.”

E nelle memorie di Rol piovono ricordi del regista:

“Tu, solamente tu sei immenso, caro Federico, ed ogni istante trascorso con te è qualcosa che si rivela, illumina l’intelletto e conforta il sentimento. In ogni cosa che dici, nei tuoi gesti, sul tuo stesso volto, affiora tutto ciò che la tua mente ha creato e si accinge a farlo. Ho sempre creduto che le tue opere sono una impellente necessità che il tuo spirito ha di esprimersi come un generoso dovere verso l’umanità che spera.”

Senza voler entrare nel merito delle sperimentazioni, ma esclusivamente nell’istantanea di un personaggio che entra di diritto nella galleria di coloro che vissero sopra o sotto ogni tentativo di inventariato, resta il fascino di un uomo che si impianta in completezza nella storia.

Una natura mossa dall’irrequietezza propria della conoscenza, dove arte e mistero si fondono per dar luce a una creatura capace di accogliere tutte le sagomature artistiche e vitali.

  • da il libro ANIME INQUIETE

Lezioni d’amore

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* da Barbadillo.it, 17 ottobre 2015

È in una piccola scuola di provincia che lo svagato insegnante di storia dell’arte, si reca ogni giorno da anni per assegnare vita alle proprie lezioni. Lui è il professor Giordano (non è dato sapere se lo sia nel nome o nel cognome), ma da sempre “prof. Vano” per gli alunni. Alquanto garbato nella voce e nella gestualità, meno nelle fattezze fisiche, forte di un calore precisamente adolescenziale, privo di quella malizia riservata al fascinoso docente di francese, alimenta quotidianamente la passione per la sua materia.

È di ieri l’altro la lezione tutta neoclassica nell’allegoria mitologica del gruppo Amore e Psiche. Prof. Vano non risolve nella spiegazione, non lavora in opera di premessa, non si adopera in fiumane di gessetti, ma sottrae l’attenzione fanciullesca al tempio virtuale nella solennità di una mostra. Il momento canoviano, descritto dal marmo bianco, è quello che precede il bacio. L’istante del prima, quello che resta nella memoria degli amanti per sempre. Il tempo dell’amore accade dentro un respiro tra un’antecedenza di attesa e un séguito di volontà teso alla conservazione dell’attimo.

Il segreto della passione è tutto in quel piacere fatto di sospensione: nella tensione verso l’altro che è oltremodo irripetibile. Il turbamento nasce dall’impossibilità di possedere il baleno che, in un ineluttabile avanzamento, non trattiene il segreto per riviverlo. Nel mancarsi degli amanti si alimenta la speranza. Il momento è quello fugace che si festeggia nella caducità del lampo d’amore. Il sentimento si risolve nella perfezione che non contempla l’avvento di un dopo. Un oltre che nel pensiero è già paura della perdita, chimera del viversi quotidiano, richiesta tentennante di certezza: certezza di imperfezione. Ma se il prima è coronamento di cuore e il dopo lacuna di sussulto, cosa avviene nel tempo del mentre? La classe si desta alla riflessione e al dubbio sul mistero dei misteri: tutto è mancanza, tensione e assenza? Il professore da svagato sognatore si fa serio e tenta la considerazione nella volontà di dar voce all’inesplicabile.

Se dagli archetipi è necessario partire, ai classici esuli dalle biblioteche scolastiche, bisogna domandare.

La questione nasce nella piccola scuola di provincia e approda in un’isola remota del Giappone: Uta-jima, l’isola del canto. Tra pescatori di perle e melodie che risuonano dal mare, Yukio Mishima descrive il tempo del mentre di cuore: l’amore è una cosa semplice.
Shinji e Hatsue si deificano nell’avverarsi del prima e sfuggono alla negazione di un dopo imperfetto. La poesia ancor più classica di Amore e psiche, prende vita nell’opera La voce delle onde per sgombrare il campo di cuore da tensioni superflue. L’inquietudine, attraverso la possibilità di realizzazione del sentimento, giunge a un equilibrio di natura, corpo e spirito. Nella semplicità di due creature si compie quello che nell’arte è solo appartenenza dell’istante. Il mare seppur in tempesta è fluida cornice, il carico di lavoro è forza di volontà e le illusioni aderiscono solo al cavillare mentale dell’ispirazione artistica.

Leggere La voce delle onde di Yukio Mishima si completa in un atto del tutto simile a quello del contemplare un’opera d’arte, ponendo il veto a divagazioni estetiche ornamentali, in un cosmo dove l’incontro tra femminile e maschile appartiene alla sfera del possibile. Lo scrittore giapponese abbandona la trepidazione presente in romanzi precedenti, quali Confessioni di una maschera o Colori proibiti e fissa, in un amore innocente e virtuoso, il mentre dell’emozione. Nel tempo in cui la carne non brucia nella carne, l’ammirazione di corpi dei due giovani protagonisti è già profezia di nozze: lirica di due creature che seguono, non anticipando, il corso delle cose. La passione è rapimento che non si farà mai cenere. Nel sorprendersi del turbamento e nella volontà di conservarlo, il tesoro emotivo non si disperde nella fretta. Questo il tempo del mentre che il professore svagato, percorre nella piccola scuola di provincia. Una eco lontano che si riappropria della cultura classica e rinasce in guizzo di vita nella speranza, sovente, sottratta alla contemporaneità.

Ieri l’altro, gli alunni del professor Giordano, hanno visto accadere Mishima nella voce dell’isola di Uta-jima e oggi sanno che l’amore è anche una cosa semplice.

Muse

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“IMG_5687W Renato Guttuso. 1911-1987” by jean louis mazieres is licensed under CC BY-NC-SA 2.0
  • Da figura mitologica, la musa prende a vivere dentro l’opera pittorica, nel romanzo e nella poesia come imperativo sine qua non: virtù, prodigio o necessità indissolubilmente legata all’artista. È la presa invisibile che brandisce il pennello del pittore, l’inchiostro impercettibile che sospinge la penna dello scrittore. La spinta lavica dove il maschio artistico si fa madre, amante, amica in un imbracciare la femminilità che solo una dea ispiratrice può generare.

È il profumo dell’Heliconia a farsi sentinella di ogni opera d’arte. Il nome del fiore giunge direttamente dal monte Eliconia, luogo reso illustre dalla mitologia greca sulle muse. Nove figure, figlie di Zeus e Mnemosine, denominate Eliconie nella Teogonia di Esiodo. Anticamente avvolte nell’arte della musica, guadagnano imponenza nel tempo come custodi di ciascun fiotto di pensiero. Attraversano lo spazio/tempo in un divenire perpetuo che, da seducenti scrigni di arte, si fanno lucenti volte d’ispirazione per numerosi artisti. Non vuote sagomature da ritrarre, ma femmine di Zefiro che nel soffio fecondano nel maschio non una, ma molteplici Flora botticelliane. La musa, da mito prende vita nell’opera pittorica, nel romanzo e nella poesia come imperativo sine qua non: virtù, prodigio o necessità indissolubilmente legata all’artista. È la presa invisibile che brandisce il pennello del pittore, l’inchiostro impercettibile che sospinge la penna dello scrittore. La spinta lavica dove il maschio artistico si fa madre, amante, amica in un imbracciare la femminilità che solo una dea ispiratrice può generare.

Calliope, Clio, Urania e le restanti muse riemergono nel ‘900 nelle monumentali figure di Jeanne Hèbuterne, Elena Ivanovna Diakonova (Gala) e Marta Marzotto. Jeanne Hèbuterne figura i molteplici volti della disgraziata vita del pittore Amedeo Modigliani. Con l’appellativo “noix de coco” per i lunghi capelli e un volto che tratteggia la perfezione, Jeanne rappresenta la creatura che s’immola per l’arte nella vita e dentro la morte in una missione artistica tutta di Modì. Modì che è altresì maudit e ancora l’incontro con la musa Jeanne rappresenta l’esuberanza amorosa in assenza di argini. Noix de coco è l’empito creativo, la madre, l’amante e colei che nella fine dell’amato trova l’unica via di sopravvivenza nel darsi la morte. Amedeo Modigliani muore il 24 gennaio 1920 di meningite tubercolotica. Jeanne Hèbuterne , al nono mese di gravidanza, abbandona l’esistenza privata di Modì, lanciandosi da una finestra. Un volo che è feroce distacco e struggente ricongiungimento in quell’altrove che solo l’artista insanamente intende. Il pittore e la musa, la morte e la vita, l’eccesso e la quiete ricongiunti in un’infinita e infausta opera d’arte. Per volere dei familiari della Hébuterne, del tutto maldisposti alla relazione vissuta con Modigliani, la dea dei suoi dipinti viene tumulata nel museo parigino di Bagneaux. Solo nel 1930, i resti vengono posti accanto al suo “Dedo” nel cimitero di Père Lachaise. La commovente passione di Jeanne per Modì è tutta dentro la solennità di un epitaffio:

Devota compagna sino all’estremo sacrificio

E se il profumo dell’Heliconia agita la Parigi dei primi del ‘900, il suo elisir cosparge l’esistenza della musa delle muse: Gala Éluard Dalí. Divina del pittore dei pittori, Salvador Dalí, Gala è dapprima refolo illuminante per il poeta Paul Éluard e in seguito si fa fulgida musa per il re del surrealismo. Salvador Dalí, tutto genio, follia e fragilità si raccoglie in una resa: l’evidenza di un amore assoluto. Assolutismo passionale che si farà antidoto magico di ogni male:

Poteva essere la mia Gradiva (colei che avanza), la mia vittoria, la mia donna. Ma perché questo fosse possibile, bisognava che mi guarisse. E lei mi guarì, grazie alla potenza indomabile e insondabile del suo amore: la profondità di pensiero e la destrezza pratica di questo amore surclassarono i più ambiziosi metodi psicanalitici.

Gala è la musa, la solidità, lo slancio e l’apertura che si faranno meraviglioso balzo in tutto il surrealismo nella grandiosa opera di Dalí. La devozione del pittore spagnolo è tale da rappresentare una forma di insaziabile dipendenza affettiva. Alla morte di Gala, avvenuta nel 1982, l’afflato ispirato dell’artista, la seguirà nella sua fine, dissolvendosi in lei e con lei. Ancora l’effluvio di Heliconia si allunga nell’aura di un’altra figura mitologica da poco scomparsa: Marta Marzotto. L’appuntamento incandescente con il pittore siciliano Renato Guttuso, accade inevitabilmente in una giornata di canicola romana; estate che nel clima e nei colori si farà metafora della loro passione. Lei modella sinuosa, da Vacondio si fa contessa Marzotto per rinascere in una Talia, musa del Thallein, del fiore. E come bocciolo si schiude e scorre nell’opera dell’artista impegnato: il comunista e la contessa. Un amore rovente e contrastato, epifania del batticuore carnale fuori da qualsiasi avveduta sbozzatura.

All’interno di un’affermazione particolarmente abusata, attribuita a Virginia Woolf e riferita al detto latino Dotata animi mulier virum regit (una donna dotata di coraggio sostiene il marito), ossia Dietro ogni grande uomo c’è sempre una grande donna, si azzarda una rivisitazione del caso: Dietro un grande artista, c’è sempre una grande musa. Ispirazione fatta forma femminile, la figura mitologica della musa sfugge la fissità della leggenda per farsi vita pulsante nella creazione artistica. Jeanne, Gala e Marta non figurano come l’oggetto passivo dell’esecuzione artistica quanto soggetto attivo del festeggiamento creativo. La dea ispiratrice, nell’avviarsi a quel percorso infinito, costeggia generi ed epoche diverse. Indugia nella letteratura, si fissa in un ascolto musicale per accomodarsi nel buio di un cinematografo. Elizabeth Craig per Louis-Ferdinand Céline, Pamela Courson per Jim Morrison o ancora Charlotte Gainsbourg per Lars von Trier, sono solo il primo passetto verso la volta infinita occupata dal profumo dell’Heliconia. Ma questo è un altro capitolo, bellissimo e inesauribile.

Alle muse!

  • da L’Intellettuale Dissidente, 14 settembre 2016

Incontri nel cuore della cultura giapponese

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  • da L’Intellettuale Dissidente,  18 novembre 2016

Il nō giapponese rappresenta la forma più antica della cultura teatrale. Si tratta di un dramma lirico che si lega all’Occidente solo nel momento in cui il tratto letterario arriva a farsi più importante. La creazione figura l’onda travolgente che va a circoscriversi nella forma di un cerchio, dove tutto torna dal passato per illuminare il presente e fissare un legame tra Oriente e Occidente. Il nō, in tale cerchio, passa da Ezra Pound a William Butler Yeats che tenta di ammantarlo nella poesia per poi tornare a Yukio Mishima. Un avvicinamento dove l’antico si avvicenda all’istante e, in quel cerchio fecondato dall’onda, tutto si muove come l’attore giapponese: misurato e universale.

Il luogo comune rappresenta una modalità veloce e circoscritta per raccontare un popolo, una nazione e la sua presunta e lapalissiana cultura. Da frettoloso pourparler di piazza, con il tempo, acquista i connotati di un importante archetipo. Alla maniera junghiana diviene una direttiva presente nell’inconscio collettivo. Un’immagine preesistente nella nostra mente, come un’eredità trasmessa prima della venuta al mondo: le idee precedono la nascita. In tale guadagno di importanza, il luogo comune muta in un vincolo grossolano, sintetizzando tutto a quei pochi connotati manifesti appartenenti a una cultura. Nello specifico di una nazione come il Giappone, tra i primi lampi, scorgiamo la fenomenologia del terremoto, la ghiottoneria, fatta moda in occidente, del sushi e la contrapposizione tra una Tokyo futuristica e un universo dai mille templi nella città di Kyoto. Scostandosi lentamente dal limite del parlar facilone, ci si avvicina pian piano al cuore della tradizione di un popolo. Si parte dall’attualità per tornare sino alle radici più profonde. Nel cinema, è un onere, nonché un onore, poter citare uno dei grandi rappresentanti della tradizione giapponese: Akira Kurosawa. Le pellicole del cineasta attraversano i secoli; dal periodo Heian di Rashomon sino ai richiami recenti, per quanto magici, di Sogni. Discendendo ancora un po’ più a fondo nei meandri dei costumi nipponici e sempre più lontani dalla barriera del luogo comune, la memoria letteraria va tutta nell’incontro lirico con Yukio Mishima.

Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! È bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! È il Giappone! È il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo.

Il suo nome, già legato a opere come Confessioni di una maschera, Colori Proibiti, Il padiglione d’oro, Sole e acciaio o La via del samurai, trascina ulteriormente nel cuore della cultura giapponese, fornendo il permesso di trattare una delle più antiche forme di teatro, risalendo sino al XIV secolo: il . Una tradizione di trattati che, per ben cinque secoli, vengono trattenuti nel segreto di una memoria. Tesori che, nei primi del ‘900, riemergono da un remotissimo paesaggio per narrare di un patrimonio legato al Giappone, la cornice pulsante della cultura nel teatro nō. Drammaturgia legata a colui che fu definito “lo Shakespeare giapponese”: Zeami Motokiyo, l’autore, che tra il 1300 e il 1400, figura come il custode di quasi tutto il repertorio nō. Nei paradigmi fissati da Zeami, l’attore gode di una notevole considerazione. Nel muoversi tra i quattro elementi previsti dal teatro, ossia la mimica, la poesia, la danza e la musica, l’artista nella fotografia del palco, svolge una funzione per quanto elitaria, particolarmente sociale. Il nō giapponese rappresenta la forma più antica della cultura teatrale. Si tratta di un dramma lirico che si lega all’occidente solo nel momento in cui il tratto letterario arriva a farsi più importante. Sino a Zeami, il cardine dello spettacolo è nel canto e nella danza e, l’elaborato scritto, resta solo come un supporto dell’attore. Dopo l’arrivo di quello che può essere definito, se non l’iniziatore, ma il primo forziere di tale arte, lo schieramento avviene in favore del testo, poiché egli stesso è autore e poeta di rara fattura.

La rappresentazione del nō attrae nel proprio orizzonte diverse figure: lo shite, che recitando in maschera, disegna colui che presta il corpo alla danza, alla voce e al canto. Considerato il personaggio principale, si fissa nel ruolo in una definizione: “colui che fa, che agisce”. Nell’occupare tutto lo spazio, generalmente la sua interpretazione, è quella più articolata. Il ruolo secondario è individuabile nella figura del waki che sovente veste gli abiti di un monaco. La sua parte evolve nell’essere il primo a fare l’ingresso sulla scena. Narra il percorso che lo ha condotto sino a quel punto della rappresentazione e infine esce per restare nell’immobilità. Fissità che contempla un’unica eccezione: scongiurare la presenza di un demone. Altre figure, tra il tomo e lo tsure, che non vivono un’esistenza drammatica autonoma, rappresentano pressoché dei ciceroni dello shite e del waki. La loro funzione svolge un ruolo importante soprattutto per l’utilizzo della voce, una sottolineatura, una vigorosa marcatura di tutto lo spettacolo. Nonostante il waki, una volta uscito dal palco, rimanga una presenza fissa e immobile, la sua mansione è importante nella misura in cui diviene la fiamma che arde l’universo. Ovvero una pressione che permette l’esistenza dello shite: la fissità di un silenzio conferisce corporeità e ragione agli accadimenti. Le ultime presenze del nō appartengono alla galleria dei kyōgen, coloro che sgravano la rappresentazione mediante una farsa. Disegnano un vero e proprio bisogno dello spettatore, che dopo il pressante impegno psichico domandato da tale dramma, si abbandona finalmente a una comicità più rozza. Un intermezzo tra un nō e l’altro porta gradualmente alla distensione.

Nel teatro la tradizione del nō realizza la dimensione dell’attore inscindibile, completo, compiuto. Molta autorevole regia dell’occidente, dentro nomi quali Eugenio Barba, Gordon Craig e soprattutto Antonin Artaud, prendono dall’oriente proprio l’inclinazione dell’attore al completamento. Rifinitura che non arriva nell’improvvisazione, ma attraverso una severa disciplina di esercizi che abbraccia l’individuo dai sette anni in poi. Sino ai tredici, l’attenzione viene posta sul tratto spontaneo, escludendo comunque quello della mimica. Dai tredici sino ai diciotto, l’interesse include anche l’aspetto vocale, seppur in divenire.

“Quel fiore lì non è il fiore autentico, non è che il fiore di un momento”

Dai diciotto in avanti, l’attore giungendo da una vasta gamma di allenamenti, tende a ripiegarsi e a perdere audacia. Pertanto l’unico allenamento va nel verso di non lasciare il nō. Domandando aiuto alla consapevolezza, a venticinque anni l’impegno inizia a produrre i propri frutti. La parabola ascendente continua sino ai trentacinque. La percezione della sapienza attoriale deve necessariamente provenire anche da una benedizione pubblica. Dai quarantacinque in poi, pur nella cognizione di una consacrazione universale, il fiore può iniziare la sua opera di scomparsa o chiedere l’aiuto di un comprimario. Dunque l’attore del teatro nō, non disegna il genio singolo di tipica ascendenza occidentale o il risultato di qualche anno accademico, al contrario riveste un voto, una vera e propria consacrazione all’arte.

In nome della luce che germoglia da tale figura, accade l’incontro definitivo tra oriente e occidente. Ernest Fenollosa, un orientalista statunitense, nell’’800 decide di farsi allievo di un importante attore nō, Umewaka Minoru, con il fine di tornare in patria e rendere l’Oriente più accessibile all’Occidente. Dopo la sua morte, lascia una pesante mole di scritti sulla cultura giapponese, annotazioni, osservazioni e poesie che la moglie Mary McNeill offre al poeta Ezra Pound:

“Lei sarà la persona che pubblicherà i manoscritti di mio marito”

Nel 1916 Pound pubblica i testi di quindici nō con un’aggiunta, le note di Fenollosa. Quanto le arti e non solo l’attore, offrono la meraviglia della completezza, è dimostrato da un continuo dialogo tra la musica, la danza, la letteratura e il teatro. La creazione figura l’onda travolgente che va a circoscriversi nella forma di un cerchio, dove tutto torna dal passato per illuminare il presente e fissare un legame tra Oriente e Occidente. Un’allegoria convessa, sgombra da durezze, dove tutto diventa altro pur non perdendo la propria identità. Il nō in tal cerchio passa da Ezra Pound a William Butler Yeats che tenta di ammantarlo nella poesia per poi tornare a Yukio Mishima.

Tra il 1950 e il 1955 Yukio Mishima scrive Cinque nō moderni, pièces per continuare a elargire storia e vita a una lunghissima tradizione. La missione dello scrittore si realizza nel fine di rendere più accessibile l’argomento di testi tradizionali e peculiari di una cultura, senza sottrarre il contenuto originale. Se il nō figura la più antica forma di teatro giapponese, è nel mentre verosimile che, nel tempo, si comporti come un considerevole collante di eterogenee modalità di pensiero e vita. Un avvicinamento dove l’antico si avvicenda all’istante e in quel cerchio fecondato dall’onda, tutto si muove come l’attore giapponese: misurato e universale.

“Quando avrete perfettamente capito il principio dell’incanto sottile comprenderete, per ciò stesso, che cosa sia la potenza”.

 

Cultura. La lunga notte degli insonni: Emil M. Cioran e Ingmar Bergman

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http://www.barbadillo.it/50388-cultura-la-lunga-notte-degli-insonni-emil-m-cioran-e-ingmar-bergman/ 9 dicembre 2015

La notte è il tempo magico dell’attesa, la discesa nel sonno e la vita nella sfera onirica. Al suo interno si incunea una sospensione, un altrove, un’oscurità singolare popolata da creature misteriose. È il cielo dei giganti: la foggia di ogni emozione prospera a dismisura sino a divenire un’entità ciclopica. È la volta nera delle ombre minacciose: angosce mutano in afflizioni inconsolabili, amori certi si fanno incerti, speranze perdono consistenza. È il clima asfissiante della “sottonotte”, una dimensione all’interno della notte stessa: il tempo dell’insonnia. Una temporalità presa da creature eccezionali, alchimiste dell’orologio, boicottatrici della lancetta. Mostri notturni che alterano minuti in ore, ore in giorni, giorni in mesi: il tetto dei giganti è un soffitto impressionante e minaccioso. Il tempo dell’insonne è una vetta alpestre priva di ossigeno, una dilatazione oltremodo infinita della durata, un desiderio di luce strozzato nel mai.

Sono le sentinelle costrette alla sorveglianza forzata, esseri condannati alla vista incessante e al girone dello sfiancamento psichico. Sono gli insonni, una sorta di pianeta segreto e segregato dall’abbraccio dannato della notte. Vivono sotto l’egemonia di uno sguardo obbligato a saldare la danza dei fantasmi sulla grande sommità: un rituale ossessivo che si ripete ogni notte. Le ombre prendono vita, a ogni passo brandiscono consistenza e l’insonne inerme può solo agognare la caduta nell’oblio. Il tempo della pena, della tortura, dello stillicidio mentale: la temporalità nemica che affligge, tra gli altri, il filosofo e l’artista dell’aforisma Emil M. Cioran.

Le tre del mattino. Percepisco questo secondo, e poi quest’altro, faccio il bilancio di ogni minuto. Perché tutto questo? – Perché sono nato. È da un tipo speciale di veglia che deriva la messa in discussione della nascita.

Qui le prime note dello scrittore ne L’inconveniente di essere nati: una lettura intima, un testo notturno che evoca il vagare buio della creatura guardinga. Le ore insonni portano alla riflessione obbligata intorno al tema tanto caro a Cioran: il perché della nascita. Aforismi foschi sezionano il tragico, esplorano il dramma della vita e contemplano il suicidio come irripetibile possibilità di esistenza. L’atroce potere che l’individuo possiede nel togliersi la vita, figura paradossalmente, come unica spinta al vivere. Nella capacità di scegliere l’interruzione dell’arco vitale, risiede la libertà di restare. La consapevolezza del male di esistere, non rappresenta il rifiuto della vita, ma un campare più potente: vivere scientemente nonostante il vivere.

Ci sono notti che il più ingegnoso dei carnefici, non avrebbe potuto inventare. Ne esci a pezzi, inebetito, sgomento, senza ricordi né presentimenti, e senza neppure sapere chi sei. Allora il giorno ti pare inutile, la luce perniciosa, e ancora più opprimente delle tenebre.

L’inconveniente di essere nati abbraccia una lettura errante: il peregrinare oscuro dell’insonne. Il poggiarsi da un sentimento all’altro nel ventre di un viaggio caotico alterato dalla veglia inflitta. La vita appare più tollerabile per coloro che riescono a dormire. Il sonno rappresenta una discontinuità, una sospensione dal ricordo che rende l’esistenza possibile e meno tragica. L’insonne auspica l’oblio, la caduta nel sonno per interrompere il fluire incessante della mente nel pensiero. Gli aforismi di Cioran scompongono qualsiasi convinzione. Non distruggono; smantellano per ricreare un terreno fertile alla riflessione illuminata e lucida.

La notte insonne di Cioran è L’ora del lupo in Ingmar Bergman: il regista indagatore dell’inconscio, il mago del volto parlante. La lirica di Bergman avanza per primi piani: un viso è un luogo abitato da contenuti eloquenti. La morsa dell’insonnia passa dal regista al personaggio, Johan Borg – Max von Sydow – in un’ isola svedese popolata da sinistre creature. Le ore di veglia del pittore rendono definitive le nevrosi, tutto prende i colori sfumati del fosco, un bianco e nero smarrito nel torbido dell’incubo. Alma – Liv Ullmann – è lucente possibilità di speranza, tutta nel suo volto. Nell’assenza di ambiguità figura la completezza, il materno ove rifugiarsi, il tempo della luce: un’immagine monumentale al pari della Giovanna D’Arco nel primo piano di Dreyer. Alma è la discontinuità, la frattura nel tempo interminabile dell’insonne. L’ora del lupo ripercorre il perpetuo sospiro dell’abbandono, la scomparsa dei confini tra incubo e realtà, la minaccia di un intelletto che va in frantumi.

Un tempo la notte era fatta per dormire… già, sonni calmi e profondi e svegliarsi poi senza terrori. Da molte sere siamo svegli fino all’alba, ma questa è l’ora peggiore. Sai come si chiama? Il popolo la chiama l’Ora del lupo, è l’ora in cui molta gente muore e molti bambini nascono, è l’ora in cui gli incubi ci assalgono e se restiamo svegli…

È un film tetro, segue l’accadere tortuoso nei meandri della mente: la rottura degli argini del pensiero. I protagonisti sono mostri generati dall’assenza di luce: la vita nell’oscurità è quella delle ossessioni e della memoria ininterrotta che torna solo per devastare. L’ora del lupo partorisce demoni minacciosi.

Le tenebre, nella voce di Alma, sono silenziose sino a farsi rimbombanti: il giorno sembra appartenere a un’altra dimensione. Così Ingmar Bergman:

Le ore peggiori sono quelle del lupo tra le tre e le cinque. Allora arrivano i demoni: l’amarezza, la nausea, la paura, il disgusto, la collera. Non serve soffocarli, s’incattiviscono. Quando gli occhi sono stanchi di leggere, c’è la musica. Chiudo gli occhi e ascolto con concentrazione, lasciando via libera ai demoni: venite pure vi conosco, so come funzionate, continuate finché non vi stancate, io non mi difendo. I demoni infuriano sempre di più, dopo un po’ ogni resistenza cessa e loro diventano ridicoli, allora scompaiono e io mi addormento per qualche ora.

Le ore degli insonni sono dunque momenti in pasto alle fauci di una bestia. Una creatura si muove faticosamente nell’oscurità, non cerca pace, ma trova tormento. L’ora del lupo non è l’insonnia d’amore, non è il collasso del corpo nel sogno surrealista di Dalí, non è lo smaniarsi nella lessinghiana attesa del piacere. È un grande altrove di immagini crepuscolari, un’estensione del sogno che sprofonda nell’incubo. La notte dell’insonne è tutta in quell’agognare il giorno per capitolare nuovamente al cospetto di un tempo ostile.

Cinema. Pietro Germi e Gastone Moschin. Il canto del folle ne Il cinema delle stanze vuote

IL FOGLIO

[…] I luoghi del regista Germi sono regioni, province e piazze che si battezzano in nazione italiana. In Signore&Signori, film del 1965, il territorio è un’ode mortuaria alla provincia veneta. La meschineria si fa luogo, zona, terra. La fiera della vanità nella prima domenica del mese, di vanagloria nella seconda, di sfarzo nella terza e giù sino al termine dell’anno stamburato.

L’opera, divisa in tre episodi, figura l’amaro prequel di Amici miei, diretto successivamente da Monicelli a causa della morte di Pietro Germi l’anno precedente l’uscita del film.

Gli episodi non acquistano importanza per lo sviluppo della pellicola quanto per la mostra dell’empietà che prende l’essere umano tutto.

[…] L’analisi di Germi è spietata senza mai farsi moralista. Gli inquilini del palazzo di piazza Farnese in Un maledetto imbroglio, a distanza di pochi anni, evolvono nei fantocci borghesi della provincia veneta. Sono mossi dal vizio – quello più turpe fine a se stesso – da oziose infedeltà e fatui rituali simulatamente avvincenti. Maschere che tornano a mascherarsi. Non esiste alcuna ricerca di autenticità. La miseria umana è socialmente accolta. Pecunia non olet è il grande credo; il denaro è innanzitutto riparatore: tutto, anche l’azione più raccapricciante, può trovare la salvezza nei quattrini.

Lo sguardo amaro di Germi esplora una profondità che è abisso senza epilogo. La provincia è la terra del nulla. Non si odono suoni fanciulleschi a sedimentare una speranza. L’accadimento è in una singolarità: l’immagine salvifica di Gastone Moschin.

Ne Il cinema delle stanze vuote, nelle pellicole dell’abulia, ricorre un elemento che solidifica l’inclinazione allo scoramento vitale: la figura del folle.

In Signore&Signori giunge un’ improvvisa alterazione al gramo tedio che assilla l’umanità. Nella rivelazione della figura del pazzo, la malinconia passa dal Germi regista al Moschin attore. Sotto lo sguardo giudicante della moglie, Gastone Moschin, il ragionier Osvaldo Bisigato, rappresenta un sepolcro imbiancato. Per vero il ragioniere è il mesto innocente che la macchina da presa immortala nella lettura de Le affinità elettive.

Il ragioniere non è il ragioniere. Il ragioniere non è disposto a calcoli o previsioni. Il ragioniere è in preda a una malinconia dell’assenza che lo rende inquieto sino all’insania. Estro moralmente inaccettabile di una passione d’amore fuori dal matrimonio. Il ragioniere è creatura nuda, un fanciullo alla riscoperta dell’innocenza, trascinato dallo sguardo verso una creatura perturbante: la cassiera Milena in tutto lo splendore di una giovane Virna Lisi.

Il ragioniere è l’urlo sopra la folla degli abietti, l’interruzione del tempo sociale nell’urto genuino di una goffa fuga d’amore. È la voce del Domenico di Tarkovskij che, sulle scale del Campidoglio, dall’opera Nostalghia, porta un’ode al grido:

Quale antenato parla in me/Io non posso vivere contemporaneamente nella mia testa e nel mio corpo/ Per questo non riesco a essere una sola persona/ Sono capace di sentirmi un’infinità di cose contemporaneamente/Il male vero del nostro secolo è che non ci sono più i grandi maestri/La strada del nostro cuore è coperta d’ombra/bisogna ascoltare le voci che sembrano inutili/bisogna che dai cervelli occupati dalle lunghe tubature delle fogne e dai muri delle scuole, dagli asfalti e dalle pratiche assistenziali, entri il ronzio degli insetti/Bisogna riempire gli orecchi e gli occhi di tutti noi di cose che siano all’inizio di un grande sogno/Qualcuno deve gridare che costruiremo le piramidi/Non importa se poi non le costruiremo/Bisogna alimentare il desiderio/Dobbiamo tirare l’anima da tutte le parti come se fosse un lenzuolo dilatabile all’infinito/ Se volete che il mondo vada avanti dobbiamo tenerci per mano/Ci dobbiamo mescolare i cosiddetti sani e i cosiddetti ammalati/Ehi, voi sani, che cosa significa la vostra salute/Tutti gli occhi dell’umanità stanno guardando il burrone dove stiamo tutti precipitando/La libertà non ci serve se voi non avete il coraggio di guardarci in faccia, di mangiare con noi, di bere con noi, di dormire con noi/Sono proprio i cosiddetti sani che hanno portato il mondo sull’orlo della catastrofe.

È il canto del folle, il remoto profeta descritto da Friedrich Nietzsche nell’aforisma 125 de La Gaia Scienza. Con la lanterna accesa, il ragionier Bisigato, vaga per la provincia veneta in cerca di autenticità, trovando infine solamente carestia morale. È colui che mediante una confessata infedeltà, tenta la via del risveglio della coscienza. Tentativo che urta una umanità votata al nichilismo dell’assenza di Dio, dove Dio è assenza di valore morale, spirituale, umano.

Gastone Moschin si muove tra i morti. Dio è morto, la provincia l’ha freddato e Bisigato è il pazzo che nel vuoto vuole risorgere come l’Oltreuomo e recuperare il candore del fanciullo. Ma la terra si fa infausta e il folle d’amore è in anticipo sul tempo. Una stagione inospitale che necessita ancora e ancora del trascorrere dei cicli temporali per poter infine guardare al grande gesto. Il ragioniere scaglia l’amore come il folle getta la lanterna: in frantumi e colmo di rassegnazione, l’uomo torna alla malinconia del vivere. La provincia si ritira nell’ordine e il canto retrocede in diceria.

Germi svela il lato più oscuro dell’umanità, donando al folle malinconico il fuoco della rinascita. Ma le cose sfuggono al pazzo. Nella mancanza di un valido sostegno, la creatura si sgretola in quel corpo che nulla trattiene. La rincorsa all’autentico porta alla frattura: più si avvicina all’umanità, più si allontana da se stesso. Il ragioniere è la lanterna nel buio di Pietro Germi.

  • Da Il cinema delle stanze vuote

Cultura. Giacomo Casanova glorioso antieroe del ‘700 – Über-Marionette felliniana

http://www.barbadillo.it/50003-cultura-giacomo-casanova-glorioso-antieroe-del-700-e-lallegoria-felliniana/30 novembre 2015

Un richiamo brutalmente dirompente attraversa i secoli per divenire, dannunzianamente sparlando, un’opera d’arte. Rievocazioni raccolte nelle Memorie – Mémoires écrits par Lui-Même e Histoire de ma vie – dove l’avventuriero più noto del ‘700, scrive per sottrarsi a un presente vuoto e rivivere un passato epico. Studiato, amato, detestato, riecheggiato, invidiato e compatito, figura come l’immagine più celebre e rappresentativa di un uomo: Giacomo Casanova. Un orgoglioso gaudente che scrive come atto occorrente e definitivo: tornare alla vita e rivolgerle il saluto. Disinvolto nel racconto, non tenta l’abbellimento estetico, non domanda assoluzione morale: offre se stesso spòglio di oziosi eroismi.

Le Mémoires e l’Histoire de ma vie ritraggono una esperienza non tanto letteraria quanto umana: la vita si mette al servizio della scrittura. Tale l’attraversamento dell’assenza di morale come affermazione di una personalità affrancata da vincoli: il solo richiamo è quello della piena dissolutezza. La disonestà verso il prossimo, diviene in Casanova, l’onestà verso se stesso. Respinta è qualsiasi ambizione alla condizione di eroe e al conseguente riconoscimento umano. Un talento epicureo che fagocita indifferentemente donne, azzardo e città. Cavalca freneticamente l’istante, alla maniera di colui che non contempla l’esistenza di un tempo altro dal presente. Un uomo edificato sulle fondamenta di un vuoto. Salottiero e spietato, impermeabile alla compassione, figura come il maschile più rappresentativo della sua epoca. Immagine e nome viaggiano nel tempo, giungono alla contemporaneità e si fanno emblema di un certo voluttuoso vivere.

Dalla lettura dei suoi scritti emerge un individuo che riserva agli altri l’apparenza: probo con se stesso, baro con il prossimo. Si pone all’ascolto della sua natura come l’unica guida fedele. Un potente richiamo ancestrale lo porta lontano da radici e legami. Non esiste alcun essere umano capace di trattenerlo in qualcosa; anche l’amore, all’apparenza più travolgente, esercita minor presa di un’avventura improvvisa. Giacomo Casanova è la disintegrazione di ogni vincolo, la più arcaica lotta ai retaggi, il denudarsi di un individuo che diviene esclusivamente la sua essenza. Non prospera in lui alcuna morale, neppure nella forma più leggera della nostalgia. Gabbare per non esser gabbato, gioca con la vita come con le carte, rischiando per tornare a rischiare, bruciando per tornare a bruciare. Il suo sguardo non cala mai in profondità, segue la prospettiva velleitaria e l’appagamento immediato.

Se da un lato il mariuolo veneziano si costituisce come l’essenza ultima dell’uomo nel nome del piacere, dall’altro è sostanza di un’assenza, creatura abitata dal vuoto. Voragine che nella legittimazione lo ascrive a mito. L’atto del colmare alimenta l’abisso: il circolo vizioso ripiega sul suo medesimo meccanismo. Oltre il non trascurabile dettaglio storico, in tale zona si inserisce la più importante discrepanza con l’immagine del don Giovanni. Casanova nel regalare piacere, porta la consapevolezza della voluttà al mondo femminile: dona e prende senza razziare. Don Giovanni accatasta conquiste sulla spinta di un odio, saccheggia e ferisce sapendo di farlo.

Il Casanova di Federico Fellini

Nella cinematografia, si deve a Federico Fellini il ritratto definitivo e monumentale del seduttore veneziano. Il Casanova di Federico Fellini, pellicola del 1976, interamente girata all’interno del teatro 5 di Cinecittà, descrive un’epoca attraverso una meravigliosa e inquietante galleria di quadri in movimento. Il film è claustrofobico, introspettivo e visivamente galvanizzante. Il regista non ama il personaggio. L’attore, un maestoso Donald Sutherland, patisce la parte. La critica dell’epoca boccia il film in maniera decisiva. Gli scritti di Casanova sono per Fellini solo un’occasione per mettere in scena una figura colossale. Una forma puramente junghiana che al microscopio del regista, presenta una voragine priva di anima, l’immagine più vicina alla marionetta. Fellini intriso di psicologia analitica, ma anche di un accentuato senso religioso, non nasconde il fastidio per l’avventuriero e sembra adoperarlo come opera di condanna di tutte le pulsioni umane.

La pellicola, mediante un cinema pittorico, esibisce impietosa tutti i mali di un uomo incapace di sentire. Nella lettura junghiana/felliniana, Casanova non si fa mai uomo poiché impossibilitato a lasciare l’unica radice della sua vita: l’imago materna. L’ammaliatore settecentesco è dunque una creatura infantile, vive e agisce come un bambino imprigionato nell’ambiente dell’infanzia: il grembo materno. L’incedere nel film, mostra un’assidua ricerca di gratificazione emotiva, proprio alla maniera di un fanciullo che domanda attenzione ai propri genitori. In questa prospettiva Casanova è un essere metafisico alla ricerca della propria completezza. Gli stessi rapporti sessuali si consumano nella totale indifferenza, in una sorta di rituale danza meccanica, accompagnata dal totem/carillon che suona le note di Nino Rota.

Il Casanova felliniano è dunque forma che trova la vita in una dimensione altra, quella metafisica della ÜberMarionette. Tali sono anche gli abitanti della corte di Wurtenberg, il luogo spettrale dove incontra la ÜberMarionette Rosalba, la bambola meccanica. L’incontro di due eleganti fantocci, figura il momento più romantico del film: il ritrovo di due esseri autorizzati ad amare solo in una dimensione sovrumana. L’amore appartiene a mondi altri: si afferma nella sua impossibilità. Casanova ama un’immagine artificiale all’interno di un cosmo inesistente. Tutto il film è teso a sottolineare i due piani: il reale ricostruito con minuzioso artificio e il sogno che transita dal regista al personaggio per giungere allo spettatore.

La storia e le memorie figurano come una sorta di mitobiografia. Il libertino è mito prima di finire sulla pagina: l’inchiostro conferisce eternità alla figura. Nel castello di Dux in Boemia, la scrittura è bisogno primario, antidoto alla fine ineluttabile della carne. In totale assenza di spirito, attingere al ricordo è forma vitale. Federico Fellini, sebbene in dichiarata idiosincrasia, omaggia il libertino con una pellicola tesa a suscitare, al pari dell’opera scritta, sentimenti contrastanti. Mediante una rivisitazione libera, trascina lo spettatore in un altrove ricco di contraddizioni dove l’angoscia si unisce alla tenerezza, l’eros al funereo e il sogno alla realtà. Giacomo Casanova è il fuoco fatuo che non smette di bruciare. Oltrepassa le epoche come un glorioso antieroe del ‘700.