Cinema. Pietro Germi e Gastone Moschin. Il canto del folle ne Il cinema delle stanze vuote

IL FOGLIO

[…] I luoghi del regista Germi sono regioni, province e piazze che si battezzano in nazione italiana. In Signore&Signori, film del 1965, il territorio è un’ode mortuaria alla provincia veneta. La meschineria si fa luogo, zona, terra. La fiera della vanità nella prima domenica del mese, di vanagloria nella seconda, di sfarzo nella terza e giù sino al termine dell’anno stamburato.

L’opera, divisa in tre episodi, figura l’amaro prequel di Amici miei, diretto successivamente da Monicelli a causa della morte di Pietro Germi l’anno precedente l’uscita del film.

Gli episodi non acquistano importanza per lo sviluppo della pellicola quanto per la mostra dell’empietà che prende l’essere umano tutto.

[…] L’analisi di Germi è spietata senza mai farsi moralista. Gli inquilini del palazzo di piazza Farnese in Un maledetto imbroglio, a distanza di pochi anni, evolvono nei fantocci borghesi della provincia veneta. Sono mossi dal vizio – quello più turpe fine a se stesso – da oziose infedeltà e fatui rituali simulatamente avvincenti. Maschere che tornano a mascherarsi. Non esiste alcuna ricerca di autenticità. La miseria umana è socialmente accolta. Pecunia non olet è il grande credo; il denaro è innanzitutto riparatore: tutto, anche l’azione più raccapricciante, può trovare la salvezza nei quattrini.

Lo sguardo amaro di Germi esplora una profondità che è abisso senza epilogo. La provincia è la terra del nulla. Non si odono suoni fanciulleschi a sedimentare una speranza. L’accadimento è in una singolarità: l’immagine salvifica di Gastone Moschin.

Ne Il cinema delle stanze vuote, nelle pellicole dell’abulia, ricorre un elemento che solidifica l’inclinazione allo scoramento vitale: la figura del folle.

In Signore&Signori giunge un’ improvvisa alterazione al gramo tedio che assilla l’umanità. Nella rivelazione della figura del pazzo, la malinconia passa dal Germi regista al Moschin attore. Sotto lo sguardo giudicante della moglie, Gastone Moschin, il ragionier Osvaldo Bisigato, rappresenta un sepolcro imbiancato. Per vero il ragioniere è il mesto innocente che la macchina da presa immortala nella lettura de Le affinità elettive.

Il ragioniere non è il ragioniere. Il ragioniere non è disposto a calcoli o previsioni. Il ragioniere è in preda a una malinconia dell’assenza che lo rende inquieto sino all’insania. Estro moralmente inaccettabile di una passione d’amore fuori dal matrimonio. Il ragioniere è creatura nuda, un fanciullo alla riscoperta dell’innocenza, trascinato dallo sguardo verso una creatura perturbante: la cassiera Milena in tutto lo splendore di una giovane Virna Lisi.

Il ragioniere è l’urlo sopra la folla degli abietti, l’interruzione del tempo sociale nell’urto genuino di una goffa fuga d’amore. È la voce del Domenico di Tarkovskij che, sulle scale del Campidoglio, dall’opera Nostalghia, porta un’ode al grido:

Quale antenato parla in me/Io non posso vivere contemporaneamente nella mia testa e nel mio corpo/ Per questo non riesco a essere una sola persona/ Sono capace di sentirmi un’infinità di cose contemporaneamente/Il male vero del nostro secolo è che non ci sono più i grandi maestri/La strada del nostro cuore è coperta d’ombra/bisogna ascoltare le voci che sembrano inutili/bisogna che dai cervelli occupati dalle lunghe tubature delle fogne e dai muri delle scuole, dagli asfalti e dalle pratiche assistenziali, entri il ronzio degli insetti/Bisogna riempire gli orecchi e gli occhi di tutti noi di cose che siano all’inizio di un grande sogno/Qualcuno deve gridare che costruiremo le piramidi/Non importa se poi non le costruiremo/Bisogna alimentare il desiderio/Dobbiamo tirare l’anima da tutte le parti come se fosse un lenzuolo dilatabile all’infinito/ Se volete che il mondo vada avanti dobbiamo tenerci per mano/Ci dobbiamo mescolare i cosiddetti sani e i cosiddetti ammalati/Ehi, voi sani, che cosa significa la vostra salute/Tutti gli occhi dell’umanità stanno guardando il burrone dove stiamo tutti precipitando/La libertà non ci serve se voi non avete il coraggio di guardarci in faccia, di mangiare con noi, di bere con noi, di dormire con noi/Sono proprio i cosiddetti sani che hanno portato il mondo sull’orlo della catastrofe.

È il canto del folle, il remoto profeta descritto da Friedrich Nietzsche nell’aforisma 125 de La Gaia Scienza. Con la lanterna accesa, il ragionier Bisigato, vaga per la provincia veneta in cerca di autenticità, trovando infine solamente carestia morale. È colui che mediante una confessata infedeltà, tenta la via del risveglio della coscienza. Tentativo che urta una umanità votata al nichilismo dell’assenza di Dio, dove Dio è assenza di valore morale, spirituale, umano.

Gastone Moschin si muove tra i morti. Dio è morto, la provincia l’ha freddato e Bisigato è il pazzo che nel vuoto vuole risorgere come l’Oltreuomo e recuperare il candore del fanciullo. Ma la terra si fa infausta e il folle d’amore è in anticipo sul tempo. Una stagione inospitale che necessita ancora e ancora del trascorrere dei cicli temporali per poter infine guardare al grande gesto. Il ragioniere scaglia l’amore come il folle getta la lanterna: in frantumi e colmo di rassegnazione, l’uomo torna alla malinconia del vivere. La provincia si ritira nell’ordine e il canto retrocede in diceria.

Germi svela il lato più oscuro dell’umanità, donando al folle malinconico il fuoco della rinascita. Ma le cose sfuggono al pazzo. Nella mancanza di un valido sostegno, la creatura si sgretola in quel corpo che nulla trattiene. La rincorsa all’autentico porta alla frattura: più si avvicina all’umanità, più si allontana da se stesso. Il ragioniere è la lanterna nel buio di Pietro Germi.

  • Da Il cinema delle stanze vuote

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