Paul Léautaud – Un ritratto

Accade che una vasta sorgente di verde accolga il fiore della poesia nel busto di Charles Baudelaire. Succede che quel rigoglio di sentieri dilati la sua vegetazione per porre l’ascolto alla musica suggerita dal busto di Beethoven. Capita che quello stesso giardino di trentacinque ettari si distenda per ospitare il generoso incedere di un piccolo uomo con indosso due cappotti e delle grandi scarpe teatrali. E accade che quell’uomo sia Paul Léautaud, lo scrittore che consuma la sua vita tra i castagneti parigini del Luxembourg e la sua giungla personale di Fontanay-aux-Roses.

Dopo il lavoro al Mercure e prima del rientro a Fontanay, Paul Léautaud sospende il tempo presso il jardin per salvare un gatto dal freddo, un cane dalla fame, un animale da un uomo. E allora questo ami et protecteur des chats et des animaux, giunge tra i passaggi fioriti per vedere germogliare ancora una volta la vita.

Paul Léautaud è lo scrittore che frequenta la scuola della purezza. E cosa significa essere uno scrittore puro? Vuol dire ignorare la compiacenza, disinteressarsi della critica, scrivere senza pensare alla pubblicazione.

Scrivo solo per me, non ho la minima certezza di essere letto un giorno. Probabilmente non sarò più vivo. Quindi sono assolutamente sincero.

Non esiste alcuna dilazione tra lo scrittore e l’uomo: qui l’uomo è la scrittura e la scrittura è l’uomo. L’essere libero, franco fino alla spietatezza, onesto nello sguardo che si fa inchiostro e poi parola. Léautaud è un realistico corrispondente della vita: registra la realtà che si consuma davanti al suo sguardo per poi riferirla alla chiamata della pagina. L’autore non indugia sulla alterazione dei fatti, non è interessato all’esito, dunque non scrive per fare colpo sul lettore. La libertà è un valore che riporta nella scrittura, l’onestà è il solco che segue e persegue la sua penna. Una letteratura onesta che giunge diretta sino a farsi brusca perché la franchezza frequenta gli spigoli, le punte aguzze, gli aculei. L’autenticità è scomoda ma Paul non può fare a meno di incalzarla realizzando la grande fusione tra la scrittura e l’uomo.

Bisogna scrivere ciò che si è visto, ciò che si è inteso, ciò che si è provato, ciò che si è vissuto.

Con la sua andatura curiosa, Paul lambisce le strade parigine: il flâneur si perde nel grembo della città, l’unico ventre caldo capace di accoglierlo. Perché se Parigi è l’eterna presenza, la figura materna è l’eterna assenza. Paul nasce nel 1872 al 37 di rue Molière nel I arrondissement di Parigi, dall’unione tra Firmin Léautaud e Jeanne Forestier. Il 1872 è un anno bisestile: a Giverny in Normandia Claude-Oscar Monet realizza Impression, soleil levant; in Italia il Vesuvio vive un’importante eruzione; negli Stati Uniti apre il Parco Nazionale di Yellowstone e Parigi vede la nascita di uno dei più importanti autori del Novecento francese: Paul Léautaud.

Firmin Léautaud, impenitente seduttore, lavora come suggeritore presso la Comédie-Française. Jeanne Forestier è un’attrice teatrale. Paul cresce tra l’indifferenza paterna e le cure di maman Pezè, la domestica del padre. Abbandonato a cinque giorni dalla nascita, il piccolo Léautaud non conosce l’amore materno. Nel corso della sua vita incontra la madre solo quattro volte. Il ruolo che riveste la figura di Jeanne Forestier è quello della grande assente. Assenza che orienta tutta l’esistenza di Lèautaud, tanto da condurlo a una vita sentimentale recisa e manchevole, come se una sorta di epitaffio sul cuore recitasse che si ama come si è stati amati. Lo scrittore costruisce relazioni soprattutto con donne più grandi, sovente dedite alla prostituzione e mai particolarmente belle. Legami edificati sul rapporto carnale, dove il sesso rappresenta l’unico modo di amare: la carnalità si sostituisce al cuore, non c’è spazio per afflati trascendentali fuori dal corpo. L’unico turbamento che coinvolge lo scrittore è quello che sente per gli animali, stimati come dei veri amici.

E proprio in materia di diritti degli animali, Léautaud può essere considerato, non a torto, un importante precursore: già nel 1937 si schiera apertamente contro la vivisezione, battendosi in seguito contro la corrida e soprattutto contro la caccia. Finanche i villeggianti non passano indenni sotto la scure delle sue invettive, considerati esseri frivoli poiché colpevoli di sacrificare le bestie al capriccio della villeggiatura. Spende parole al vetriolo anche contro lo sfruttamento degli animali nel circo. Nel corso degli anni la sua casa di Fontenay-aux-Roses offre alloggio a più di trecento gatti, almeno centocinquanta cani, un’oca e Guenette, la scimmia salvata da un circo. Il narratore parigino dispone il suo mondo dalla parte degli animali, anteponendo i loro bisogni ai suoi. In tal modo stabilisce una grande distanza tra sé e gli uomini. La sua capacità di amare abbraccia appieno solo l’universo animale, tanto da considerare cani e gatti come delle personcine. Se proprio deve confrontarsi con degli esseri umani, predilige frequentazioni moralmente riprovevoli.

Spesso un furfante è un uomo superiore, a disagio in mezzo ai nostri pregiudizi.

Le grandi assenze si consegnano all’epidermide, narrano un profumo, reclamano un sapore, necessitano della costruzione di un ricordo che non esiste. Le grandi assenze vivono la forza che diserta la presenza, descrivono delle presenze archetipiche che custodiscono l’autorità di un lutto e il potere di una nascita. Le grandi assenze sono bellezze dolorose inguainate da tendaggi scuri, vale a dire oscuri.

Presenze dal sapore acre prosperano sino a diventare delle ossessioni. Accade con gli affetti mancati come con quelli perduti. Abbandonato dalla madre a pochi giorni dalla nascita, Léautaud matura per questa tenerezza mancata una vera e propria fissazione. Come scrittore autobiografico, porterà la figura materna in molti dei suoi scritti: da Petit ami a Lettre à ma mére. Nonostante l’abbandono, Jeanne Forestier svolge un ruolo importante tra Paul e la scrittura: è lei stessa a muoverlo al romanzo.

Se fossi in te, scriverei un romanzo sulla tua vita. È un tema fecondo, e a svolgerlo bene potresti fare la tua fortuna solo con quello. Non ci hai mai pensato?

Léautaud vive ogni istante tra l’urgenza della scrittura e il bisogno di ravvivare quel passato privo di amore per farne infine letteratura.

Le piace Proust? Con Isabella Cesarini alla ricerca della Sagan

Di  Emanuele Beluffi 28/10/2024

Il nuovo libro di Isabella CesariniLe piace Proust? (uscito per 96, rue de-La-Fontaine), è un’opera che intreccia la biografia immaginaria e il memoir, dando voce all’intensa vita della scrittrice francese Françoise Sagan. Riprendendo la struttura di un diario interiore e confidenziale, il romanzo è un affresco della Parigi del dopoguerra e della vivace scena culturale che Sagan ha frequentato, omaggiando, al contempo, le fonti letterarie che l’hanno ispirata. Attraverso l’immaginario intimo di Sagan, Cesarini offre uno sguardo ravvicinato su una delle figure più affascinanti della letteratura del XX secolo.

A partire dal titolo, Cesarini gioca con il parallelismo fra Sagan e Marcel Proust: il riferimento a Le piace Brahms? si trasforma qui in una domanda sull’autore che più ha influenzato il suo pensiero. Marcel Proust, l’artefice della Recherche, è infatti una figura chiave nella vita di Sagan, al punto che in vita rinunciò al cognome paterno Quoirez in favore di Sagan, riprendendo il nome della principessa che appare fugacemente nel capolavoro proustiano. Nella costruzione della memoria proustiana, Cesarini riscopre l’importanza di un vissuto di “corpo e carne”: un corpo segnato dal tempo ma desiderante, attraverso la scrittura.

Il basso continuo del memoir è la passione per la parola. E quella che, per mutuare un’espressione che anni e anni fa durante un ciclo di lezioni all’Università degli Studi di Milano incentrate sulle idee sensibili soprattutto in relazione a Marcel Proust e Maurice Merleau-Ponty, il prof. Mauro Carbone chiamava “idea sensibile” o “essenza carnale”. Lo possiamo riscontrare in questo passo di Cesarini/Sagan:

Ho sempre immaginato le donne capaci di scrivere come coloro che hanno esplorato intimamente la propria carne […]. Il piacere come la costruzione della frase bella sovrintende a quell’orgasmo che per un istante rende immortali”

Situata nel suo maniero in Normandia e consapevole dell’ineluttabilità della fine, Sagan ripercorre la sua vita fuori dagli schemi e i volti che l’hanno segnata, alternando i ricordi con riflessioni letterarie e sentimentali. Amici illustri come Jean-Paul Sartre e Bernard Frank, compagni di battaglia culturale come Florence Malraux e Jean Seberg, amori complessi e travagliati come quelli con Guy Schoeller, Peggy Roche e Ingrid Méchoulam si materializzano nelle pagine come tasselli di una vita vissuta con intensità, sospesa tra la passione e la ricerca continua del significato.

Con uno stile intimo ma volutamente costruito, Cesarini rende omaggio a un personaggio che è stato simbolo di un’estetica dell’eccesso, porremmo dire, magari dannunziana in senso lato: una “charmant petit monstre”, come la definivano, ma anche una donna e un’artista che ha il diritto di essere ricordata per il suo contributo letterario e, perché no, per quelli che coloro-che-ben-pensano di ieri e di oggi chiamano gli eccessi.

Isabella Cesarini riesce a costruire un’opera che fonde l’erudizione con la narrativa, e Le piace Proust? si impone come un omaggio intellettuale e poetico a una figura complessa. Dopo aver esplorato la figura di Clarice Lispector e analizzato anime inquiete e mitiche del cinema, l’autrice romana aggiunge un ulteriore tassello al suo percorso. La sua capacità di dare vita a personaggi in bilico tra realtà e finzione è chiara, così come l’intento di far riflettere il lettore sull’importanza della memoria e della scrittura come “ultima ragione di vita”, come dice la stessa Sagan.

Il libro, accompagnato da un contributo inedito di Pasquale Panella, offre una lettura coinvolgente e non si limita a essere una semplice biografia romanzata, ma si sviluppa come una vera e propria esplorazione emotiva e culturale. Le piace Proust? è un’opera destinata a chiunque desideri immergersi nella nostalgia e nei ricordi di un’epoca ormai passata, ma ancora vivissima nella mente e nella penna di una scrittrice che, come Sagan, non ha mai smesso di cercare l’infinito in ogni piccolo suono.

Arriva in libreria “Le piace Proust?”

«Quest’ora in cui il sole si fa timido e va a nascondersi dietro gli alberi di Breuil è l’ora in cui tutto si riavvolge, l’ora in cui, volgendo lo sguardo ai caffè di Boulevard Saint-Michel e a quei trentadue giorni occorsi per scrivere Bonjour tristesse, tutto si calma per congedarsi nel tempo che lascerò qui».

Ci siamo quasi: esce il 30 ottobre per 96, rue de-La-Fontaine Le piace Proust? il romanzo biografico, memoir immaginario di Françoise Sagan, che mutua il titolo dal suo quarto romanzo (Le piace Brahms?) e porta in sé il nome della sua più grande fonte d’ispirazione: Marcel Proust, figura tanto importante da indurla a rinunciare al cognome paterno, Quoirez, in favore di quello della principessa Sagan, uno dei personaggi più evanescenti della Recherche. Filo conduttore dell’opera è proprio la memoria, che ricollega costantemente l’autrice al suo maestro putativo e che si fa spesso carnale, sollecitata da un corpo disfatto che rammenta i sussulti della carne giovane: è la sua mano, ancora in grado di imbracciare una penna e «cadere bramosa davanti all’invasione delle parole», a donarle ancora una ragione per continuare a respirare.

A pochi mesi dalla morte e confinata nel suo maniero in Normandia, la scrittrice ripercorre dunque la propria vita sopra le righe – tanto spiata e dibattuta, con suo gran disappunto, forse più della sua opera – e crea un affresco della Francia del dopoguerra, ricordando una dopo l’altra le persone che per lei sono state importanti: gli amici, da Bernard Frank a Jean-Paul Sartre, da Florence Malraux a Jacques Chazote, da Juliette Gréco a Jean Seberg con la sua tragica storia; e poi gli amori, dai due matrimoni (il primo con Guy Schoeller e il secondo con Bob Westhoff) al grandissimo legame con Peggy Roche e a quello, molto discusso, con Ingrid Méchoulam. Infine, una commossa lettera d’addio al figlio Denis Westhoff diviene epitome di tutta l’opera e la personalità di questo charmant petit monstre: un’anima inquieta e gaudente, prolifica quanto eccessiva, che ha vissuto di scrittura e rumore e adesso, stanca di una vita che non può più godere appieno, rivendica i propri meriti letterari agli occhi dell’“ingrata” terra natia, prima di posare per l’ultima volta la penna.

Introduce il testo uno scritto inedito di Pasquale Panella.

Bombe zuccherate a Covent Garden

Covent Garden” di RobertWitcher è sotto licenza CC BY 2.0.

Sono una molle fanciulla con un cappello rosso di velluto carminio. La signora è un’anziana signora inglese. Vende cappelli a Covent Garden. No, meglio: crea cappelli da vendere a Covent Garden. Sembra di essere a Parigi. Bethany osserva guardinga i turisti. È chiaro che non le piacciono. Io non sono una turista. Mangio cibo inglese e non cerco ristoranti italiani. «Non sai da quanti anni vendo cappelli a Covent Garden! Non li vendo mica a chiunque. Sono io a scegliere il cliente e non il contrario. Da giovane facevo la mannequin. Ho girato il mondo». Rimpiange la giovinezza volata nell’ultimo défilé. Guarda la pelle increspata delle sue mani e sente di non avere più lo stesso odore. La giovinezza conserva un odore speciale. Sa di biscotti caldi, di mare del Nord, di centrini e bombe zuccherate di Fregene. Io so riconoscere un cappello eccezionale. Non scatto fotografie al cambio della guardia. Non mi interessa Buckingham Palace. Ascolto gli oratori di Hyde Park, io! Non capisco nulla. Capisco che mi piace ascoltarli. Vive in una vecchia soffitta a Tooting Broadway. Non tiene armadi. Forse un loft. Forse una stamberga. Chissà quanto costano i suoi cappelli. Tanto. Decide che si può vendere un cappello di velluto rosso carminio a una molle fanciulla con l’orizzonte rivolto allo speaker corner. È un gran bel cappello teatrale. Va in scena intonso dopo venti anni, quasi ventotto. Un piccolo teatro di paese. Una grande insegna. Che grande attore Aldo Fabrizi. Non tutta la frase. Solo “Aldo Fabrizi” è l’insegna. Mi rammenta la camminata di mia nonna. Quando insegue Totò. Mia nonna camminava come Aldo Fabrizi correva dietro a Totò. Pasciuti e ancheggianti. Non sono portata per la recitazione. Dice tutti possono recitare. Tutti tranne me. Dice studia il metodo Stanislavskij. No, non mi immedesimo. Così si dice? Va beh, non mi calo nel personaggio. Non sento come lui. Chi lo conosce! Mi inabisso senza immedesimarmi. Non nel personaggio, certo. In me medesima. Il cappello fa quello che io non sono capace di indossare. Fa scena. E in scena bisogna fare scena.

Il silenzio, la scrittura, la bellezza: in una parola Clarice Lispector

Dobbiamo a Isabella Cesarini, autrice e saggista, la possibilità di conoscere una scrittrice, Clarice Lispector, che pur essendo una delle più grandi voci del 900 letterario, è con ogni probabilità sconosciuta al grande pubblico (pur essendo stata pubblicata da editori come Feltrinelli, Mondadori e Adelphi e sapendo che per grande pubblico intendiamo il piccolo pubblico dei consumatori di quei prodotti editoriali chiamati libri).

Il libro di Isabella Cesarini è Con la parola vengo al mondo (Tuga Edizioni, 2021, 122 pagine,16 euro) e si tratta di un’utilissima guida ai profani. Ma non è una guida nel senso usuale del termine: l’autrice unisce l’utile al dilettevole, la storia con l’avventura (intellettuale).

Clarice Lispector nasce in Ucraina nel 1920 e vive e muore a Rio de Janeiro nel 1977. Scrittrice, saggista, giornalista e traduttrice, la produzione letteraria della Lispector è refrattaria alla categorizzazione per generi. Del resto, come spiega Isabella Cesarini, la trama, la classica trama, nel caso della Lispectorè la cornice che inquadra il flusso di coscienza, anzi di linguaggio.

E’ invece facile isolare alcuni temi: il silenziola donnala bellezzal’infanzia. Forse in una parola: la vita. Come afferma l’autrice, Clarice Lispector scrive per eleggere un nuovo lessico: il linguaggio del silenzio”. Non solo: “Madre, figlia, amante, moglie, la figura della donna nell’opera di Clarice Lispector si colloca dentro un mistero”. La donna è un mistero come la scrittura, non si rivela mai completamente. Come la bellezza, che altro non è se non mancanza: “il vuoto lasciato è il gesto in cui la bellezza si manifesta, esattamente come fa la morte con la vita.

Proust parlava di “essenza carnale” per riferirsi a quelle idee, pensieri, sentimenti, emozioni che non riusciamo a inquadrare, a “vestire”. La stessa cosa pare si possa dire in riferimento alla produzione letteraria della Lispector e come sempre ci viene in soccorso proprio Isabella Cesarini, quando scrive che “La parola di Clarice è carnale quanto le creature narrate, sempre impegnate ad allontanarsi dal pensiero per poter vivere infine solo nei sensi”. Infatti La nausea di Sarte è diversa dalla nausea della Lispector: quella di Roquentin, il protagonista del romanzo filosofico (o l’alter ego di Sartre?) è una nausea mentale, astratta, non giunge alla carne, resta in una dimensione immateriale. Mentre “Clarice Lispector è corpo della parola carnale che torna nel grembo a ogni fine periodo, fine racconto, fine romanzo”. Ma in comune c’è il concetto di epifania, di svelamento indotto da un’esperienza, dalla visione di qualche cosa o da un evento particolare: torna il concetto di essenza carnale, torna la “cosalità” di Sartre e torna pure il Joyce di Gente di Dublino.

Ma non si pensi a una vita di depressione quando si pensa alla vita di Clarice Lispector, dal momento che “la scrittrice vive l’esaltazione dell’esistenza, una passione che giunge direttamente dalla voce del corpo”. E’ evidente che è centrale il concetto di carnalità della parola.

Il libro della Cesarini è fondamentale per iniziare a fare la conoscenza di questa ovattata scrittrice: ce ne illustra dapprima la vita, quindi la cala in una dimensione concreta (carnale!) e poi ci accompagna passo passo all’approfondimento di singole opere, non senza un’utile bibliografia finale. Impossibile, alla fine, non decidere di andare in libreria (o ordinare su Amazon……) il nostro primo libro della Lispector, con cui iniziare questo viaggio.

  • Emanuele Beluffi, IlGiornaleOFF, 12 maggio 2021

Con la parola vengo al mondo. Bellezza e scrittura di Clarice Lispector

L’ultimo libro della scrittrice e saggista Isabella Cesarini da poco uscito per Tuga Edizioni, è un viaggio appassionato nella “Bellezza e scrittura di Clarice Lispector”, somma scrittrice brasiliana del Novecento. La Cesarini penetra nell’opera di Clarice in punta di piedi come si usa con un nostro maestro cui portiamo devozione. Con il suo stile di scrittura raffinato e piano al contempo la Cesarini ci spiega ogni segreto di Clarice partendo dalla biografia, via via entrando nella “parola bella” che si fa corpo e anima nelle straordinarie pagine della Lispector.

Si esce edotti dalla lettura sia entrandovi da principianti digiuni di Clarice sia già amanti dei suoi libri. La Cesarini ama infatti l’oggetto del suo dire e il libro è la prova che non è sempre vero che simpatizzare per un autore non sia buon “metodo” di critica.

Isabella Cesarini riesce ad entrare nell’essenza della scrittura di Clarice, arrivando a una simbiosi con essa, tanto che leggendo distrattamente si potrebbe non capire la differenza tra la lingua della brasiliana e quella della sua critica italiana. Dolce sovrapposizione che conduce il lettore ad apprendere e deliziarsi ancor di più.

“Con la parola vengo al mondo” è consigliato a tutti.

Buona lettura!

  • Patrizio Minnucci, Gente comune, 16 maggio 2021

Confessioni di un cantore a cavallo sul crinale dell’Appennino tosco-emiliano: Giovanni Lindo Ferretti

Piazza – Giovanni Lindo Ferretti” by Comune di Reggio Nell’Emilia is licensed under CC BY-NC-ND 2.0.

Da un viaggio dello scorso luglio ne parte un altro, metaforico quanto reale, in compagnia di un ospite di eccezione: Giovanni Lindo Ferretti. È un fosco pomeriggio estivo, assorta dal clima, mi trovo a San Pietroburgo all’interno della cattedrale dei Santi Pietro e Paolo. Come un’ombra, frastornata dal brusio di gruppi turistici, mi aggiro tra le tombe monumentali di marmo bianco tra i resti degli zar Romanov. Una curiosa sensazione di vuoto mi guida direttamente al cospetto e poi all’ascolto di un coro russo. Infine il silenzio, lo stesso che inaspettatamente mi riporta alla mia piccola realtà, tanto angusta da contenere ciononostante schiere di dubbi. La prima riflessione va tutta nel verso di una mancanza, nello specifico di una sorta di imperativo – negli anni fatto sin troppo mio – di “beniana” memoria: “Siamo quel che ci manca. Da per sempre”.

Accade che si trovi quantomeno curioso sistemare l’immagine di Carmelo Bene nel bel mezzo di una fortezza russa, senza neanche esser sfiorati dall’idea di Dostoevskij. Ma è proprio il sentimento della distanza a portarmi nel suolo delle associazioni libere. Distanza come manchevolezza che si fa richiedente, poiché il vuoto spesso recalcitra e si incapriccia su domande e richieste. Si manifesta come una fame che lascia fluire dimensioni incompiute e trascinamenti improvvisi. La volta di San Pietroburgo è ancora torbida e il mio baléno squarcia il cielo nel nome di colui che nella mia prima adolescenza, si rende latore di inquietudine, musica e provocazione. Lo stesso, ora è qui in suolo russo, in rilievo sulla mia tela di dubbi. Nell’irresolutezza torno in Italia e il “cantore a cavallo sul crinale dell’Appennino tosco-emiliano”, nel vezzo di questa mia definizione, resta mestamente insieme alla mia incompletezza. Termina il tempo del viaggio e la forza delle associazioni improvvise perde la sua veemenza. Ma quel nome, che dalla giovinezza mi porto prima a San Pietroburgo e poi tra gli spigoli della mia casa, continua a tornare.

Giovanni Lindo Ferretti, effigie delle mie giovani scorribande, simbolo musicale del grande e unico vero punk rock italiano degli anni ’80, continua a indugiare sul mio capo. Dopo aver seguito, seppur da lontano, la sua opera equestre SAGA, Il canto dei canti, comprendo infine il verso che mi spinge a contattarlo. La preoccupazione e in seguito l’auspicio ricadono sulla modalità di una conversazione, dialogo che abbiamo provato a stabilire e fecondare da una distanza solo spaziale. Studio una serie di domande, sono tante e devo rispettare il limite per non fare di un articolo un libro. All’anelato arrivo delle risposte, tutto prende a muoversi; le mie domande perdono l’aspetto formale e si disperdono nella conversazione. La mia casa si mette a perdere qualche spigolo. Nelle prime parole di Giovanni Lindo Ferretti, si scioglie la prima brina di conoscenza tra Roma e Cerreto Alpi:

Della difficoltà di trasformare un’intervista con domande e risposte scritte in un conversare. La conversazione si modifica, nel farsi, per empatia. Salta avanti, indietro a lato, ha una propria forza oggettiva. Deve essere un piacere. Quando ho letto la lettera, le domande, ho pensato: bene, bello. Sarà interessante. La quotidianità ha rimandato da un giorno all’altro il momento della scrittura, ora è arrivato. Il 30 novembre. Un incontro di lavoro, inimmaginabile due settimane fa, a cui prima controvoglia poi sempre più con interesse e coinvolgimento, mi sono dovuto preparare. Può nascerne una progettualità che modificherebbe l’operare della Fondazione, del teatro barbarico, del nostro vivere quotidiano. Tutta la nostra storia, sei anni di libera Compagnia di uomini, cavalli e montagne non è che un continuo reagire alle difficoltà, all’imprevisto. L’attenzione all’accadere, lo sguardo allertato, sostengono la consapevolezza che la nostra sopravvivenza è a rischio e il rischio va affrontato. Oggi, I° dicembre, comincio a preparare l’intervento che presenterò il 15 a Roma. Non c’è niente da inventare si tratta di fare ordine, sistematizzare e rendere comunicabile, forse condivisibile, un segmento di vita vissuta che inizia su un palcoscenico avanguardista e si ritrova, oltre 30 anni dopo, in una stalla, tra una frana e un viadotto, a custodire e salvaguardare un sapere arcaico, un paesaggio storico e geografico. Un’idea antropologica di civiltà. E, ringrazio il Cielo, non vorrei essere che qui, in questa incerta ora. Ci sono sempre mille cose da fare con un vecchio zio in casa (90 anni compiuti bene) venti cavalli nella stalla e cinque cani, tutto l’indotto lavorativo, economico, culturale e sociale che li sostiene e ci concede una forma austera e primitiva di sopravvivenza. Intorno due piccoli paesi, due comunità con le loro dinamiche, e l’inverno che sta arrivando. Una febbre stagionale è venuta in soccorso, porta un carico di malessere fisiologico che mi impedisce al lavoro e mi concede lunghe ore al caldo, tra la stufa incandescente e una finestra volta al tramonto. Poche giornate praticamente provvidenziali, il leggero svanimento galleggiante, da febbre alta contenuta da farmaci, può aiutarmi nel compito di riordino e composizione. Almeno lo spero.

La prima impressione è certamente di sospensione, di qualcosa che vive origini molto lontane, di lavoro, di vita vera, il tutto scevro da ogni vano ingarbuglio mentale. Groviglio che non mi passa dal pensiero e si distende con un po’ di pudore, nell’affrontare le prime domande. Solo una sottolineatura: dal vuoto sacrale di San Pietroburgo, alla “mancanza” di Carmelo Bene, giungo all’idea e all’uomo Giovanni Lindo Ferretti per il tramite di un’immagine di completezza che rappresenta nella mia mente. Questioni si accorpano insieme per dar filo, luogo ed empatia a questa conversazione.

Quanto la consapevolezza di una mancanza si fa tensione verso la volontà di un possibile completamento o, al contrario quanto effettivamente si cristallizzi nell’accettazione? E nell’accettazione o nella tensione, il suo percorso di vita lo legherebbe più all’immagine di una linea retta o alla figura di un cerchio, associabile a un eterno ritorno: dalle scuole cattoliche sino al rientro nella propria comunità dove si è in parte cresciuti, allontanati e infine riaccolti?

Che io possa rappresentare “un’idea di completezza” mi fa sorridere e mi mette di buon umore. Io sono una parzialità fatta persona che rivendica i propri limiti: montano, italico, cattolico romano. Barbarico, extraurbano. Sono successe molte cose nella mia vita e la memoria seleziona i ricordi funzionali ad un nuovo equilibrio vitale che a volte stenta, vacilla, tra necessità, oblio, e senso dell’accadere. La sua esperienza nella cattedrale dei Santi Pietro e Paolo mi offre il giusto spiraglio. La prima volta che sono entrato in una chiesa ortodossa ero un giovane universitario in viaggio verso la Grecia. In Jugoslavia, oggi Serbia. È stato il buio, il profumo di incenso, sono state le candele a mazzi e la gestualità rituale dei fedeli a segnalarmi una mancanza, subito rimossa, nel mio vivere quotidiano. La stessa sensazione ma amplificata, da stordirmi, dieci anni dopo nell’URSS appena prima del crollo. Un fermento germinale nell’ombra, da catacomba già risalita in superficie e in attesa di spalancare le sue sante porte. Ma sono state le solenni celebrazioni nella riedificata basilica del Cristo Salvatore a Mosca, nella Russia post sovietica, a farmi comprendere oltre ogni ragionevole dubbio che la mancanza del senso del sacro, dell’eterno, come dimensione sociale pubblica, sarebbe risultata nel breve termine un enorme problema sempre più insolubile. Un intero mondo si struttura in funzione della fine della Storia, vanificando la geografia, in un orizzonte di libertà virtuale. Una bolla, fluttuante in tabula rasa, determinata dalla finanza. Auguri.

Nel canto liturgico degli Ortodossi la potenza del Regno dei Cieli, separato ma contiguo all’esperienza quotidiana, si manifesta nel suo splendore. Tremore e timore. Legame. Fuoriesce dalla dimensione più carnale del maschile, impasto di bassi profondi. Viscere su viscere. L’entrata del coro femminile, centellinata con parsimonia, corrisponde all’irruzione del divino: cristallina purezza e alterità. La femminilità è la componente del divino meno considerata eppure è al femminile che è concesso il dono di generare. Bisognerà pur farsene ragione. L’impoverimento dell’esperienza liturgica, che l’Ortodossia comincia ad evidenziare come vera e propria mancanza, denota lo scadere della dimensione religiosa alla sola componente morale. Buoni sentimenti che aspirano alla perfezione in spazio intimo, impalpabile, avulso dal reale in cui il male vive e spesso regna. Ma il male vive anche dentro di noi, intorno a noi, ne siamo impastati. La liturgia lo contiene e lo combatte. È lo spazio del sacro in cui il bene è sovrano e grazie al rito perdona, purifica, rigenera, fortifica. La riduzione della liturgia alla sola parola, nel protestantesimo, e il suo repentino affievolirsi nel mondo cattolico, puntellata qua e là da sacerdoti santi che celebrano in comunione di santità il mistero divino, e da monaci e monache oranti nel servizio divino, da che mi è stata evidente, ha contribuito a mutare poi consolidare, sempre più profondamente, il mio sguardo sul mondo (esiste una sconfitta pari al venire corroso che non ho scelto io ma è dell’epoca in cui vivo). Il pensiero politico sociale della mia maturità, piccolo parziale non autosufficiente ma per niente debole, scaturisce anche da questa mancanza ingombrante. (Per quello che ho visto, per quello che ho sentito, per sconcertante necessità).

L’altra “mancanza” da cui, una volta evidenziata, tutto consegue, riguarda me nello specifico e una quota largamente minoritaria dell’umanità. Montanari, allevatori, pastori. Quest’anno ho lavorato con due giovani fotografe ad una ricerca sulla pastorizia, di ieri e di oggi. Mentre preparavamo la mostra ho riordinato pensieri molto pensati in poche frasi semplici e lineari. Valgono una vita. Siamo la prima generazione cresciuta sui banchi di scuola e invecchiata al riparo dalle intemperie. Senza animali, senza greggi, lontano dai pascoli. La maggior parte di noi l’ha vissuta come liberazione, affrancamento da un destino ingrato. Qualcuno, pochi, come quotidiana mancanza. Una servitù senza nome in casa d’altri. Non nell’archetipo, non nel simbolico, che solo a posteriori possono risultare significativi, ma nell’accadere, nel principio di contingenza. Nel mutare economico e sociale e nel farvi fronte. Bimbo arcaico, adolescente inquieto, giovanotto molto moderno inchiodato ad un ruolo prorompente, da un lato e dall’altro una mancanza che solo a posteriori, risolta, risulterà evidente. Non una linea retta, nemmeno la chiusura del cerchio, piuttosto il segmento di una spirale. Nello stesso spazio, lo stesso orizzonte, in un tempo altro e in altro modo.

Pensa che per trovare un equilibrio sia necessario perderlo? O ancora per trovare una dimensione è necessario infrangerla? Ovvero, solo distruggendo qualcosa dentro o fuori di noi (e il fuori è sempre un dentro) si è poi in grado di costruire? Senza un danno non accadono edificazioni? O possono avvenire indipendentemente da un elemento distruttivo? L’uomo deve necessariamente subire una scossa per offrirsi alla realizzazione del sé?

Nello scombussolare di prospettive e posizionamenti propri della giovinezza e di una indole personale accentuata, ho posto un freno all’errare cercando e trovando i cavalli. Stabilirmi nel ritorno, pacificare lo sguardo, la risalita alle terre alte dell’infanzia, è stato un lungo viaggio, a volte snervante. Mai pensato di tornare indietro, mai riuscito ad accelerare i tempi. In fondo alla Mongolia ho avuto la certezza del mio ritorno a casa ma ho dovuto guadagnarmi la libertà del pensiero politico e personale nella Jugoslavia frantumata dalle guerre. Sopra ogni cosa e nel giusto momento ho dovuto dedicare a mia madre gli anni della sua malattia. Esserle insieme figlio e padre. Lasciarci avvolgere e rigenerare dal maternale. Non avevamo potuto permettercelo, a suo tempo, travolti dalla disgrazia. Gettati nel mucchio e arrangiarsi. Una vita a salvare e riannodare fili invisibili. Tra un prima spezzato, non più componibile, e la speranza di un poi sempre più lontano e indefinibile. Finché il poi è arrivato e noi c’eravamo.

Ho comprato una cavallina, giovane e selvatica, poi risultata gravida, con i pochi soldi divisi alla fine dei CCCP. Mentre crollava il Muro di Berlino e l’URSS implodeva scoprivo una gestualità e un sapere di cui non ero consapevole. Genetico. Un gesto fatto a caso mi riportava allo stesso gesto fatto da qualcuno nella mia infanzia. Comparivano di colpo facce e corpi, tonalità e modi di dire, atteggiamenti. (Come fare non fare quando dove perché e ricordando). Da solo, sui monti con i cavalli, ogni giorno cresceva la mia compagnia. I morti sono indispensabili ai vivi. Sono aiuto e conforto. Ora ne sono certo: la democrazia o contempla i morti e i non ancora nati o diventa una dittatura della maggioranza. Le strade della libertà sono strette e disciplinate.

Per Carl Gustav Jung che diversamente da Freud contempla l’anima nei suoi studi, il cavallo, oltre la rappresentazione di un archetipo, figura come l’aspetto intuitivo della natura umana. Per lei cosa rappresenta nella vita e nella “Cerimonia del sé”? Le due cose, la vita e la cerimonia, nell’immagine del cavallo, sono indissolubili?

Su e giù per i crinali, in un paesaggio appena abbandonato dagli uomini e dagli animali domestici. Ancora camminabile e godibile, residuale di colture e cultura. Un prorompente inselvatichire lo faceva vibrare nel profondo punteggiandone la superficie. Vivevo in uno stato di leggera trance. Più contemporaneo ai miei vecchi, e a ritroso fino ai longobardi del millennio precedente, che ai miei estimatori e ai compaesani di oggi. Erano i cavalli, la loro presenza, la loro vicinanza a rendere possibile una vitalità che glorificava il mistero della vita. Niente in tutta l’esperienza di giovane moderno, né nella sua dimensione rivoltosa né in quella accomodante, aveva lo stesso impatto, permetteva tale coinvolgimento. Cinque anni di liceo non valevano l’attesa e la nascita del primo puledro. Quattro anni di università stentavano fronte alla doma dei primi cavalli. Tutta l’esperienza politica giovanile, assemblee e manifestazioni, idee e tensioni, svanivano nei pomeriggi a pascolare animali, allevare pensieri, tra terra e cielo nell’attesa della sera. Lentamente, avanti e indietro tra il contemporaneo e l’eterno finché l’eterno, nella forma del tradizionale, ha cominciato a selezionare, dividere e accorpare, ordinare. Rimediando i danni possibili e ricercando opportunità realistiche. (Tra ciò che abbiamo distrutto e ciò che non ci toccherà).

Il pensiero che aveva sostenuto l’acquisto del primo cavallo era semplice, fiducioso. I pochi ma significativi viaggi nel Maghreb, nel deserto, le città dell’Algeria, del Marocco. L’Europa. Parigi, Amsterdam, Berlino. Poco mondo latino e più mondo slavo. Le canzoni, i concerti, i dischi. Gli incontri. Lo straordinario era perfetto, non avrei saputo né potuto aspirare di meglio o altro. Era l’ordinario ad essere insoddisfacente. Una scansione del quotidiano sempre più insostenibile. Vanificata ogni dimensione naturale della giornata, il ciclo stagionale. Luce/buio, caldo/freddo, e gli intermedi. Inesistente la dimensione comunitaria. La differenza e la compassione. La libertà come dimensione generazionale: stessa età, gusti simili, comportamenti e aspirazioni omologati. In un tempo artificiale, illuminato/ riscaldato/ refrigerato tendente all’asettico anche quando sporco e zozzo. La musica unica pulsione vitale. Il generazionale come disagio sociale. Sì certo, anche bello ma un po’ limitato, limitativo. Doveva pur esserci dell’altro. Avere un cavallo avrebbe potuto scardinare l’artificiosità del mio vivere. Allontanarmi dalla città. Mi avrebbe portato in dono l’alba e obbligato al riposo notturno. Le stagioni, il tepore della stalla d’inverno e i pascoli estivi. Mi stavo perdendo qualcosa forse troppo e i cavalli, l’immagine più potente del mio immaginario arcaico e infantile, potevano essere il giusto tramite per avventurarmi in altro spazio e magari in altro tempo. Sono passati quasi trent’anni, non mi hanno mai deluso. Mi hanno rapito ed offerto uno spazio che se non eterno è storico e geografico. Continuo a pagare in preoccupazioni, fatiche, soldi, il prezzo del riscatto dal contemporaneo ma non vorrei essere che qui, in questa incerta ora.

.

In merito al fatto di aver citato Jung, lei pensa che la fede possa convivere con la psicanalisi, o l’una esclude l’altra?

La fede può convivere con tutto ciò che è dell’uomo. Nel caso, più che escludere, vanifica l’insostenibile ed ingloba il restante. Può convivere con tutto ma non in tutti. Ad ognuno il suo. Tutto ha una propria ragion d’essere, trova riscontro nel Creatore, a cui compete il giudizio.

Qual è il primo libro di Papa Benedetto VXI che ha letto e cosa l’ha spinta a continuare nelle sue letture? Cosa ha trovato e conservato di Joseph Ratzinger?

Papa Benedetto XVI è, nella mia vita, un punto saldo. Segna un prima e un poi. Continua ad essere, nei suoi scritti, una scoperta. Copiosa fonte. Immagine rassicurante e consolante. La sua persona, la sua storia ecclesiastica. Un clamoroso inatteso gesto di rinuncia. Ne risulta, credo, un vero e proprio cambio di paradigma nella storia della Chiesa.

Il cattolicesimo ha dato concretezza al suo idealismo?

Il cattolicesimo in cui sono stato allevato ed educato e a cui sono tornato è molto concreto, pratica la devozione, necessita del rito. È la tradizione. Due millenni di storia e cultura. Quanto di più lontano da un idealismo che tendo ad assimilare al protestantesimo e alla modernità.

La donna nel suo libro Reduce è la fotografia di una donna forte. Non nell’accezione contemporanea di indipendenza, ma quasi di femminea virilità. Come vi fosse una lirica della custode del focolare. Mostra in tal senso quasi la distruzione di un cliché dove la donna smette di rappresentare la dolcezza, la fragilità, finanche l’abnegazione, in favore di una creatura bella nella forza.

Sono cresciuto tra donne forti e belle, ho sempre frequentato donne belle e forti. La prima descrizione delle nostre terre e dei nostri avi ce la fornisce lo storico greco Diodoro Siculo, al seguito delle legioni romane, “in queste angustie hanno la partecipazione delle donne abituate al pari degli uomini “. Non so d’altro, se esiste avrà il suo perché, non mi interessa.

I suoi affetti e amici, dal Ferretti dei CCCP a oggi, sono gli stessi? Qualcuno l’ha perso proprio in virtù del suo percorso?

Esistevo anche prima della mia pubblica immagine. Gli amici dell’infanzia, dell’adolescenza, sono passati indenni attraverso l’età del palcoscenico. Qualche amicizia risale a quegli anni. Molti sono i conoscenti, anche buoni conoscenti, tra il prima il durante e il dopo, ma gli amici sono pochi. Molto pochi e preziosi.

Un film, una canzone, un libro, una preghiera.

Giusto un mese fa mettendoci l’impegno necessario ho preparato una lista per Padre Maurizio. Cinque libri, cinque canzoni, cinque film, cinque poesie o brani. Lavoro molto gravoso, il discernere con giudizio. L’ho fatto perché me l’ha chiesto e a Lui obbedisco. Qui mi astengo. Recito il Pater Ave Gloria Requiem, De profundis e Miserere. Canto il Salve Regina e le litanie. Sono le stesse preghiere dei miei vecchi, le ho imparate da bimbo e ritrovate da grande. Di mio ho aggiunto Vieni Santo Spirito e una preghiera della tradizione copta: Re della Pace. Se sono confuso dagli accadimenti ecclesiastici, capita, recito il Credo, la professione di fede. A volte lo recito perché già nel senso/significato sta il piacere della parola, dizione, scansione.

  • da L’intellettuale dissidente, 6 dicembre 2016

La solidarietà un tanto al chilo

Oggigiorno la solidarietà la vendono ovunque. Dal panettiere la trovi nel filone salato, dentro una ciriola e persino nella schiacciatina. Gli ingredienti non cambiano, muta la grandezza. La solidarietà la trovi pure dal sarto, un soprabito nero di solidarietà per i più solidali. Però puoi prenderti una gonna di taffetà e fratellanza oppure una blusa di seta e comunanza. Il mondo eccede in mostra di solidarietà. Insomma, la cronaca abbonda di umanità disumana nonostante la solidarietà sia un fiume in piena. E devi essere solidale con le donne! Quali? Le madri? Le single? Le zitelle? Insomma serve un bugiardino che dica quale pillola solidale prendere al momento giusto. Non importa, l’imperativo è la solidarietà anche con l’essere più distante. Nessuno prova niente per nessuno. Nondimeno è necessario manifestare in pubblico la contrizione per il malcapitato di turno. Ma la solidarietà è come la timidezza, dunque un’altezza posta nel respiro intimo di un battito silenzioso. La solidarietà non rumoreggia, lei.

Jeanne, Gala e Marta sul monte Elicona

Heliconia Wagneriana

Da mito, la musa prende a vivere dentro l’opera d’arte: sovrumanità inscindibilmente legata all’artista. È la presa invisibile che brandisce il pennello del pittore, l’inchiostro penetrale che sospinge la penna dello scrittore. La spinta lavica dove il maschio artistico si fa madre, amante, amica in un imbracciare la femminilità che solo una dea ispiratrice può generare.

È il profumo dell’Heliconia a farsi sentinella di ogni opera d’arte. Il nome del fiore giunge prontamente dal monte Eliconia, luogo reso illustre dalla mitologia greca sulle muse: nove figure, figlie di Zeus e Mnemosine, denominate Eliconie nella Teogonia di Esiodo. Anticamente avvolte nell’arte della musica, guadagnano solennità nel tempo come custodi del grande gesto artistico.  Attraversano lo spazio e il tempo in un perpetuo mutamento che, da seducente scrigno di arte, si fa volta d’ispirazione per numerosi artisti. Non modelli vuoti da ritrarre, ma femmine di Zefiro che nel soffio fecondano non una, ma molteplici Flora botticelliane in figure maschili. La musa, da mito prende vita dentro l’opera d’arte: sovrumanità indissolubilmente legata all’artista. È la presa invisibile che brandisce il pennello del pittore, l’inchiostro penetrale che sospinge la penna dello scrittore. La spinta lavica dove il maschio artistico si fa madre, amante, amica in un imbracciare la femminilità che solo una dea ispiratrice può generare.

Calliope, Clio, Urania e le altre muse riemergono nel ‘900 nelle monumentali figure di Jeanne Hèbuterne, Elena Ivanovna Diakonova (Gala) e Marta Marzotto. Jeanne Hèbuterne interpretta i molteplici volti della disgraziata vita del pittore Amedeo Modigliani. Con l’appellativo “noix de coco” per i lunghi capelli e un volto che tratteggia la perfezione, Jeanne rappresenta la creatura che s’immola all’arte; una vocazione alla morte nella morsa di un mandato artistico tutto di Modì. Modì che è altresì maudit e, ancora, l’incontro con la musa Jeanne rappresenta l’esuberanza amorosa in assenza di argini. Noix de coco è l’empito creativo, la madre, l’amante e colei che nella morte dell’amato trova l’unico accomodamento alla vita attraverso la fine. Amedeo Modigliani muore il 24 gennaio 1920 di meningite tubercolotica. Jeanne Hèbuterne , al nono mese di gravidanza, rifiuta un’esistenza vuota di Modì, lanciandosi da una finestra. Un volo che è feroce distacco e struggente ricongiungimento in quell’altrove che solo l’artista riesce a intende. Il pittore e la musa, la morte e la vita, l’eccesso e la quiete, riuniti in seno a un’infinita e infausta opera d’arte. Per volere dei familiari della Hébuterne, del tutto contrari alla relazione vissuta con Modigliani, Jeanne viene tumulata nel museo parigino di Bagneaux. Solo nel 1930, i resti vengono posti accanto al suo Dedo nel cimitero di Père Lachaise. La struggente passione di Jeanne per Modì è tutta dentro la solennità di un epitaffio:

Devota compagna sino all’estremo sacrificio

E se il profumo dell’Heliconia agita la Parigi dei primi del ‘900, il suo elisir cosparge l’esistenza della musa delle muse: Gala Éluard Dalí. Divina del pittore dei pittori, Salvador Dalí, Gala è dapprima refolo illuminante per il poeta Paul Éluard e in seguito si fa fulgida musa per il re del Surrealismo. Salvador Dalí, tutto genio, follia e fragilità, si raccoglie in una resa: l’evidenza di un amore assoluto. Assolutismo passionale che si farà antidoto magico di ogni male:

Poteva essere la mia Gradiva (colei che avanza), la mia vittoria, la mia donna. Ma perché questo fosse possibile, bisognava che mi guarisse. E lei mi guarì, grazie alla potenza indomabile e insondabile del suo amore: la profondità di pensiero e la destrezza pratica di questo amore surclassarono i più ambiziosi metodi psicanalitici.

Gala è la musa, la solidità, lo slancio e l’apertura; la devozione del pittore spagnolo è tale da rappresentare una forma di curiosa dipendenza affettiva. Alla morte di Gala, avvenuta nel 1982, l’afflato ispirato dell’artista, la seguirà nella sua fine, dissolvendosi in lei e con lei.

Ancora l’effluvio di Heliconia si allunga nell’aura di un’altra figura mitologica scomparsa da poco: Marta Marzotto. L’appuntamento incandescente con il pittore siciliano Renato Guttuso, accade inevitabilmente in una giornata di canicola romana; estate che nel clima e nei colori si farà metafora della loro passione. Lei modella sinuosa, da Vacondio si fa contessa Marzotto per rinascere in una Talia, musa del Thallein. E come bocciolo si schiude nell’opera dell’artista impegnato: il comunista e la contessa. Un amore rovente e contrastato, epifania del batticuore carnale fuori da qualsiasi sbozzatura.

All’interno di un’affermazione particolarmente abusata, attribuita a Virginia Woolf e riferita al detto latino Dotata animi mulier virum regit (una donna dotata di coraggio sostiene il marito), ossia Dietro ogni grande uomo c’è sempre una grande donna, si azzarda una rivisitazione del caso: non dietro, ma accanto a un grande artista c’è sempre una grande musa. Ispirazione fatta forma femminile, la figura mitologica della musa elude l’immutabilità della leggenda per farsi vita vibrante nella creazione artistica. Jeanne, Gala e Marta non descrivono l’oggetto passivo dell’esecuzione artistica quanto il soggetto attivo del festeggiamento creativo. La dea ispiratrice, nell’avviarsi a quel percorso infinito, costeggia generi ed epoche diverse. Indugia nella letteratura, si fissa in un ascolto musicale per accomodarsi nel buio di un cinematografo. Elizabeth Craig per Louis-Ferdinand Céline, Pamela Courson per Jim Morrison o ancora Charlotte Gainsbourg per Lars von Trier, sono solo il primo adagio verso la volta infinita occupata dal profumo dell’Heliconia. Ma questo è un altro capitolo, bellissimo e inesauribile.

Alle muse!

Lou Andreas Salomé: “La bestia bionda” di Nietzsche

Avatar di isabellacesariniIsabella Cesarini

2975146773_26fa9abbf4 “Lou-Andreas Salome” by Confetta is licensed under CC BY-NC-SA 2.0

Fosti il sublime che mi ha benedetto.

E diventasti l’abisso che mi ha inghiottito.

(R.M. Rilke, 1910)

Incantevole esemplare di mantide intellettuale. Affastella liason per demolire uomini e resuscitarli nelle loro opere. Collezionista seriale di noti artisti e filosofi, lambisce conoscenza, brandendo sapere dalle carni maschili. Predatrice culturale, pianta al suo passaggio un campo di cuori malridotti. Un’aristocratica russa con un imperativo indosso: divenire se stessa. Transita nell’animo maschile alla maniera di un percorso precedentemente tracciato che porti a compimento la sua volontà di realizzazione. Capace di ammaliare qualunque creatura, un Casanova in fine gonnella, abdica a una seduzione specificamente femminile per divenire l’Übermensch nietzschiano, l’oltreuomo. Questo e molto altro è Lou Andreas Salomé (San Pietroburgo 1861 – Gottinga 1937), edace femme fatale che, nel sovvertimento di valori e tradizioni, forgia se stessa dentro l’immagine di un’archetipica…

View original post 376 altre parole