Proiezioni di una psiche pop: Andy Warhol

Figlio disilluso della grande madre società, vive con forte senso critico un apparato nel quale si accomoda per eccellere. La sua analisi, in un’ambivalenza mai celata, subisce gli effetti di un’ironia salvifica. Ed è proprio attraverso tale supporto che la critica alla collettività, in Warhol, si sposta su toni elusivi e spesso incerti. 

Uno degli artisti più dibattuti del ‘900, colui che converte i fatali quindici minuti di celebrità, spettanti a ogni essere umano, in una vita intera, la sua. La notorietà, dentro una frenesia tutta artistica, si avviluppa insieme al suo creatore in un mito vivente. Divo dell’arte, alimenta la propria fama nell’atto di deificare altre divinità: Andy Warhol, artista completo e complesso, sovrano di un movimento che ha sede nella Pop Art. La corrente nasce negli Stai Uniti intorno alla metà degli anni ’50, celebra l’appuntamento tra l’arte e l’oggetto consumistico festeggiato dai mass media. Oltre i nomi di Claes Oldenburg, Tom Wesselmann, James Rosenquist, Roy Lichtenstein, troneggia su tutti quello di Andy Warhol. La sua immagine interpreta, anche per delle peculiarità estetiche – dumb blond – la fotografia dell’evanescenza.

«Recentemente alcune aziende si sono mostrate interessate a comprare la mia “aura”. Non volevano i miei prodotti, non facevano che dirmi: “Vogliamo la tua aura”. Non ho mai capito cosa volessero. Ma erano disposti a pagare un sacco di soldi. Ho pensato allora che se qualcuno era disposto a tirare fuori tanti soldi avrei dovuto cercare di capire cosa fosse. Penso che l’aura sia qualcosa che solo gli altri possono vedere, e ne vedono solo quel tanto che vogliono vedere. Sta negli occhi altrui». Il rimando di una percezione; qualcuno che è nel proprio tempo, ma lo indaga da lontano: un’assenza presente. Nella singolarità di essersi attribuito un nome e nella farsesca discrezione nei rapporti con la stampa, risiedono le importanti contraddizioni di colui che domanda luce nell’atto di eclissarsi: la commedia di apparire a sua insaputa. Un’andatura colmata da numerosi scritti, aforismi, pensieri e due libri autobiografici. Incline al presenzialismo mondano, sovente per vezzo, si lascia surrogare da un sosia. Episodio che contempla persino l’occasione del galà per il suo primo film come regista: The Chelsea Girls. Il riconoscimento per Warhol va nel verso di considerevoli innovazioni. Con Warhol, l’immagine dell’artista, cessa di essere quella di un bohémien di ascendenza maudit con l’anima e il cuore dentro l’atto creativo. Al contrario, indossa gli abiti del business man. L’arte non è necessariamente associata alla tela di una malagiata soffitta parigina o newyorchese. La creazione, dal primo afflato di una pennellata, sino all’ultimo marchio di una compravendita, non si dissocia dall’inevitabile circuito monetario. Warhol sdazia la fotografia dell’artista indigente e maledetto in favore di un creatore danaroso, e sì, ancora dannato. È pensabile dipingere nella difficoltà di una piccola stamberga o in un fosco seminterrato, ma, qualora possibile, perché non farlo da un elegante loft di Manhattan?

«I soldi sono per me il momento. I soldi sono il mio umore». La più rilevante innovazione è nei soggetti della sua arte. La star, mediante il tocco fotografico o serigrafico di Warhol, entra di diritto nell’eternità. Uno spazio accessibile con i caratteri del sociale, un’altezza non solo vagheggiata, ma di fatto conseguibile. La notorietà perde la solennità e si accomoda nei salotti della popolarità. Poco importa se in questa New York del trapasso tra gli anni ’50 e ’60, l’estetica commerciale venga discussa come disdicevole. Warhol è troppo nell’empirico per un adeguamento alla corrente dell’Espressionismo Astratto del periodo. Marilyn Monroe rappresenta il grande magnete del suo lavoro. Diva tra le dive, bella tra le belle, si fissa sull’eminenza della Pop Art come il modello principe: l’attrice veste l’abito “warholiano” dello spirito, sì eterno, ma raggiungibile. «Talvolta penso che la bellezza estrema dovrebbe essere assolutamente priva di humor. Poi penso a Marilyn Monroe: le migliori battute erano le sue. Avrebbe potuto essere divertentissima, se solo avesse trovato il posto giusto nel mondo della commedia». Marilyn è anche proiezione, proiezione di Warhol: ambedue dal nulla al tutto, dall’indigenza alla celebrità. La diva figura lo scatto della donna con il fardello indosso: dall’infanzia complessa sino all’ascesa di icona erotica; il desiderio dell’umanità è biondo. Vicino, il trono di un altro divo che si fascia nel medesimo percorso: Elvis Presley. Andy, Marilyn ed Elvis esprimono il tanto decantato sogno americano. L’America – dove Warhol giunge a diciotto anni – è quel posto dove tutto può accadere. E accade che il camionista Presley evolve nell’icona capace di scatenare scene di isteria collettiva, la bambina Norma Jeane Baker incede prima in Marilyn e poi nel desiderio di una intera Nazione. Warhol li consegna all’eternità, un’eternità accessibile; li umanizza nell’oltremondano. Da un lato descrivono i simboli di uno Stato e dall’altro, quello più intimo, disegnano la proiezione di una psiche, figlia di un immigrato minatore, che percorre le stesse strade impervie. L’elemento che permette all’artista newyorkese una visione diversa e paradossalmente più acuta, è lo sguardo lontano di chi non nasce a New York. La Grande Mela diviene nella sua mente un curioso oggetto di osservazione, una sorta di prodotto da investire nel ventre fervido della sua arte. Le origini slovacche decidono il suo sguardo sul mondo, quello di un fanciullo al cospetto delle prime sollecitazioni di un cosmo fatato. Un flâneur a stelle e strisce per il quale il passeggio è già creazione.  Il rinnovamento in Warhol è anche nel gesto di una grande mutazione: trasformare un’antinomia dell’arte in oggetto d’arte. Se un bene di consumo disegna il prodotto più lontano dall’opera, Warhol lo sveste del fattore avverso, trainandolo difilato all’interno dell’atto creativo.

«Io amo tutti i movimenti di liberazione perché dopo la liberazione le cose da mistiche si trasformano in comprensibili e noiose, e allora nessuno si sente più tagliato fuori se non prende parte a ciò che sta accadendo» È la minuziosa attenzione al reale a permettere un capovolgimento dell’accadere. Simbolica l’operazione compiuta sulla scatola di minestra Campbell: l’oggetto prettamente consumistico finisce insieme a Marilyn, Liz ed Elvis nell’Olimpo degli dei. Warhol si cala nel Bronx con il solo fine dell’ascesa in una dimensione che non domandi divisioni di classe o quartiere. Nel suo lungo cammino dentro l’arte, alcune serigrafie, occupano un posto di particolare rilievo; in modo traslato si volgono alla morte. La suggeriscono senza nominarla; così la sedia elettrica e i diversi ritratti – tredici – di pericolosi ricercati dalla legge. Warhol, ritraendo suggestioni che evocano la fine, si mette in condizione di conoscerla. «È incredibile quanta gente appende nella propria camera da letto un quadro raffigurante la sedia elettrica, soprattutto quando i colori del dipinto sono uguali a quelli delle tende». Un artista completo, sollecitato da Marilyn, approdato a Mao e giunto sino ai Rolling Stones. Tuttavia, il “dumb blond” non dimentica l’opera dei grandi maestri. Il Rinascimento feconda nel re della Pop Art, la rivisitazione di alcuni baluardi del periodo: San Giorgio e il drago di Paolo Uccello, l’Annunciazione e l’Ultima cena di Leonardo da Vinci. Andy Warhol è pensabile come una sorta di timoniere che attraversa la realtà con tutto il suo peso e giunge a una dimensione ultraterrena nel paradosso del commerciale e consumistico: l’arte è un congegno in grado di segnare e nel mentre svegliare la coscienza sociale. Un pop apparato che spalanca gli occhi di tutti su tutto. «Guadagnare denaro è arte; lavorare è arte; e fare affari è l’arte per eccellenza».

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