Paul Léautaud – Un ritratto

Accade che una vasta sorgente di verde accolga il fiore della poesia nel busto di Charles Baudelaire. Succede che quel rigoglio di sentieri dilati la sua vegetazione per porre l’ascolto alla musica suggerita dal busto di Beethoven. Capita che quello stesso giardino di trentacinque ettari si distenda per ospitare il generoso incedere di un piccolo uomo con indosso due cappotti e delle grandi scarpe teatrali. E accade che quell’uomo sia Paul Léautaud, lo scrittore che consuma la sua vita tra i castagneti parigini del Luxembourg e la sua giungla personale di Fontanay-aux-Roses.

Dopo il lavoro al Mercure e prima del rientro a Fontanay, Paul Léautaud sospende il tempo presso il jardin per salvare un gatto dal freddo, un cane dalla fame, un animale da un uomo. E allora questo ami et protecteur des chats et des animaux, giunge tra i passaggi fioriti per vedere germogliare ancora una volta la vita.

Paul Léautaud è lo scrittore che frequenta la scuola della purezza. E cosa significa essere uno scrittore puro? Vuol dire ignorare la compiacenza, disinteressarsi della critica, scrivere senza pensare alla pubblicazione.

Scrivo solo per me, non ho la minima certezza di essere letto un giorno. Probabilmente non sarò più vivo. Quindi sono assolutamente sincero.

Non esiste alcuna dilazione tra lo scrittore e l’uomo: qui l’uomo è la scrittura e la scrittura è l’uomo. L’essere libero, franco fino alla spietatezza, onesto nello sguardo che si fa inchiostro e poi parola. Léautaud è un realistico corrispondente della vita: registra la realtà che si consuma davanti al suo sguardo per poi riferirla alla chiamata della pagina. L’autore non indugia sulla alterazione dei fatti, non è interessato all’esito, dunque non scrive per fare colpo sul lettore. La libertà è un valore che riporta nella scrittura, l’onestà è il solco che segue e persegue la sua penna. Una letteratura onesta che giunge diretta sino a farsi brusca perché la franchezza frequenta gli spigoli, le punte aguzze, gli aculei. L’autenticità è scomoda ma Paul non può fare a meno di incalzarla realizzando la grande fusione tra la scrittura e l’uomo.

Bisogna scrivere ciò che si è visto, ciò che si è inteso, ciò che si è provato, ciò che si è vissuto.

Con la sua andatura curiosa, Paul lambisce le strade parigine: il flâneur si perde nel grembo della città, l’unico ventre caldo capace di accoglierlo. Perché se Parigi è l’eterna presenza, la figura materna è l’eterna assenza. Paul nasce nel 1872 al 37 di rue Molière nel I arrondissement di Parigi, dall’unione tra Firmin Léautaud e Jeanne Forestier. Il 1872 è un anno bisestile: a Giverny in Normandia Claude-Oscar Monet realizza Impression, soleil levant; in Italia il Vesuvio vive un’importante eruzione; negli Stati Uniti apre il Parco Nazionale di Yellowstone e Parigi vede la nascita di uno dei più importanti autori del Novecento francese: Paul Léautaud.

Firmin Léautaud, impenitente seduttore, lavora come suggeritore presso la Comédie-Française. Jeanne Forestier è un’attrice teatrale. Paul cresce tra l’indifferenza paterna e le cure di maman Pezè, la domestica del padre. Abbandonato a cinque giorni dalla nascita, il piccolo Léautaud non conosce l’amore materno. Nel corso della sua vita incontra la madre solo quattro volte. Il ruolo che riveste la figura di Jeanne Forestier è quello della grande assente. Assenza che orienta tutta l’esistenza di Lèautaud, tanto da condurlo a una vita sentimentale recisa e manchevole, come se una sorta di epitaffio sul cuore recitasse che si ama come si è stati amati. Lo scrittore costruisce relazioni soprattutto con donne più grandi, sovente dedite alla prostituzione e mai particolarmente belle. Legami edificati sul rapporto carnale, dove il sesso rappresenta l’unico modo di amare: la carnalità si sostituisce al cuore, non c’è spazio per afflati trascendentali fuori dal corpo. L’unico turbamento che coinvolge lo scrittore è quello che sente per gli animali, stimati come dei veri amici.

E proprio in materia di diritti degli animali, Léautaud può essere considerato, non a torto, un importante precursore: già nel 1937 si schiera apertamente contro la vivisezione, battendosi in seguito contro la corrida e soprattutto contro la caccia. Finanche i villeggianti non passano indenni sotto la scure delle sue invettive, considerati esseri frivoli poiché colpevoli di sacrificare le bestie al capriccio della villeggiatura. Spende parole al vetriolo anche contro lo sfruttamento degli animali nel circo. Nel corso degli anni la sua casa di Fontenay-aux-Roses offre alloggio a più di trecento gatti, almeno centocinquanta cani, un’oca e Guenette, la scimmia salvata da un circo. Il narratore parigino dispone il suo mondo dalla parte degli animali, anteponendo i loro bisogni ai suoi. In tal modo stabilisce una grande distanza tra sé e gli uomini. La sua capacità di amare abbraccia appieno solo l’universo animale, tanto da considerare cani e gatti come delle personcine. Se proprio deve confrontarsi con degli esseri umani, predilige frequentazioni moralmente riprovevoli.

Spesso un furfante è un uomo superiore, a disagio in mezzo ai nostri pregiudizi.

Le grandi assenze si consegnano all’epidermide, narrano un profumo, reclamano un sapore, necessitano della costruzione di un ricordo che non esiste. Le grandi assenze vivono la forza che diserta la presenza, descrivono delle presenze archetipiche che custodiscono l’autorità di un lutto e il potere di una nascita. Le grandi assenze sono bellezze dolorose inguainate da tendaggi scuri, vale a dire oscuri.

Presenze dal sapore acre prosperano sino a diventare delle ossessioni. Accade con gli affetti mancati come con quelli perduti. Abbandonato dalla madre a pochi giorni dalla nascita, Léautaud matura per questa tenerezza mancata una vera e propria fissazione. Come scrittore autobiografico, porterà la figura materna in molti dei suoi scritti: da Petit ami a Lettre à ma mére. Nonostante l’abbandono, Jeanne Forestier svolge un ruolo importante tra Paul e la scrittura: è lei stessa a muoverlo al romanzo.

Se fossi in te, scriverei un romanzo sulla tua vita. È un tema fecondo, e a svolgerlo bene potresti fare la tua fortuna solo con quello. Non ci hai mai pensato?

Léautaud vive ogni istante tra l’urgenza della scrittura e il bisogno di ravvivare quel passato privo di amore per farne infine letteratura.

Il silenzio, la scrittura, la bellezza: in una parola Clarice Lispector

Dobbiamo a Isabella Cesarini, autrice e saggista, la possibilità di conoscere una scrittrice, Clarice Lispector, che pur essendo una delle più grandi voci del 900 letterario, è con ogni probabilità sconosciuta al grande pubblico (pur essendo stata pubblicata da editori come Feltrinelli, Mondadori e Adelphi e sapendo che per grande pubblico intendiamo il piccolo pubblico dei consumatori di quei prodotti editoriali chiamati libri).

Il libro di Isabella Cesarini è Con la parola vengo al mondo (Tuga Edizioni, 2021, 122 pagine,16 euro) e si tratta di un’utilissima guida ai profani. Ma non è una guida nel senso usuale del termine: l’autrice unisce l’utile al dilettevole, la storia con l’avventura (intellettuale).

Clarice Lispector nasce in Ucraina nel 1920 e vive e muore a Rio de Janeiro nel 1977. Scrittrice, saggista, giornalista e traduttrice, la produzione letteraria della Lispector è refrattaria alla categorizzazione per generi. Del resto, come spiega Isabella Cesarini, la trama, la classica trama, nel caso della Lispectorè la cornice che inquadra il flusso di coscienza, anzi di linguaggio.

E’ invece facile isolare alcuni temi: il silenziola donnala bellezzal’infanzia. Forse in una parola: la vita. Come afferma l’autrice, Clarice Lispector scrive per eleggere un nuovo lessico: il linguaggio del silenzio”. Non solo: “Madre, figlia, amante, moglie, la figura della donna nell’opera di Clarice Lispector si colloca dentro un mistero”. La donna è un mistero come la scrittura, non si rivela mai completamente. Come la bellezza, che altro non è se non mancanza: “il vuoto lasciato è il gesto in cui la bellezza si manifesta, esattamente come fa la morte con la vita.

Proust parlava di “essenza carnale” per riferirsi a quelle idee, pensieri, sentimenti, emozioni che non riusciamo a inquadrare, a “vestire”. La stessa cosa pare si possa dire in riferimento alla produzione letteraria della Lispector e come sempre ci viene in soccorso proprio Isabella Cesarini, quando scrive che “La parola di Clarice è carnale quanto le creature narrate, sempre impegnate ad allontanarsi dal pensiero per poter vivere infine solo nei sensi”. Infatti La nausea di Sarte è diversa dalla nausea della Lispector: quella di Roquentin, il protagonista del romanzo filosofico (o l’alter ego di Sartre?) è una nausea mentale, astratta, non giunge alla carne, resta in una dimensione immateriale. Mentre “Clarice Lispector è corpo della parola carnale che torna nel grembo a ogni fine periodo, fine racconto, fine romanzo”. Ma in comune c’è il concetto di epifania, di svelamento indotto da un’esperienza, dalla visione di qualche cosa o da un evento particolare: torna il concetto di essenza carnale, torna la “cosalità” di Sartre e torna pure il Joyce di Gente di Dublino.

Ma non si pensi a una vita di depressione quando si pensa alla vita di Clarice Lispector, dal momento che “la scrittrice vive l’esaltazione dell’esistenza, una passione che giunge direttamente dalla voce del corpo”. E’ evidente che è centrale il concetto di carnalità della parola.

Il libro della Cesarini è fondamentale per iniziare a fare la conoscenza di questa ovattata scrittrice: ce ne illustra dapprima la vita, quindi la cala in una dimensione concreta (carnale!) e poi ci accompagna passo passo all’approfondimento di singole opere, non senza un’utile bibliografia finale. Impossibile, alla fine, non decidere di andare in libreria (o ordinare su Amazon……) il nostro primo libro della Lispector, con cui iniziare questo viaggio.

  • Emanuele Beluffi, IlGiornaleOFF, 12 maggio 2021

Con la parola vengo al mondo. Bellezza e scrittura di Clarice Lispector

L’ultimo libro della scrittrice e saggista Isabella Cesarini da poco uscito per Tuga Edizioni, è un viaggio appassionato nella “Bellezza e scrittura di Clarice Lispector”, somma scrittrice brasiliana del Novecento. La Cesarini penetra nell’opera di Clarice in punta di piedi come si usa con un nostro maestro cui portiamo devozione. Con il suo stile di scrittura raffinato e piano al contempo la Cesarini ci spiega ogni segreto di Clarice partendo dalla biografia, via via entrando nella “parola bella” che si fa corpo e anima nelle straordinarie pagine della Lispector.

Si esce edotti dalla lettura sia entrandovi da principianti digiuni di Clarice sia già amanti dei suoi libri. La Cesarini ama infatti l’oggetto del suo dire e il libro è la prova che non è sempre vero che simpatizzare per un autore non sia buon “metodo” di critica.

Isabella Cesarini riesce ad entrare nell’essenza della scrittura di Clarice, arrivando a una simbiosi con essa, tanto che leggendo distrattamente si potrebbe non capire la differenza tra la lingua della brasiliana e quella della sua critica italiana. Dolce sovrapposizione che conduce il lettore ad apprendere e deliziarsi ancor di più.

“Con la parola vengo al mondo” è consigliato a tutti.

Buona lettura!

  • Patrizio Minnucci, Gente comune, 16 maggio 2021

L’assurdità dell’esistenza nelle “Divagazioni” di Emil Cioran

L’immagine by Arturo Espinosa è sotto licenza 
CC BY 2.0

Razne – Divagazioni figura l’ultima opera scritta in lingua romena dal saggista e filosofo Emil Cioran. Esce per la prima volta in italiano per traduzione e cura di Horia Corneliu Cicortaş con il contributo di Massimo Carloni e Costantin Zaharia (Lindau edizioni).

Esiste un momento capitale nella vita di ogni scrittore, un cambio in corsa, dove il passato tocca il futuro dentro la cornice di un presente lavico. Il periodo di tempo che si registra tra il 1945 e il 1946, rappresenta per il saggista rumeno Emil Cioran, il grande mutamento della scrittura; non solo nelle venature tematiche, ma nel passaggio finale all’uso della lingua francese. Razne – Divagazioni figura l’ultima opera scritta in lingua romena che esce per la prima volta in italiano per traduzione e cura di Horia Corneliu Cicortaş con il contributo di Massimo Carloni e Costantin Zaharia. Accogliere una nuova forma di espressione, guardar vivere le proprie parole in un ultimo dizionario, tratteggiano nello scrittore un movimento ricurvo verso la malinconia. Malinconia che, distintamente in Cioran, si destina in melanconia; l’humor nero sancito da uno scoramento inesorabile.

La copertina del libro edito da Lindau edizioni

L’essere nell’accadere della vita simboleggia un atto del tutto inintelligibile che non incontra più soluzione alcuna. La volontà di esistere, nelle digressioni del saggista, è la grande attestazione della malattia del vivere; lo stimmung, come stato d’animo malinconico, tratteggia la guida più credibile sulla strada del vuoto. Giacché lo spleen, portato da Cioran alle vette più estreme, si rende timoniere solo in funzione di un fallimento: la frattura della protesta o l’inesistenza della ribellione. Velleità che si infiltrano nello scrittore come vitalità da abbattere, poiché non giungono ad alcuna via di fuga dal mostro che è da sempre il male di vivere. Se il mondo non può essere mutato, cosa vale affannarsi nel vortice del nulla? Al contrario, nella pacata accettazione dell’ineluttabile, sorge la possibilità di non soccombere alla disillusione. Pertanto la malinconia delinea il risultato di un meccanismo vizioso; si fa virgiliana nell’inferno di Cioran. Inferi, che nel vuoto, accadono anche nel ventre del Purgatorio e del Paradiso: l’infondatezza custodisce ogni luogo del vivere. Una eccezionale sollecitazione può alleviare, anche solo momentaneamente, il regno del nulla: la panacea di un ideale. Oltre l’idea stessa, il balsamo è dentro la possibilità di perseguirlo; rincorsa che distrae lo sguardo dall’inesorabile caduta nel vano. Inconsistenza che si fa allegoria dell’”urlo pietrificato” di un D’Annunzio o metafora Kierkegaardiana nella conduzione degli uomini verso il silenzio come unica forma di guarigione. Invero, l’ideale così come la protesta, non figurano altro che due immaginette funeree, piccole sorveglianti di una sospensione che allevia ma non salva. Appare vitale, nel paradosso, l’inesistenza di un senso all’esistenza; un accadimento necessario per l’essere umano. Insistendo nella volontà di esistere, la creatura persevera nell’errore che la vita sia messaggera di un senso e dunque continua a vivere in tale certezza, eludendo il tratto inespugnabile verso la morte.

Ogni punto nello spazio è un crocevia di strade che portano tutte alla morte, così come ogni punto nel tempo è la misura della distanza che ci separa da essa. Qualunque strada si voglia prendere, è lo stesso. I passi, comunque orientati, hanno sempre la stessa direzione. Come mai le ossa dei morti non si sono incendiate in quest’universo che corre sul carro funebre?

Se la malattia del vivere può solo godere di istanti di sospensione, il respiro è indagato da Cioran in altre situazioni, anche nell’ipotesi dell’atto suicidale come unico gesto di libertà. Il male si neutralizza nel male; invischiati nelle paludi del nulla, impegolati negli acquitrini di un’esistenza inorganica, l’unica camera d’aria vive la possibilità di flirtare con il suicidio. Tale assunto custodisce la sola forma di libero arbitrio che l’uomo è in grado di esercitare davanti alla piaga della sopravvivenza obbligata. Una via di fuga dalla morte nella morte. Atto, verso il quale lo stesso Cioran, continuerà a sostenere solo nel concetto. Nulla si farà mai gesto anche perché Non vale la pena uccidersi, dato che ci si uccide sempre troppo tardi. Nella diagnosi patologica, la morte giunge in maniera naturale.

Nelle linee essenziali, la mestizia è una necessità di tristezza, bisogno che appare chiaramente sulla copertina del libro, l’opera di Caspar David Friedrich Der Träumer. Oltre l’immagine pittorica, allegoria di un chiaro stato d’animo, sin dalle prime divagazioni si affacciano temi tanto cari al romanticismo tedesco nello sgomento del sublime. Il prolungamento è nella bellezza che prende e fa proprio il sapore della morte.

Quando osservo il silenzio ultramondano dei paesaggi, l’impassibilità sublime degli alberi, lo sperpero del sole sopra cristallizzazioni verdi che stupiscono e sconvolgono lo spirito, quando dai giacimenti della sensibilità risale alla superficie del cuore una nostalgia senza contenuto, che abbraccia lo spazio con una maestosità soave e funebre, allora la bellezza mi appare come il veleno più forte mai assaporato dall’anima.

La bellezza, pur nelle vesti di una potenza mortale, non trascina mai dentro un istinto di morte. La fine si lascia nella polvere dell’inconoscibile; si abdica in favore della vita, fosse anche quella più terrificante. Tra due misteri, l’individuo s’incammina sul sentiero che suppone di conoscere, quello della vita. Ma chi vive nel presente, ascolta il perenne richiamo di una nostalgia priva di argini; un bisogno di passato, un’occorrenza di futuro, tutto nella negazione dell’istante di un accadere che, nell’oggi, è già tempo di tristezza. La malinconia è finanche quella sentita per la banalità, qualsiasi scappatoia che permetta all’individuo di non volgere lo sguardo all’interno di se stesso. Così la tensione sempiterna a un’operosità emancipata dal senso, pur di non scendere dentro l’animo umano sino nelle viscere per farsi consapevolmente impotenti. Sono divagazioni che ruotano sempre intorno allo stesso mostruoso pianeta: la malattia del vivere che figura come l’unico fil noir in un subisso di digressioni. La più potente arma di seduzione in tale spargimento di idee, giunge dalla fascinazione esercitata dal male.

Nell’ultima opera scritta in lingua romena, si avverte ancora un inconfutabile tensione nella ricerca di una parola che possa infine esprimere il senso, quel senso. Tanto più un universo è zeppo di emozioni e suggestioni, quanto più il fardello si fa pesante nella volontà di narrare. Non esistono nomi che si facciano sostanza, non accadono termini che traducano fedelmente un’emozione senza scivolare dentro un tradimento. La parola, non di rado, interviene a disertare il senso e nel foglio si stende come un limite invalicabile. Ed è in tale zona che Cioran si affida alla definizione e infine alla divagazione per armeggiare nella delimitazione del nulla.

Tutto ciò che non è pura visione del nulla è un castello in aria.

Dentro tale voragine, lo scrittore è mestamente consapevole che l’individuo non può vivere privato da un atto di deificazione. Il culto è vitale quanto la tristezza:

Anche coloro che non credono, credono nel fatto di non credere.

Nel cuore di un credo, di un ideale o di una rivolta, sopravvivono delle creature non lusingate dal fallimento: i neutri. Sono coloro che restano fuori, vivono una temperatura tiepida dove nulla arde o gela: gli individui che esistono lontano dall’eccesso. Ma cacciati dal tracollo, non sono in grado di percepirsi in un’anima. La stessa che in Cioran è rintracciabile nel verso dell’eccedenza, l’immagine simbolica della presenza umana nel mondo. Le digressioni dello scrittore rumeno non custodiscono una morale e ancor meno propongono una soluzione definitiva. Descrivono un brutale universo da pestare per non cadere nella pietrificazione di una parola che mai vive l’edulcorazione. Oltremodo, di fatto, la vita non si svolge nel dulcis:

La vita è la morte quotidiana della Convinzione.

(7 novembre 2016)

Con la parola vengo al mondo. Bellezza e scrittura di Clarice Lispector: l’eterno femminino suggellato dalla parola bella della poetessa Cettina Caliò

In copertina, illustrazione di Stefano Babini

“Il silenzio della parola all’infinito”

Il silenzio si finge voce in ogni crepa che ci tiene interi.

È un linguaggio complesso. Fa l’urlo e fa la musica, come i dettagli fanno l’uomo, la bellezza e la vita stessa.

Clarice Lispector usa la parola per dire il silenzio. Silenzio come fonte di parola. Ci sono cose che si sottraggono alla parola e tuttavia è nella parola – nella scrittura – che trovano un sentiero per arrivare a noi, alle nostre solitudini, alla nostra colpa. Quel sentiero è un cammino carnale, quello che reca con sé arriva in ginocchio per poi ergersi e fare casa, di luci e ombre, dentro di noi. 

È necessità il bisogno di dirsi e darsi significato e significante attraverso la parola. La scrittura strappa e trattiene. Tenta di dire l’indicibile, tenta l’abisso. Parte dal silenzio e ritorna al silenzio, alla nostalgia del sé e di ogni cosa che si pensava fosse. Sempre rimane da tradurre il silenzio.

Nel bisogno della Lispector, di questa donna col sorriso stretto e amaro, c’è la consapevolezza del peso di certe parole che fanno silenzio in tre sillabe: dolore, amore, altrove, memoria, perdita. Sono tre anche le sillabe di silenzio, nostalgia, bisogno, respiro, parola.

Isabella Cesarini (che possiede pensieri di questa fatta: “Siamo sfocate nella vita… mi perdo nelle cose perché le sento prima di saperle”), attraverso un percorso articolato brillantemente in opere e passaggi biografici, offre un ritratto inedito, intenso e affascinante di una figura di grande potenza vitale e letteraria. Una donna piena di solitari luoghi interiori e luogo lei stessa. Luogo sofferto e sfavillante come un fuoco d’artificio.

Isabella Cesarini con questo testo ci ha fatto un bel regalo.

Clarice Lispector è un’ebrea ucraina con il ritmo latino nelle vene. È, in definitiva, popolo eletto.

Cettina Caliò

  • Con la parola vengo al mondo. Bellezza e scrittura di Clarice Lispector di Isabella Cesarini (Tuga edizioni, pp 128, € 16).

“Sono quella balorda intensità ch’è un’anima”. Jorge Luis Borges

“Jorge Luis Borges” by susanamule is licensed under CC BY-NC-ND 2.0

Jorge Luis Borges, uno dei grandi maestri della cultura latino-americana, figura come il più rappresentativo esponente di quella foggia letteraria che, tramite lo sviluppo dei fondamenti della realtà e l’impiego dei complessi richiami culturali, crea un universo paradossale e immaginario in cui il lettore non sempre è capace di giungere alla comprensione del vero significato.

Borges, nella sua opera, scarta ogni forma di suddivisione tra reale e irreale, tra verosomigliante e assurdo e, colliquando in unitarietà i dati storici e i principi narrativi, genera quadri inverosimili e sconcertanti in cui l’individuo si trova sovente in preda a fissazioni scioccanti e ostaggio di una realtà stretta da limiti fantastici e fallaci.

Parte della poetica di Borges è assicurata in un testo fondamentale – Carme presunto e altre poesie – da cui germinano apparizioni, reminiscenze e previsioni che offrono la fascinazione delle congetture, delle circostanze apparenti e delle chimere che turbano l’individuo lasciandolo in una situazione di indugio perpetuo sul suolo di riscontri impensabili.

Il ventre lucente per Borges è l’universo infinito dell’aspetto simbolico, il giardino verdeggiante della supposizione, da cui il poeta trae la sua grande poetica.

Insonnia

Di ferro,

di arcuate travature d’incommensurabile ferro conviene che

sia la notte,

affinché non la facciano scoppiare e la sventrino

le molte cose che i miei occhi ricolmi hanno visto,

le dure cose che intollerabilmente l’affastellano.

Il mio corpo ha fiaccato i livelli, le temperature, le luci:

dentro vagoni di una prolissa strada ferrata,

in un simposio di gente che si detesta,

nella linea slabbrata dei sobborghi,

in una villa afosa d’umide statue,

nella notte stracolma in cui s’affollano il cavallo e l’uomo.

L’universo di questa notte presenta la vastità

dell’oblio e l’inesorabilità della febbre.

Invano voglio svincolarmi dal corpo

e dall’incubo di uno specchio incessante

che lo moltiplica e l’assedia

e dalla casa che ripete i suoi patii

e dal mondo che prosegue fino a uno sminuzzato sobborgo

di stradoni dove il vento s’ammansa e di balordo fango.

Invano attendo

le disintegrazioni e i simboli che antecedono il sonno.

Prosegue la storia universale:

i minuziosi tragitti della morte nelle carie dentali,

le circolazioni del mio sangue e dei pianeti.

(Ho detestato l’acqua putrefatta di una pozzanghera,

ho abortito al tramonto il canto del passero.)

Le spossanti, interminate miglia della periferia verso il Sud,

miglia di pampa immonda e oscena, miglia di vituperio,

non voglion cader dal ricordo.

Plaghe sommerse, ranci ammassati come cani, pozze di

fetido argento:

io sono la sentinella detestabile di quelle immobili

postazioni.

Ferrospinato, terrapieni, cartacce, rifiuti di Buenos Aires.

Questa notte credo nella tremenda immortalità:

nessun uomo è morto nel tempo, nessuna donna, nessun

morto,

giacché questa inevitabile realtà di ferro e di fango

deve attraversare

l’indifferenza di quanti siano dormienti o

morti

quand’anche si occultino nella corruzione e nei secoli

e condannarli a una veglia terrificante.

Tosche nuvole color vinaccia infameranno il cielo;

albeggerà nelle mie palpebre serrate.

  • 1936, Adrogué

Pierre Drieu La Rochelle – L’âme doux

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«Spesso un Narciso che sogna di possedere essendo posseduto»

(Diario, 1939 – 1945)

È nel tacito principio di delicatezza che si incorniciano le cose nel silenzio lasciando l’operato al presagio. Sul medesimo solco si racchiudono i gesti nell’aura della stasi. È un contegno di attesa nel fluire del tempo acché il momento si consegni allo sguardo interiore. L’intima bellezza viaggia su rotaie di cristallo, tutto nella cura dell’emozione di esistenze altre. La delicatezza di Pierre Drieu La Rochelle (Parigi, 3 gennaio 1893 – Parigi, 15 marzo 1945), non tocca solo un movimento estetico, ma un vero e proprio moto dell’anima. La sua scrittura è un afflato di garbo, patrimonio di un mondo perduto e custodia di un gentile palpebrare: movenza impercettibile di uno sguardo mediante il quale vedere la vita, introiettarla e stoicamente rifiutarla. Le opere di Drieu, dai romanzi sino ai diari, figurano una galleria di riflessioni sull’esistenza e sulla spiritualità. Ogni singola pagina accoglie la direzione per restituire, attraverso un aforisma, un pensiero o finanche un interrogativo, fogli pronti a trafiggere per smarrirsi nella memoria. L’opera diaristica di La Rochelle, distintamente in Journal d’un délicat e, in misura maggiore, in Journal 1939-1945, romanzo e diario postumi ambedue, si muovono sulla piega dell’attualità, custodiscono lo spirito del tempo che, per alcune trame, si espande sino al nostro. La sua Europa è forata dal refolo dell’aridità. Per quanto l’autore veda nella scrittura diaristica un modello succedaneo del lavoro più profondamente creativo, le parole sono grazia trainata dalla complessità di uno spirito sopraffatto e deluso.

Il diario è qualcosa cui dedicarsi nel tempo perso pur restando un importante forziere di quella nobiltà pessimista che si incolla su ogni singolo tendine della mano scrivente. Pulsazioni vigorose vanno incontro alla vita e dalla stessa vengono avvilite. Scoramento che non cede alla resa. Al contrario, seppur all’interno di un suolo disincantato, si edifica sopra una presa di coscienza.

Per un esteta della malia attrattiva, l’immagine della donna rappresenta la principale sorgente dalla quale gemica la creazione. Donna come natura selvaggia; impulso e creatura intellettuale in una sola eccezione: Victoria Ocampo. La passione tra Drieu e Victoria figura una straordinarietà: la Ocampo è donna di intelletto. È un coup de foudre a intiepidire una fredda giornata parigina di febbraio. Siamo nel 1929, lo scrittore è al termine del suo secondo matrimonio. L’incontro tra i due è profezia della nascita di una passione dirompente quanto dolorosa. Per quanto in conflitto su diversi argomenti, sono due creature discordanti che suonano all’unisono. Si sfidano su temi politici, religiosi, etici. Controversie sedate da una stima reciproca: due abissi che si scontrano con il solo fine di incontrarsi. Per Victoria Ocampo, primogenita di un’agiata famiglia argentina, sposata – come molte liaison di La Rochelle –  ma di fatto separata, la lettura sottolinea una condizione per giungere all’autore. Nell’opera del dandy parigino, impatta con la curiosità per l’uomo. Un viaggio inchiostrale con il fine di giungere alla meta: attraversare lo scrittore. Insieme si avvieranno a un percorso comune, quello amoroso. Nel bagaglio, la consapevolezza di non essere la sola, ma l’unica fra tante. Quello della Ocampo è un trasporto generoso da diversi punti di vista, non ultimo quello economico. Tema ricorrente nelle relazioni intrattenute dallo scrittore. Una sorta di riconosciuto mecenatismo femminile per il quale l’uomo sente la sua inadeguatezza nei confronti delle “donne da marito”. Non si sente a proprio agio con la donna casta. A tale figura preferisce la compagnia di donne ricche che possono provvedere alla propria vita e, per estensione, a quella del letterato. Drieu è pervaso da una “impotenza a tratti” che trattiene l’aria di trovare origine nello sfioramento di una vergine.

Bisogna essere molto forti per amarti senza esserne danneggiati, Drieu

Il trasporto di Drieu per Victoria appare conflittuale quanto indispensabile. La fiamma si alimenta nell’assenza. Spregiudicato e tenero, cinico e amorevole, non si risparmia per quella creatura con la quale può discorrere di Céline, Joyce, Valéry. È necessario parlare di lei e con lei. Nella privazione e nell’attesa cresce la sua fiamma. Nella volontà di negare il moto geloso, invero afferma una fermezza di possesso. Le confessa l’inconfessabile. Indugia nel gioco dell’attesa per sfuggirle e poi tornare con veemenza a cercarla. L’amore tra la Ocampo e La Rochelle, non si realizza nell’appartenenza ma nell’idea indispensabile di appartenersi.  Victoria sarà l’unica donna a custodire il privilegio e la condanna di ricevere lo scritto testamentario con i motivi del suicidio dello scrittore.

***

In Journal d’un délicat Jeanne è il disegno dell’universo femminile. Il dialogo malconcio tra l’eroico e la vita trova in lei la prima manifestazione. Una figura che lentamente si incunea nel suo rifiuto di amare; giunta troppo tardi nella vita dell’autore poiché egli si è infine disposto nel verso del divino. Ma Jeanne non nasce nel troppo tardi: il diniego di un delicato la precede. Una ripudia autoinflitta alla sessa stregua della sua autodistruzione, pertanto non sulla donna ma su ciò che rappresenta. L’intima rinuncia alla creatura femminile rappresenta il rifiuto della fine di un seduttore: Jeanne è tutte le altre e dunque lo specchio di un arresto. Un finale sigillato nel ventre della solitudine.

***

La solitudine di Drieu La Rochelle uomo e scrittore – nella caducità di un animo che svela la fragilità dell’esistenza – incede in paura e la paura in pena. Una doglianza domandata come unica sospensione da un’afflizione perenne. L’immagine femminile è il trait d’union tra Drieu e la vita.

***

La sterilità di La Rochelle si contrappone alla fertilità del mondo femmina in un fermo declino alla vita e all’amore. La sua opera impianta una preziosa occasione per sollevarsi da un caos effettivo, ubriacarsi di delicatezza e compiere una sorta di ascesi dentro la penna di uno scrittore elegante, scisso tra il grido eroico e l’autodistruzione.

 

  • Estratto da ANIME INQUIETE – 23 storie per mancare la vittoria

In memoria di Bruce Lee: il 27 novembre avrebbe compiuto 79 anni. Il Piccolo Drago nel libro di Francesco Palmieri

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Il giornalista e scrittore Francesco Palmieri forgia un’opera in omaggio alla grande figura di Bruce Lee. Tra aneddoti, divagazioni e curiosità, la grazia della sua penna scorre nella vita del Piccolo Drago con la stessa leggerezza della piuma che vive nella mano dell’icona di Hong Kong.

All’interno di un precisa circolarità, tra divagazioni, incursioni tra Oriente e Occidente ed elaborazioni sull’esistenza, Francesco Palmieri forgia un’opera legando indissolubilmente il suo nome a quello di Bruce Lee, il Piccolo Drago. È un libro che segue un movimento lento, una lettura in slow motion, proprio come l’apprendimento delle arti marziali. Dapprima alcune lettere dell’alfabeto a separare lo scritto in capitoli: le tre C di calci, cortili e cuori, le due F di fantasmi e finestre, una O per gli occhi, due S per le sfide e i sogni, una M per le mani che si avviluppa nella L del libro, quello di un mito cinese del ‘900. Le parole formano il cerchio; all’interno tutto torna a ricomporsi e con decoro entra nel flusso della memoria. In tale immagine si muove liberamente la figura più importante, quella di colui che edifica nella sua persona il legame epico tra la cultura orientale e quella occidentale: lui è Bruce Lee, il Piccolo Drago. Una star del cinema, abile marziale, ma soprattutto un rivoluzionario nella misura in cui distrugge completamente lo stereotipo razziale vigente in America, nonché il pregiudizio sul popolo cinese tutto. Diviene un’icona, un simbolo di forza e tensione fisica, di velocità e destrezza, ma anche di disciplina e duro lavoro: qualcuno che richiama le giovani generazioni a seguire un modello.

Nasce a San Francisco nel 1940, cresce a Hong Kong e come nella migliore delle leggende, a diciotto anni, con qualche dollaro in tasca, cento per l’esattezza, riparte per l’America in cerca di successo. L’autore, nella descrizione del viaggio, non manca di associazioni; la più autorevole con la Eveline di un racconto di James Joyce. La finestra è l’occasione per un legame: quella di Bruce è la sollecitazione, l’altra, in terra irlandese, è il ritorno ancor prima della partenza. E nel mezzo, la chiamata al sogno: quello ricercato e quello mancato.

È così, per proseguire il racconto, per sognarlo come durevole
illusione, ma anche per vergogna o pudore di una debolezza alla
Eveline, che alcuni abbandonano magari a malincuore o un po’ esitanti certe finestre – case, odori, certezza – per andare da qualche parte, dichiarando pretesti plausibili a chi resta: il lavoro, lo studio, nelle sincerità più azzardate una passione.

Il passaggio di Lee mostra un pionieristico percorso dove accadono molte cose, con un piede in Cina e un braccio negli Stati Uniti, la sua esistenza si avviluppa più volte con i sogni dell’autore che ne segue le tracce. Accade così con le passioni, capita di perdersi in qualcuno o qualcosa, succede che la nostra ispirazione talloni l’aura ispiratrice e la vita si muova anche in virtù di quella fiamma. Pagina dopo pagina, giunge il lampo fiabesco di un incontro, esattamente nel punto centrale di quel ponte; in quella fantasia galoppante dove il Piccolo Drago si è posizionato e appare proprio come una voce che scandisce all’autore queste parole grondanti di saggezza e trasporto. Accade inoltre che l’arte marziale di Bruce Lee sia la cosa più vicina all’atto della scrittura: dedizione, studio e ardore. Non tralasciando, a ogni modo, un distinguo: lo scrivere si cristallizza sulla pagina, l’arte marziale domanda un corpo che tramandi a un altro. Ambedue contemplano il cuore nelle mani, dita che si muovono in una danza, sollecitate dall’inchiostro o da una sfida, tirate da una preziosa tecnica, prima osservata e poi con il tempo acquisita. Mani che permettono accostamenti cinematografici: quelle del Piccolo Drago, per voce di un indimenticabile Mario Brega in Bianco Rosso e Verdone, possono essere “fero e piuma”. E nel ponte tra Oriente e Occidente, tutto il mondo è paese, quando proprio dalle mani di un parrucchiere – seppure avvezze a criniere da star- testimoni di una performance di Lee all’International Karate Tournament, passano alla bocca, nel consegnare l’importante suggerimento a un produttore televisivo. William Dozier ascolta dall’hair stylist la meraviglia del movimento di Lee: è sempre in uno spazio di chiacchiera che avvengono gli incontri e si fa la storia. E dalle mani di un coiffeur si arriva alla serie televisiva The Green Hornet che vede Bruce Lee protagonista. È curioso, ci illumina l’autore, che in cantonese un Sifu può essere un insegnante di Kung Fu e anche un parrucchiere: entrambi riservano rispetto e considerazione alle mani.

Con la serie Tv di Dozier il Piccolo Drago non decolla a Hollywood, ma entra, non senza una certa perplessità, nelle grandi dimore dei divi. E lo fa alla maniera di chi, pur avendo in qualche modo rotto gli schemi del Kung Fu classico, continua a preservarne dei principi fondamentali, nello specifico quello del Yat yaht waih sì – Jung sang waih fu, ossia Maestro per un giorno, padre per tutta la vita. Non sente di poter godere e donare tale privilegio poiché non si riconosce nell’ambiente e non abbraccia i capricci degli attori, non avverte quel legame così importante. Sulla vigorosa corda che lega i due mondi, Bruce Lee accorpa oggetti, luoghi e sensi. Nei luoghi trovano spazio i cortili: che sia un piccolo borgo in occidente o un quartiere di Hong Kong, quanta vita scorre in quel piccolo universo di spazio e tempo? L’infanzia, il sudore, le grida, i richiami, tutti a far da cornice al cortile. Laddove non si scorgono tali spazi, è possibile trovare dei terrazzi dove esercitare un’arte tesa su un’emozione che prende vita dal corpo. Una fisicità che, nel tramite di un terrazzo, porta dal fuori al dentro e torna ancora alla scrittura. La storia cinese vive nei libri, gli edifici si ricostruiscono, l’inchiostro resta. La cultura orientale non esita al nuovo edìle, il vecchio lascia il posto alla modernità, ma continua a custodire avidamente la scrittura. Poiché è sempre in quel principio di ferro e piuma che i maestri di Kung Fu vivono anche la possibilità di essere degli illustri calligrafi. Particolare non trascurabile è da ravvisare nel fatto che a soli trentadue anni, Lee possiede più di 2.500 libri.

[…] l’ideale compimento delle cose, anche marziali, tende verso la scrittura. Non il guerriero, ma un letterato è il modello esemplare. Perciò il dio taoista della guerra Guan Gong è anche patrono delle lettere effigiato non con l’alabarda, ma seduto mentre legge gli Annali Primavere e Autunni.

La passerella, il ponte o la corda che Mouth Si Duhng – Il ragazzo che non si ferma mai, nell’appellativo materno, si corroborano per il tramite di una letteratura che va da quella inglese a Cartesio, passando per Hermann Hesse per tornare al casellario dei classici cinesi. Il passaggio si fortifica finanche con le idee di un pensatore indiano, elaborazioni che Lee trascinerà nelle sue pagine del Tao of Jeet Kune Do:

Può operare liberamente e pienamente solo chi è ‘al di là del sistema’. Chi seriamente intenzionato a raggiungere la verità non ha uno stile prestabilito, vive unicamente nel reale.

Il ponte che lo stesso autore del libro percorre più volte, figura uno spazio abitato da accurate divagazioni; se da un lato sussurra di un Bruce Lee come idea di perfezione dentro una cornice imperfetta, dall’altro conduce direttamente al cospetto di un presente cinematografico particolarmente vicino. Ed ecco giungere il Tarantino che ripesca il David Carradine, un tempo preferito al Piccolo Drago nella serie Kung Fu, per la monumentale interpretazione di Bill in Kill Bill. Di nuovo tutto nel cerchio, dove il ragazzo che non si ferma mai è sempre la figura dominante. Da lui si parte e a lui si torna. Ma se di un certo cinema di Tarantino la matrice risulta presumibile, differente è l’inimmaginabile irruzione di Carl Gustav Jung, Federico Fellini ed Ernst Bernhard: il ponte si fissa mediante lo Yijing, uno dei cinque classici cinesi. Una versione, con l’introduzione di Jung non poteva sfuggire a colui che nella psicologia analitica ha cercato e trovato parte della sua ispirazione: il cineasta Fellini.

Questo libro, in buona sostanza, sogna per noi. Esprimendosi con lo stesso linguaggio simbolista, misterioso e indecifrabile dei sogni. Perciò non mi dà nessuna inquietudine, anzi mi conforta. Come se battessi dei colpi al portone di un castello…

La grandezza dell’opera di Palmieri è tutta in quella sua sapienza, accarezzata da oriente a occidente, mediante la quale conduce il lettore proprio sulla saggezza di quel ponte. Un capitanare che non avviene solo nel fine di ricordare certa cinematografia di genere che caratterizzò l’immagine di Lee, ma per omaggiare una figura aprendo le porte di una cultura che finalmente si svincola dagli stereotipi e si dona senza riserve. La penna di Palmieri scorre con grazia, la stessa che si deve adoperare nel giro di questo libro. La sua mano è piuma nel racconto e ferro nel sogno.

* Francesco Palmieri, PICCOLO DRAGO – La vita di Buce Lee, Mondadori Libri, pag.183

(28 aprile 2017)

 

 

Ágota Kristóf: bisturi o penna?

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La carezza sui capelli è impossibile gettarla.

Il Grande Quaderno

Esistono diversi modi di abitare il dolore: indossare uno sfatto costume da giullare; vivere da apolide una città senza nome; vincolarsi a un funereo abito scuro – e oscuro. Una esile dama nera, con tanto di piumaggio eccedente, si muove nel ventre di un’umanità perduta. Truccarsi di vaiato, insozzarsi lo sguardo di fuliggine, ancheggiare su un terreno sdrucciolevole verso lo spasmo di una meta: la solitudine di un nido violato.

Gemica nel tempo e sulla pagina la violenza di una pena ravvisabile dagli esorbitanti in delicatezza: gli emarginati emotivi. Il dolore possiede le fattezze di un gigante tanto invisibile quanto garoso, una sorta di fantasma che scava lentamente e arresta ogni tentativo di liberazione.

È sul moto mestamente disgraziato di una penna calata in un inchiostro marmato che giunge la remota figura della scrittrice Ágota Kristóf (Csikvánd, 30 ottobre 1935 – Neuchâtel, 27 luglio 2011). Autrice ungherese, naturalizzata svizzera, si racconta in francese nell’amara convinzione di essere un’analfabeta: sì, una illetterata tradotta in trentadue lingue. Le emozioni narrate sono incandescenti, una vampa che domanda dovere di ibernazione. Il ghiaccio bollente della letteratura, un abusato ossimoro. Una sfera infuocata attraversa gelide folate di vento e si incanala nella presa di un lettore turbato. Un’autrice prende le distanze da se stessa come unico antidoto al vivere nel racconto. Per non annegare nell’inchiostro, si rende dimentica. Da un piano metatemporale, scruta la gigantografia di un’angoscia esistenziale. La scrittura della Kristóf è sconcertante nella cruda potenza di un vocabolo che si fa arma. Parole amare, aguzze e aduste, penetrano nel lettore con algente durezza: il tratto impietoso di un cecchino. La voce agghiacciante nel pensiero della scrittrice, muta in grido rovente nella presa dell’iride.

Riprodotta nella Trilogia della città di K., la sua penna è un bisturi chirurgico capace di tagliare con estrema precisione ogni singolo stato d’animo. Operazione lucida che si lascia dietro l’autoptico sminuzzamento dell’emozione, l’apparente svuotamento di senso e la continua percezione di impotenza. L’opera è una terrifica allegoria della guerra. Non vi sono indicazioni storiche precise; il conflitto evocato appare quello della seconda guerra mondiale. La trilogia è lacerante sino al disturbo.

Accadono opere ineluttabili. Sopraccieli infausti narrano la guerra mediante rimandi di stadi violenti privi di qualsiasi elemento addolcente. Guerniche allegoriche sigillate nell’assenza di pietas. L’opera vibra nel tono del fiele. Il colore conserva la prevalenza dei registri scuri. L’afonia è il suono dominante. Nell’affabulazione di note meste, troneggia il silenzio.

Ágota Kristóf scrive del dolore dal dolore. Inabissata nella lacerazione, non orpella, non indora, non ricama. All’uopo, in tonalità sadiche, impianta nel lettore una realtà impossibilitata al camuffamento. Dall’età dell’innocenza, racconta un mondo privo di candore. La puerizia del bambino è svuotata del fanciullo stesso. L’infanzia è dentro una piccola creatura crudele; una macchina esercitata alla sofferenza, bellissima nella mostra, marcia nel funzionamento. L’innocenza della fanciullezza, strangolata dal fardello del conflitto, non registra alcuna feritoia: l’assenza di speranza descrive una morsa che scortica il lettore. I contatti tra i personaggi vivono sul registro della vaghezza; il sesso è dolorosamente bestiale, i dialoghi evocano copioni minuziosi sino allo sfinimento. Il disumano occupa la pagina: barbare reiterazioni senza epilogo.

L’opera della Kristóf tratteggia un traforo espressionista privo di luce, una voragine profonda che ingozza ogni barlume di sogno. La guerra è un anestetico delle emozioni, un oppioide che nel creare servitù, annulla ogni possibilità di ritorno.

L’infanzia negata è nell’immagine di due gemelli, una specularità che frantuma ogni confine e confonde un fanciullo nell’altro. Una deformazione, un’asimmetria, un altrove dietro lo specchio: la morte, la fine dell’illusione, la frontiera. Tutto vincolato a una crudeltà dell’assenza che non giunge mai a malinconia, fissandosi in un realismo vivo e mortale. La parola è scarna, secca, spigolosa, nudata sino all’osso. Tuttavia prepotente e collosa. È nella sfibrante volontà di mollare lo sguardo davanti la truce latenza umana che non risparmia alcuno, una liturgia del crepuscolo, l’oscuramento di ogni possibile pertugio. È la vita che accade nel conflitto dei grandi e nell’urto villeggiante dentro l’essere umano. La scrittrice è una Lisistrata drammatica e moderna, il suo è un negarsi al moto del sentimento. Il negare che afferma. Nell’assenza di vita si ritrova la vita.

Per la Kristóf, il tramite con il mondo è lo scandaglio del dolore. Sangue e inchiostro all’interno di una prosa compiuta e talmente inappuntabile da apparire un caso eccezionale. Scrittura maturata in un cammino personale e scheggiata da eventi storici. Nel 1956, durante la rivolta in Ungheria, insieme al marito anticomunista e alla figlia di pochi mesi, è costretta a rifugiarsi in Svizzera. Lavora in fabbrica, dove il ritmo dei macchinari si delinea come un ficcante metronomo di quei pensieri destinati a finire sulla pagina. Il lavoro è il momento per imparare la nuova lingua, il francese con il quale farà i primi passi nella prosa teatrale e nella poesia. Le macchine dell’operaia Ágota rappresentano il moto di preparazione alla scrittrice Kristóf. La prosa asciutta sopraggiunge tempo dopo, in seguito a un lungo periodo vestito dai panni di una profuga. La scrittura è un considerevole supporto alla disperazione continua e, anche, all’impossibilità di perdonare un marito che l’ha trascinata lontana dalle sue radici.

Poi l’angoscia si placa, diviene silenziosa, prende il posto del coniuge e fluisce nella sua penna: l’inchiostro chirurgico di un quieto tormento.

– da Anime Inquiete.

 

Pasquale Panella – Ritratti di parola

Cover Libro A.I.

PP

Ritratti di parola

Questo libro di ritratti non è un libro, è la realizzazione di un sogno,
un sogno ingenuo ossia un sogno di tutti, un sogno vero. Questo libro
rende invisibile chi legge, invisibile e capace di volare, così chi legge vola e,
impercettibile, entra nelle finestre, in tutte le finestre — delle stanze, delle
epoche, dei mondi — e vede i corpi. Perché sono corpi, queste anime
inquiete.
Esiste un orario di chiusura dei libri? Forse no. Ma se apri questo
libro hai l’impressione di entrarci dopo l’orario di chiusura. Altro bel
sogno, questo: restare in un deposito di vite senza le ristrettezze del turista
in visita che deve mantenere le distanze. No, qui ti puoi scalmanare, ti puoi
sfrenare, anche eccitare, qui puoi toccar con mano le parole corporali. E
puoi anche entrare nei panni. Chi sono gli altri se non te mascherata, te
mascherato? Ma sì, si sa com’è che va. E qui va benissimo. Qui pare
addirittura che ogni figura appaia ritratta nel tuo specchio, così tu leggi e
guardi e vedi te come se tu fossi Lou Salomé ma anche Jean, Salvador,
Leonor, Maria… Esse e essi vissero. E cosa cerchi in chi visse se non tracce
di te? I bei difetti, le belle scivolate, vite come precipitazioni temporalesche,
vite abbaglianti e abbagliate, vite che, parliamoci chiaro, se fosse stato tuo il
nome di chi le visse, tuo il loro corpo, sarebbero state le tue vite. Eccole
qui, leggibili, sono tue.
Così questo libro è anche una toeletta con tutti i trucchi a vista e con
le alucce laterali per i profili e per le rifrazioni; è un camerino con le luci in
cornice per guardarti meglio. Senti lo scatto illuminante nell’incipit di ogni
ritratto.
Ma sì, sono sportelli, qui, le pagine, sono persiane a due imposte,
porte a due battenti, armadi a due ante con dentro corpi amanti. Si entra e
un po’ si spia, anzi non solo un po’, anche tanto. E chi sono le persone e i
personaggi se non te messo alla prova di quei panni, di quel pallore, di quel
rossore, di quel ghigno, di quelle chiome, di quella calvizie, di quei baffi
(che sono sempre, infatti, posticci, a ben guardare), di quelle belle labbra,
di quei seni, di quei muscoli e nervi? Chi se non te? Se no, che leggi a fare
se non sei chi leggi? Qui è tutto chiaro e illuminato bene. Qui la pagina
trasuda, e trasuda chi legge, ci si scambia la traspirazione e il respiro, qui è
tutto un trasudare di umori e umidità carnali tra chi legge e chi è letto.
Occhio a quel lemma: gemicare, che qui è molto coniugato. Qui è tutto un
trafficare di pose, di mimiche, di movenze, di agitazioni e di frenesie, di
abbandoni e di abbattimenti, di spassi e di passioni, di delusioni e di
elusioni, di veli e di piume, di straccetti e di biancheria, di gesti intermedi e
di gesti estremi. Qui tutto è sala prove, qui tutto è scambio d’abiti che
fanno il monito, tutto è livrea e richiamo, qui tutto è verso, nitrito,
cinguettio, latrato, grugnito, guaito e miagolio dell’animale umano. Qui ti
chiedi se la persona scritta non ti stia osservando, derivando da te la sua
ossessione d’essere chi è. E qui chi visse sopravvive in un ritratto da lettura
ovvero in te che leggi con licenza di razzia, una razzia con gli occhi ma, se
vuoi, anche con le mani e, dalle mani in poi, con tutta la tua pelle che
sfiorerà e si farà sfiorare dagli oggetti del racconto, quegli oggetti
particolari che sono gli episodi, le scene, gli atti, le sorti, le parti delle vite.
Ecco, làsciati chiudere dentro questo libro aperto, conoscerai l’evasione e
l’intrattenimento: la fuga verso un’attrazione a braccia spalancate.
Noi siamo l’umanità, abitiamo un luogo a noi comune, questo
pianetino. Visti da anni luce, visti la lontano, in una mescolanza di storia e
geografia, noi siamo chi non siamo, nel senso che laggiù, per esempio,
arriva la notizia dell’esistenza sulla terra di Sibilla, Lou, Egon, Drieu, Jean,
Gustavo, Salvador, Leonor, Emile, Edith, Clarice, Diane, Sylvia, Françoise,
Agota, Janis, Maria…, e ecco che questi nomi, sfumatura più, sfumatura
meno, sono i nomi con i quali siamo conosciuti noi terrestri, ma sì, quelli
che assieme vissero in un mazzetto di decenni, mescolati e confondibili,
nell’immenso sperpero di miliardi di miliardi d’anni luce.
Guardali così questi ritratti, come notizie delle tue esistenze, perché
chi legge è fatto di parole, delle parole che legge.
Ma essere chi leggi, capita con tutti i libri di ritratti? No, non con
tutti. Spesso si fa pettegolezzo, buttando l’occasione in diceria, oppure si fa
ricerca cavillosa e accumulo di documenti, attestati, certificati, passaporti,
diagnosi, buttando la faccenda in istruttoria abusiva. Si fanno tante cose,
fingendo anche la ricostruzione esatta di una vita, che è una cosa
impossibile e anche assurda. È inesatta la vita. Inesatte anche le foto, lo
sappiamo tutti, e inesatti i ritratti fatti a pennellate.
Qui il ritratto è di parola, mantiene in vita quello che promette.
Come si dice per non dire altro quando fai una nuova conoscenza? Si dice
‘piacere di conoscerti’, che poi raramente è quel piacere. Qui è quel
piacere.
Qui ti senti dire ‘guardami, chiamami per nome, non lo fai mai
guardandomi’. Chi ha parlato? Il ritratto e tu, tutt’uno, con una sola voce.
Pare strano? Per niente. Lo sai benissimo che leggere è mescolanza tra testi,
testi intesi come testimoni. E qui ti puoi permettere confidenze e intimità
che nella vita te le sogni.
Qui che altro si fa? Si fanno visioni. O, anche, si hanno visioni di sé
nel ritratto e del ritratto in sé, con generosa, reciproca licenza di
confondersi. Le figure qui sono volute, nei due sensi, sia nel senso di spinte
a essere dalla voglia di volere essere lette da te che hai voglia di leggerle, sia
nel senso delle evoluzioni del fumo, profumato, irritante, lacrimogeno,
fantasmatico, fosco o bianco, volubile, capriccioso, denso, vago, ma sempre
avvolgente.
Ti orienti in una nebbia, e nella nebbia cerchi una figura, poi scopri
che quella nebbia è la figura. Leggere è anche questo, è quell’essere avvolti
in un vapore formato da te che leggi, da te a contatto con quel suolo di
parole che è la pagina. Qui accade.
Il corso più somigliante al corso di una vita è il corso del rigo di
scrittura, coi suoi punti fermi mai tanto fermi perché poi inizia un’altra
frase, con i suoi a capo per ricominciare, col poco di respiro delle virgole,
con gli accoppiamenti delle congiunzioni, con quel fallito senso di infinito
degli avverbi, con la piaggeria degli aggettivi, con la parola fine. Qui senti
che è così.
Sì, le parole. Qui le parole fanno, oltre che storie, il testo, il ritratto
del testo fatto dalle parole. E allora capisci. Sono loro le anime inquiete, le
parole. E, adesso che lo capisci, è ovvio siccome è vero. Di parole sono fatte
queste storie, queste vite. Le parole, queste parole, sono l’inquieta anima
loro. E tu conosci, sì, l’inquietudine degli occhi di chi legge? Ecco, di
quell’anima là gli occhi sono lo specchio. Inquieta è la scrittura e la lettura,
ogni parola corre alla seguente per essere accresciuta, diminuita, smentita,
sviata, dimenticata anche. Come si dice? È la vita, la vita della scrittura
ossia la vita leggibile. E le vite qui sono ventitré.
Te lo dico prima: alcune di queste parole, una decina, dovrai cercarle
sul vocabolario. Credi di no? Vedrai. E le cercherai. Ma non sono parole
difficili, e non sono le parole della sapienza. Anche a esse dirai ‘piacere di
conoscerti’. Sono parole belle, anche arcaiche, araldiche, stemmi di
famiglie linguistiche. Sono dimenticate parole indimenticabili. Le
conoscerai e non le dimenticherai più. Potrai dimenticare le chiavi di casa
ma non queste parole, che sono parole chiave. Lo so, te le appunterai pro
memoria. Parole chiave per aprire porte, sportelli, ante, battenti, pagine.
Anche le due alucce degli amori. Che c’entrano gli amori, i tuoi amori?
Che c’entrano? Vedrai. ‘Poi mi dirai’, così ti dice il libro