Muse

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“IMG_5687W Renato Guttuso. 1911-1987” by jean louis mazieres is licensed under CC BY-NC-SA 2.0
  • Da figura mitologica, la musa prende a vivere dentro l’opera pittorica, nel romanzo e nella poesia come imperativo sine qua non: virtù, prodigio o necessità indissolubilmente legata all’artista. È la presa invisibile che brandisce il pennello del pittore, l’inchiostro impercettibile che sospinge la penna dello scrittore. La spinta lavica dove il maschio artistico si fa madre, amante, amica in un imbracciare la femminilità che solo una dea ispiratrice può generare.

È il profumo dell’Heliconia a farsi sentinella di ogni opera d’arte. Il nome del fiore giunge direttamente dal monte Eliconia, luogo reso illustre dalla mitologia greca sulle muse. Nove figure, figlie di Zeus e Mnemosine, denominate Eliconie nella Teogonia di Esiodo. Anticamente avvolte nell’arte della musica, guadagnano imponenza nel tempo come custodi di ciascun fiotto di pensiero. Attraversano lo spazio/tempo in un divenire perpetuo che, da seducenti scrigni di arte, si fanno lucenti volte d’ispirazione per numerosi artisti. Non vuote sagomature da ritrarre, ma femmine di Zefiro che nel soffio fecondano nel maschio non una, ma molteplici Flora botticelliane. La musa, da mito prende vita nell’opera pittorica, nel romanzo e nella poesia come imperativo sine qua non: virtù, prodigio o necessità indissolubilmente legata all’artista. È la presa invisibile che brandisce il pennello del pittore, l’inchiostro impercettibile che sospinge la penna dello scrittore. La spinta lavica dove il maschio artistico si fa madre, amante, amica in un imbracciare la femminilità che solo una dea ispiratrice può generare.

Calliope, Clio, Urania e le restanti muse riemergono nel ‘900 nelle monumentali figure di Jeanne Hèbuterne, Elena Ivanovna Diakonova (Gala) e Marta Marzotto. Jeanne Hèbuterne figura i molteplici volti della disgraziata vita del pittore Amedeo Modigliani. Con l’appellativo “noix de coco” per i lunghi capelli e un volto che tratteggia la perfezione, Jeanne rappresenta la creatura che s’immola per l’arte nella vita e dentro la morte in una missione artistica tutta di Modì. Modì che è altresì maudit e ancora l’incontro con la musa Jeanne rappresenta l’esuberanza amorosa in assenza di argini. Noix de coco è l’empito creativo, la madre, l’amante e colei che nella fine dell’amato trova l’unica via di sopravvivenza nel darsi la morte. Amedeo Modigliani muore il 24 gennaio 1920 di meningite tubercolotica. Jeanne Hèbuterne , al nono mese di gravidanza, abbandona l’esistenza privata di Modì, lanciandosi da una finestra. Un volo che è feroce distacco e struggente ricongiungimento in quell’altrove che solo l’artista insanamente intende. Il pittore e la musa, la morte e la vita, l’eccesso e la quiete ricongiunti in un’infinita e infausta opera d’arte. Per volere dei familiari della Hébuterne, del tutto maldisposti alla relazione vissuta con Modigliani, la dea dei suoi dipinti viene tumulata nel museo parigino di Bagneaux. Solo nel 1930, i resti vengono posti accanto al suo “Dedo” nel cimitero di Père Lachaise. La commovente passione di Jeanne per Modì è tutta dentro la solennità di un epitaffio:

Devota compagna sino all’estremo sacrificio

E se il profumo dell’Heliconia agita la Parigi dei primi del ‘900, il suo elisir cosparge l’esistenza della musa delle muse: Gala Éluard Dalí. Divina del pittore dei pittori, Salvador Dalí, Gala è dapprima refolo illuminante per il poeta Paul Éluard e in seguito si fa fulgida musa per il re del surrealismo. Salvador Dalí, tutto genio, follia e fragilità si raccoglie in una resa: l’evidenza di un amore assoluto. Assolutismo passionale che si farà antidoto magico di ogni male:

Poteva essere la mia Gradiva (colei che avanza), la mia vittoria, la mia donna. Ma perché questo fosse possibile, bisognava che mi guarisse. E lei mi guarì, grazie alla potenza indomabile e insondabile del suo amore: la profondità di pensiero e la destrezza pratica di questo amore surclassarono i più ambiziosi metodi psicanalitici.

Gala è la musa, la solidità, lo slancio e l’apertura che si faranno meraviglioso balzo in tutto il surrealismo nella grandiosa opera di Dalí. La devozione del pittore spagnolo è tale da rappresentare una forma di insaziabile dipendenza affettiva. Alla morte di Gala, avvenuta nel 1982, l’afflato ispirato dell’artista, la seguirà nella sua fine, dissolvendosi in lei e con lei. Ancora l’effluvio di Heliconia si allunga nell’aura di un’altra figura mitologica da poco scomparsa: Marta Marzotto. L’appuntamento incandescente con il pittore siciliano Renato Guttuso, accade inevitabilmente in una giornata di canicola romana; estate che nel clima e nei colori si farà metafora della loro passione. Lei modella sinuosa, da Vacondio si fa contessa Marzotto per rinascere in una Talia, musa del Thallein, del fiore. E come bocciolo si schiude e scorre nell’opera dell’artista impegnato: il comunista e la contessa. Un amore rovente e contrastato, epifania del batticuore carnale fuori da qualsiasi avveduta sbozzatura.

All’interno di un’affermazione particolarmente abusata, attribuita a Virginia Woolf e riferita al detto latino Dotata animi mulier virum regit (una donna dotata di coraggio sostiene il marito), ossia Dietro ogni grande uomo c’è sempre una grande donna, si azzarda una rivisitazione del caso: Dietro un grande artista, c’è sempre una grande musa. Ispirazione fatta forma femminile, la figura mitologica della musa sfugge la fissità della leggenda per farsi vita pulsante nella creazione artistica. Jeanne, Gala e Marta non figurano come l’oggetto passivo dell’esecuzione artistica quanto soggetto attivo del festeggiamento creativo. La dea ispiratrice, nell’avviarsi a quel percorso infinito, costeggia generi ed epoche diverse. Indugia nella letteratura, si fissa in un ascolto musicale per accomodarsi nel buio di un cinematografo. Elizabeth Craig per Louis-Ferdinand Céline, Pamela Courson per Jim Morrison o ancora Charlotte Gainsbourg per Lars von Trier, sono solo il primo passetto verso la volta infinita occupata dal profumo dell’Heliconia. Ma questo è un altro capitolo, bellissimo e inesauribile.

Alle muse!

  • da L’Intellettuale Dissidente, 14 settembre 2016

Incontri nel cuore della cultura giapponese

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  • da L’Intellettuale Dissidente,  18 novembre 2016

Il nō giapponese rappresenta la forma più antica della cultura teatrale. Si tratta di un dramma lirico che si lega all’Occidente solo nel momento in cui il tratto letterario arriva a farsi più importante. La creazione figura l’onda travolgente che va a circoscriversi nella forma di un cerchio, dove tutto torna dal passato per illuminare il presente e fissare un legame tra Oriente e Occidente. Il nō, in tale cerchio, passa da Ezra Pound a William Butler Yeats che tenta di ammantarlo nella poesia per poi tornare a Yukio Mishima. Un avvicinamento dove l’antico si avvicenda all’istante e, in quel cerchio fecondato dall’onda, tutto si muove come l’attore giapponese: misurato e universale.

Il luogo comune rappresenta una modalità veloce e circoscritta per raccontare un popolo, una nazione e la sua presunta e lapalissiana cultura. Da frettoloso pourparler di piazza, con il tempo, acquista i connotati di un importante archetipo. Alla maniera junghiana diviene una direttiva presente nell’inconscio collettivo. Un’immagine preesistente nella nostra mente, come un’eredità trasmessa prima della venuta al mondo: le idee precedono la nascita. In tale guadagno di importanza, il luogo comune muta in un vincolo grossolano, sintetizzando tutto a quei pochi connotati manifesti appartenenti a una cultura. Nello specifico di una nazione come il Giappone, tra i primi lampi, scorgiamo la fenomenologia del terremoto, la ghiottoneria, fatta moda in occidente, del sushi e la contrapposizione tra una Tokyo futuristica e un universo dai mille templi nella città di Kyoto. Scostandosi lentamente dal limite del parlar facilone, ci si avvicina pian piano al cuore della tradizione di un popolo. Si parte dall’attualità per tornare sino alle radici più profonde. Nel cinema, è un onere, nonché un onore, poter citare uno dei grandi rappresentanti della tradizione giapponese: Akira Kurosawa. Le pellicole del cineasta attraversano i secoli; dal periodo Heian di Rashomon sino ai richiami recenti, per quanto magici, di Sogni. Discendendo ancora un po’ più a fondo nei meandri dei costumi nipponici e sempre più lontani dalla barriera del luogo comune, la memoria letteraria va tutta nell’incontro lirico con Yukio Mishima.

Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! È bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! È il Giappone! È il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo.

Il suo nome, già legato a opere come Confessioni di una maschera, Colori Proibiti, Il padiglione d’oro, Sole e acciaio o La via del samurai, trascina ulteriormente nel cuore della cultura giapponese, fornendo il permesso di trattare una delle più antiche forme di teatro, risalendo sino al XIV secolo: il . Una tradizione di trattati che, per ben cinque secoli, vengono trattenuti nel segreto di una memoria. Tesori che, nei primi del ‘900, riemergono da un remotissimo paesaggio per narrare di un patrimonio legato al Giappone, la cornice pulsante della cultura nel teatro nō. Drammaturgia legata a colui che fu definito “lo Shakespeare giapponese”: Zeami Motokiyo, l’autore, che tra il 1300 e il 1400, figura come il custode di quasi tutto il repertorio nō. Nei paradigmi fissati da Zeami, l’attore gode di una notevole considerazione. Nel muoversi tra i quattro elementi previsti dal teatro, ossia la mimica, la poesia, la danza e la musica, l’artista nella fotografia del palco, svolge una funzione per quanto elitaria, particolarmente sociale. Il nō giapponese rappresenta la forma più antica della cultura teatrale. Si tratta di un dramma lirico che si lega all’occidente solo nel momento in cui il tratto letterario arriva a farsi più importante. Sino a Zeami, il cardine dello spettacolo è nel canto e nella danza e, l’elaborato scritto, resta solo come un supporto dell’attore. Dopo l’arrivo di quello che può essere definito, se non l’iniziatore, ma il primo forziere di tale arte, lo schieramento avviene in favore del testo, poiché egli stesso è autore e poeta di rara fattura.

La rappresentazione del nō attrae nel proprio orizzonte diverse figure: lo shite, che recitando in maschera, disegna colui che presta il corpo alla danza, alla voce e al canto. Considerato il personaggio principale, si fissa nel ruolo in una definizione: “colui che fa, che agisce”. Nell’occupare tutto lo spazio, generalmente la sua interpretazione, è quella più articolata. Il ruolo secondario è individuabile nella figura del waki che sovente veste gli abiti di un monaco. La sua parte evolve nell’essere il primo a fare l’ingresso sulla scena. Narra il percorso che lo ha condotto sino a quel punto della rappresentazione e infine esce per restare nell’immobilità. Fissità che contempla un’unica eccezione: scongiurare la presenza di un demone. Altre figure, tra il tomo e lo tsure, che non vivono un’esistenza drammatica autonoma, rappresentano pressoché dei ciceroni dello shite e del waki. La loro funzione svolge un ruolo importante soprattutto per l’utilizzo della voce, una sottolineatura, una vigorosa marcatura di tutto lo spettacolo. Nonostante il waki, una volta uscito dal palco, rimanga una presenza fissa e immobile, la sua mansione è importante nella misura in cui diviene la fiamma che arde l’universo. Ovvero una pressione che permette l’esistenza dello shite: la fissità di un silenzio conferisce corporeità e ragione agli accadimenti. Le ultime presenze del nō appartengono alla galleria dei kyōgen, coloro che sgravano la rappresentazione mediante una farsa. Disegnano un vero e proprio bisogno dello spettatore, che dopo il pressante impegno psichico domandato da tale dramma, si abbandona finalmente a una comicità più rozza. Un intermezzo tra un nō e l’altro porta gradualmente alla distensione.

Nel teatro la tradizione del nō realizza la dimensione dell’attore inscindibile, completo, compiuto. Molta autorevole regia dell’occidente, dentro nomi quali Eugenio Barba, Gordon Craig e soprattutto Antonin Artaud, prendono dall’oriente proprio l’inclinazione dell’attore al completamento. Rifinitura che non arriva nell’improvvisazione, ma attraverso una severa disciplina di esercizi che abbraccia l’individuo dai sette anni in poi. Sino ai tredici, l’attenzione viene posta sul tratto spontaneo, escludendo comunque quello della mimica. Dai tredici sino ai diciotto, l’interesse include anche l’aspetto vocale, seppur in divenire.

“Quel fiore lì non è il fiore autentico, non è che il fiore di un momento”

Dai diciotto in avanti, l’attore giungendo da una vasta gamma di allenamenti, tende a ripiegarsi e a perdere audacia. Pertanto l’unico allenamento va nel verso di non lasciare il nō. Domandando aiuto alla consapevolezza, a venticinque anni l’impegno inizia a produrre i propri frutti. La parabola ascendente continua sino ai trentacinque. La percezione della sapienza attoriale deve necessariamente provenire anche da una benedizione pubblica. Dai quarantacinque in poi, pur nella cognizione di una consacrazione universale, il fiore può iniziare la sua opera di scomparsa o chiedere l’aiuto di un comprimario. Dunque l’attore del teatro nō, non disegna il genio singolo di tipica ascendenza occidentale o il risultato di qualche anno accademico, al contrario riveste un voto, una vera e propria consacrazione all’arte.

In nome della luce che germoglia da tale figura, accade l’incontro definitivo tra oriente e occidente. Ernest Fenollosa, un orientalista statunitense, nell’’800 decide di farsi allievo di un importante attore nō, Umewaka Minoru, con il fine di tornare in patria e rendere l’Oriente più accessibile all’Occidente. Dopo la sua morte, lascia una pesante mole di scritti sulla cultura giapponese, annotazioni, osservazioni e poesie che la moglie Mary McNeill offre al poeta Ezra Pound:

“Lei sarà la persona che pubblicherà i manoscritti di mio marito”

Nel 1916 Pound pubblica i testi di quindici nō con un’aggiunta, le note di Fenollosa. Quanto le arti e non solo l’attore, offrono la meraviglia della completezza, è dimostrato da un continuo dialogo tra la musica, la danza, la letteratura e il teatro. La creazione figura l’onda travolgente che va a circoscriversi nella forma di un cerchio, dove tutto torna dal passato per illuminare il presente e fissare un legame tra Oriente e Occidente. Un’allegoria convessa, sgombra da durezze, dove tutto diventa altro pur non perdendo la propria identità. Il nō in tal cerchio passa da Ezra Pound a William Butler Yeats che tenta di ammantarlo nella poesia per poi tornare a Yukio Mishima.

Tra il 1950 e il 1955 Yukio Mishima scrive Cinque nō moderni, pièces per continuare a elargire storia e vita a una lunghissima tradizione. La missione dello scrittore si realizza nel fine di rendere più accessibile l’argomento di testi tradizionali e peculiari di una cultura, senza sottrarre il contenuto originale. Se il nō figura la più antica forma di teatro giapponese, è nel mentre verosimile che, nel tempo, si comporti come un considerevole collante di eterogenee modalità di pensiero e vita. Un avvicinamento dove l’antico si avvicenda all’istante e in quel cerchio fecondato dall’onda, tutto si muove come l’attore giapponese: misurato e universale.

“Quando avrete perfettamente capito il principio dell’incanto sottile comprenderete, per ciò stesso, che cosa sia la potenza”.

 

Cultura. La lunga notte degli insonni: Emil M. Cioran e Ingmar Bergman

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http://www.barbadillo.it/50388-cultura-la-lunga-notte-degli-insonni-emil-m-cioran-e-ingmar-bergman/ 9 dicembre 2015

La notte è il tempo magico dell’attesa, la discesa nel sonno e la vita nella sfera onirica. Al suo interno si incunea una sospensione, un altrove, un’oscurità singolare popolata da creature misteriose. È il cielo dei giganti: la foggia di ogni emozione prospera a dismisura sino a divenire un’entità ciclopica. È la volta nera delle ombre minacciose: angosce mutano in afflizioni inconsolabili, amori certi si fanno incerti, speranze perdono consistenza. È il clima asfissiante della “sottonotte”, una dimensione all’interno della notte stessa: il tempo dell’insonnia. Una temporalità presa da creature eccezionali, alchimiste dell’orologio, boicottatrici della lancetta. Mostri notturni che alterano minuti in ore, ore in giorni, giorni in mesi: il tetto dei giganti è un soffitto impressionante e minaccioso. Il tempo dell’insonne è una vetta alpestre priva di ossigeno, una dilatazione oltremodo infinita della durata, un desiderio di luce strozzato nel mai.

Sono le sentinelle costrette alla sorveglianza forzata, esseri condannati alla vista incessante e al girone dello sfiancamento psichico. Sono gli insonni, una sorta di pianeta segreto e segregato dall’abbraccio dannato della notte. Vivono sotto l’egemonia di uno sguardo obbligato a saldare la danza dei fantasmi sulla grande sommità: un rituale ossessivo che si ripete ogni notte. Le ombre prendono vita, a ogni passo brandiscono consistenza e l’insonne inerme può solo agognare la caduta nell’oblio. Il tempo della pena, della tortura, dello stillicidio mentale: la temporalità nemica che affligge, tra gli altri, il filosofo e l’artista dell’aforisma Emil M. Cioran.

Le tre del mattino. Percepisco questo secondo, e poi quest’altro, faccio il bilancio di ogni minuto. Perché tutto questo? – Perché sono nato. È da un tipo speciale di veglia che deriva la messa in discussione della nascita.

Qui le prime note dello scrittore ne L’inconveniente di essere nati: una lettura intima, un testo notturno che evoca il vagare buio della creatura guardinga. Le ore insonni portano alla riflessione obbligata intorno al tema tanto caro a Cioran: il perché della nascita. Aforismi foschi sezionano il tragico, esplorano il dramma della vita e contemplano il suicidio come irripetibile possibilità di esistenza. L’atroce potere che l’individuo possiede nel togliersi la vita, figura paradossalmente, come unica spinta al vivere. Nella capacità di scegliere l’interruzione dell’arco vitale, risiede la libertà di restare. La consapevolezza del male di esistere, non rappresenta il rifiuto della vita, ma un campare più potente: vivere scientemente nonostante il vivere.

Ci sono notti che il più ingegnoso dei carnefici, non avrebbe potuto inventare. Ne esci a pezzi, inebetito, sgomento, senza ricordi né presentimenti, e senza neppure sapere chi sei. Allora il giorno ti pare inutile, la luce perniciosa, e ancora più opprimente delle tenebre.

L’inconveniente di essere nati abbraccia una lettura errante: il peregrinare oscuro dell’insonne. Il poggiarsi da un sentimento all’altro nel ventre di un viaggio caotico alterato dalla veglia inflitta. La vita appare più tollerabile per coloro che riescono a dormire. Il sonno rappresenta una discontinuità, una sospensione dal ricordo che rende l’esistenza possibile e meno tragica. L’insonne auspica l’oblio, la caduta nel sonno per interrompere il fluire incessante della mente nel pensiero. Gli aforismi di Cioran scompongono qualsiasi convinzione. Non distruggono; smantellano per ricreare un terreno fertile alla riflessione illuminata e lucida.

La notte insonne di Cioran è L’ora del lupo in Ingmar Bergman: il regista indagatore dell’inconscio, il mago del volto parlante. La lirica di Bergman avanza per primi piani: un viso è un luogo abitato da contenuti eloquenti. La morsa dell’insonnia passa dal regista al personaggio, Johan Borg – Max von Sydow – in un’ isola svedese popolata da sinistre creature. Le ore di veglia del pittore rendono definitive le nevrosi, tutto prende i colori sfumati del fosco, un bianco e nero smarrito nel torbido dell’incubo. Alma – Liv Ullmann – è lucente possibilità di speranza, tutta nel suo volto. Nell’assenza di ambiguità figura la completezza, il materno ove rifugiarsi, il tempo della luce: un’immagine monumentale al pari della Giovanna D’Arco nel primo piano di Dreyer. Alma è la discontinuità, la frattura nel tempo interminabile dell’insonne. L’ora del lupo ripercorre il perpetuo sospiro dell’abbandono, la scomparsa dei confini tra incubo e realtà, la minaccia di un intelletto che va in frantumi.

Un tempo la notte era fatta per dormire… già, sonni calmi e profondi e svegliarsi poi senza terrori. Da molte sere siamo svegli fino all’alba, ma questa è l’ora peggiore. Sai come si chiama? Il popolo la chiama l’Ora del lupo, è l’ora in cui molta gente muore e molti bambini nascono, è l’ora in cui gli incubi ci assalgono e se restiamo svegli…

È un film tetro, segue l’accadere tortuoso nei meandri della mente: la rottura degli argini del pensiero. I protagonisti sono mostri generati dall’assenza di luce: la vita nell’oscurità è quella delle ossessioni e della memoria ininterrotta che torna solo per devastare. L’ora del lupo partorisce demoni minacciosi.

Le tenebre, nella voce di Alma, sono silenziose sino a farsi rimbombanti: il giorno sembra appartenere a un’altra dimensione. Così Ingmar Bergman:

Le ore peggiori sono quelle del lupo tra le tre e le cinque. Allora arrivano i demoni: l’amarezza, la nausea, la paura, il disgusto, la collera. Non serve soffocarli, s’incattiviscono. Quando gli occhi sono stanchi di leggere, c’è la musica. Chiudo gli occhi e ascolto con concentrazione, lasciando via libera ai demoni: venite pure vi conosco, so come funzionate, continuate finché non vi stancate, io non mi difendo. I demoni infuriano sempre di più, dopo un po’ ogni resistenza cessa e loro diventano ridicoli, allora scompaiono e io mi addormento per qualche ora.

Le ore degli insonni sono dunque momenti in pasto alle fauci di una bestia. Una creatura si muove faticosamente nell’oscurità, non cerca pace, ma trova tormento. L’ora del lupo non è l’insonnia d’amore, non è il collasso del corpo nel sogno surrealista di Dalí, non è lo smaniarsi nella lessinghiana attesa del piacere. È un grande altrove di immagini crepuscolari, un’estensione del sogno che sprofonda nell’incubo. La notte dell’insonne è tutta in quell’agognare il giorno per capitolare nuovamente al cospetto di un tempo ostile.

Cinema. Pietro Germi e Gastone Moschin. Il canto del folle ne Il cinema delle stanze vuote

IL FOGLIO

[…] I luoghi del regista Germi sono regioni, province e piazze che si battezzano in nazione italiana. In Signore&Signori, film del 1965, il territorio è un’ode mortuaria alla provincia veneta. La meschineria si fa luogo, zona, terra. La fiera della vanità nella prima domenica del mese, di vanagloria nella seconda, di sfarzo nella terza e giù sino al termine dell’anno stamburato.

L’opera, divisa in tre episodi, figura l’amaro prequel di Amici miei, diretto successivamente da Monicelli a causa della morte di Pietro Germi l’anno precedente l’uscita del film.

Gli episodi non acquistano importanza per lo sviluppo della pellicola quanto per la mostra dell’empietà che prende l’essere umano tutto.

[…] L’analisi di Germi è spietata senza mai farsi moralista. Gli inquilini del palazzo di piazza Farnese in Un maledetto imbroglio, a distanza di pochi anni, evolvono nei fantocci borghesi della provincia veneta. Sono mossi dal vizio – quello più turpe fine a se stesso – da oziose infedeltà e fatui rituali simulatamente avvincenti. Maschere che tornano a mascherarsi. Non esiste alcuna ricerca di autenticità. La miseria umana è socialmente accolta. Pecunia non olet è il grande credo; il denaro è innanzitutto riparatore: tutto, anche l’azione più raccapricciante, può trovare la salvezza nei quattrini.

Lo sguardo amaro di Germi esplora una profondità che è abisso senza epilogo. La provincia è la terra del nulla. Non si odono suoni fanciulleschi a sedimentare una speranza. L’accadimento è in una singolarità: l’immagine salvifica di Gastone Moschin.

Ne Il cinema delle stanze vuote, nelle pellicole dell’abulia, ricorre un elemento che solidifica l’inclinazione allo scoramento vitale: la figura del folle.

In Signore&Signori giunge un’ improvvisa alterazione al gramo tedio che assilla l’umanità. Nella rivelazione della figura del pazzo, la malinconia passa dal Germi regista al Moschin attore. Sotto lo sguardo giudicante della moglie, Gastone Moschin, il ragionier Osvaldo Bisigato, rappresenta un sepolcro imbiancato. Per vero il ragioniere è il mesto innocente che la macchina da presa immortala nella lettura de Le affinità elettive.

Il ragioniere non è il ragioniere. Il ragioniere non è disposto a calcoli o previsioni. Il ragioniere è in preda a una malinconia dell’assenza che lo rende inquieto sino all’insania. Estro moralmente inaccettabile di una passione d’amore fuori dal matrimonio. Il ragioniere è creatura nuda, un fanciullo alla riscoperta dell’innocenza, trascinato dallo sguardo verso una creatura perturbante: la cassiera Milena in tutto lo splendore di una giovane Virna Lisi.

Il ragioniere è l’urlo sopra la folla degli abietti, l’interruzione del tempo sociale nell’urto genuino di una goffa fuga d’amore. È la voce del Domenico di Tarkovskij che, sulle scale del Campidoglio, dall’opera Nostalghia, porta un’ode al grido:

Quale antenato parla in me/Io non posso vivere contemporaneamente nella mia testa e nel mio corpo/ Per questo non riesco a essere una sola persona/ Sono capace di sentirmi un’infinità di cose contemporaneamente/Il male vero del nostro secolo è che non ci sono più i grandi maestri/La strada del nostro cuore è coperta d’ombra/bisogna ascoltare le voci che sembrano inutili/bisogna che dai cervelli occupati dalle lunghe tubature delle fogne e dai muri delle scuole, dagli asfalti e dalle pratiche assistenziali, entri il ronzio degli insetti/Bisogna riempire gli orecchi e gli occhi di tutti noi di cose che siano all’inizio di un grande sogno/Qualcuno deve gridare che costruiremo le piramidi/Non importa se poi non le costruiremo/Bisogna alimentare il desiderio/Dobbiamo tirare l’anima da tutte le parti come se fosse un lenzuolo dilatabile all’infinito/ Se volete che il mondo vada avanti dobbiamo tenerci per mano/Ci dobbiamo mescolare i cosiddetti sani e i cosiddetti ammalati/Ehi, voi sani, che cosa significa la vostra salute/Tutti gli occhi dell’umanità stanno guardando il burrone dove stiamo tutti precipitando/La libertà non ci serve se voi non avete il coraggio di guardarci in faccia, di mangiare con noi, di bere con noi, di dormire con noi/Sono proprio i cosiddetti sani che hanno portato il mondo sull’orlo della catastrofe.

È il canto del folle, il remoto profeta descritto da Friedrich Nietzsche nell’aforisma 125 de La Gaia Scienza. Con la lanterna accesa, il ragionier Bisigato, vaga per la provincia veneta in cerca di autenticità, trovando infine solamente carestia morale. È colui che mediante una confessata infedeltà, tenta la via del risveglio della coscienza. Tentativo che urta una umanità votata al nichilismo dell’assenza di Dio, dove Dio è assenza di valore morale, spirituale, umano.

Gastone Moschin si muove tra i morti. Dio è morto, la provincia l’ha freddato e Bisigato è il pazzo che nel vuoto vuole risorgere come l’Oltreuomo e recuperare il candore del fanciullo. Ma la terra si fa infausta e il folle d’amore è in anticipo sul tempo. Una stagione inospitale che necessita ancora e ancora del trascorrere dei cicli temporali per poter infine guardare al grande gesto. Il ragioniere scaglia l’amore come il folle getta la lanterna: in frantumi e colmo di rassegnazione, l’uomo torna alla malinconia del vivere. La provincia si ritira nell’ordine e il canto retrocede in diceria.

Germi svela il lato più oscuro dell’umanità, donando al folle malinconico il fuoco della rinascita. Ma le cose sfuggono al pazzo. Nella mancanza di un valido sostegno, la creatura si sgretola in quel corpo che nulla trattiene. La rincorsa all’autentico porta alla frattura: più si avvicina all’umanità, più si allontana da se stesso. Il ragioniere è la lanterna nel buio di Pietro Germi.

  • Da Il cinema delle stanze vuote

Libri. Memoria di ragazza, Annie Ernaux e la scrittura nella memoria

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Mémoire de fille, uscito in Italia nel maggio 2017 per L’Orma Editore con la traduzione di Lorenzo Flabbi, è l’ultimo libro della scrittrice francese Annie Ernaux.

Il tempo è quello dell’estate del 1958, qui nelle pagine a descrivere un’adolescente qualunque, dunque unica. Perché l’adolescenza è un passaggio unico e definitivo. Con passo incerto, tutto si muove verso l’età adulta. La fanciullezza è un inciampo irresoluto dal quale liberarsi. Liberazione che può avvenire soltanto a colpi di immaturità.

La storia è quella di Annie Duchesne, una giovane ragazza che, per la prima volta, si allontana dal nido familiare per lavorare come educatrice nella colonia di S nell’Orne. Il lavoro segna lo spartiacque tra le mareggiate adolescenziali e il dopo, il futuro custodito nel tempo del ripensamento. La colonia muta in luogo di passaggi inesorabili alla volta dell’avvenire. L’esposizione di un’età indugiante, diviene nell’opera della Ernaux, un’occasione per fare un viaggio a bordo della scrittura. La scrittura che mostra il suo farsi. La scrittura che, mediante la presa di una memoria da ricercare, trova la circostanza per confessarsi in tutto il suo processo.

L’idea che potrei morire senza aver scritto di colei che presto ho preso a chiamare “la ragazza del ‘58” mi ossessiona.

(…) Limitarsi a “godersi la vita” è una prospettiva improponibile, dal momento che ogni istante senza un progetto di scrittura è come se fosse l’ultimo.   

L’estate del 1958 è solo il bordo del foglio, la pavimentazione dove cade la parola, il grembo in cui si scalda la frase. Il tempo è nella sua dilatazione. L’estensione verso il ricordo di una giovane esistenza alle prese con il primo amore, il primo rapporto carnale, il primo accadimento da cercare e vivere, si collega alla mano dell’ultimo colpo di inchiostro. Scrivere figura un’urgenza quanto l’accettazione di avvenimenti accaduti e per questo irreversibili. La donna guarda la ragazza che fu e che non vorrebbe tornare a essere. L’urgenza vive anche la volontà di dimenticare. Ma dimenticare significa ricostruire il dimenticato. E ricostruire serve solo a passare la mano alla distruzione. La scrittura diviene liberazione.

Memoria di ragazza è la narrazione di una scrittrice che descrive il suo intimo rapporto con la scrittura. I dubbi, le certezze e i bisogni che l’atto favorisce. Ancora, la scrittrice è la fanciulla del 1958, la ragazza popolare della drogheria, la figlia unica, la creatura che ha bottinato il mondo attraverso i libri, l’avvicinamento inesperto al sesso. Sì, il sesso, quello dovuto per fingersi scioccamente emancipati.

L’istante della scrittura è il balsamo della memoria, un soccorso nella curiosa illusione di riviversi, un sostegno alla volontà di raccontarsi.

Il tempo del foglio diventa la dimensione neutra, quella della parola scritta. Ciò che è scritto è accaduto e l’accaduto può solo godere della certezza che non accadrà nuovamente.

Lo sguardo indietro vive il naturale imbarazzo di un passato vissuto a spinte di goffaggine, sosta nell’impossibilità di trovare un senno del prima e perdura nella frattura tra chi eravamo e chi siamo. È dentro lo scisma che nasce la scrittura. Raccontare tutto per separarsene solo dopo averlo narrato. Perché scrivere è anche distruggere, demolire l’avvenuto dentro di noi, cancellare il passato degli altri su di noi, annientare il pregiudizio nel giudizio.

Il racconto di questa opera imprescindibile per garbo, traduzione e sapienza narrativa è tutta dentro la volontà di abitare il ricordo, non nel puro atto mnemonico, ma nel farsi ricordo stesso e bruciare quell’esistenza altrimenti destinata all’oblio adolescenziale.

Il romanzo è l’essere; l’esserci: stare nel 1958 da una stanza del 2014. Il luogo è quello dei richiami letterari:

«In un ambiente intessuto di complicità di cui non fa parte, si scopre anonima e invisibile». Qui Annie, Duchesne o Ernaux, muta ne La signora Dalloway:

«Aveva la bizzarra sensazione di essere invisibile, non vista, non conosciuta»[1].

L’una e l’altra insieme a scoprirsi invisibili.

Fuori dall’inciampo vanitoso, la Ernaux dona al lettore riferimenti letterari e cinematografici: Les Amants, Ultimo tango a Parigi e Hiroshima mon amour per il cinema. Lo straniero, Memorie dal sottosuolo, il suggerito Mrs Dalloway per la letteratura.

La scrittrice passa dalla prima alla terza persona senza perdere alcuna intimità con il lettore. Nella prima resiste una donna che si interroga su una ragazza. Nella terza accade una fanciulla che indaga se stessa. Tutti i passaggi avvengono su un piano armonico, non procurando urto alcuno.

Il ricordo di ciò che ho scritto già si cancella.

Non so cosa sia questo testo.

Persino quello che inseguivo scrivendo il libro si è dissolto.

La scrittura si fa scrivendo.  

 

[1] Virginia Woolf, La signora Dalloway, Einaudi editore, Torino, 2014, pag. 11

Cultura. Giacomo Casanova glorioso antieroe del ‘700 – Über-Marionette felliniana

http://www.barbadillo.it/50003-cultura-giacomo-casanova-glorioso-antieroe-del-700-e-lallegoria-felliniana/30 novembre 2015

Un richiamo brutalmente dirompente attraversa i secoli per divenire, dannunzianamente sparlando, un’opera d’arte. Rievocazioni raccolte nelle Memorie – Mémoires écrits par Lui-Même e Histoire de ma vie – dove l’avventuriero più noto del ‘700, scrive per sottrarsi a un presente vuoto e rivivere un passato epico. Studiato, amato, detestato, riecheggiato, invidiato e compatito, figura come l’immagine più celebre e rappresentativa di un uomo: Giacomo Casanova. Un orgoglioso gaudente che scrive come atto occorrente e definitivo: tornare alla vita e rivolgerle il saluto. Disinvolto nel racconto, non tenta l’abbellimento estetico, non domanda assoluzione morale: offre se stesso spòglio di oziosi eroismi.

Le Mémoires e l’Histoire de ma vie ritraggono una esperienza non tanto letteraria quanto umana: la vita si mette al servizio della scrittura. Tale l’attraversamento dell’assenza di morale come affermazione di una personalità affrancata da vincoli: il solo richiamo è quello della piena dissolutezza. La disonestà verso il prossimo, diviene in Casanova, l’onestà verso se stesso. Respinta è qualsiasi ambizione alla condizione di eroe e al conseguente riconoscimento umano. Un talento epicureo che fagocita indifferentemente donne, azzardo e città. Cavalca freneticamente l’istante, alla maniera di colui che non contempla l’esistenza di un tempo altro dal presente. Un uomo edificato sulle fondamenta di un vuoto. Salottiero e spietato, impermeabile alla compassione, figura come il maschile più rappresentativo della sua epoca. Immagine e nome viaggiano nel tempo, giungono alla contemporaneità e si fanno emblema di un certo voluttuoso vivere.

Dalla lettura dei suoi scritti emerge un individuo che riserva agli altri l’apparenza: probo con se stesso, baro con il prossimo. Si pone all’ascolto della sua natura come l’unica guida fedele. Un potente richiamo ancestrale lo porta lontano da radici e legami. Non esiste alcun essere umano capace di trattenerlo in qualcosa; anche l’amore, all’apparenza più travolgente, esercita minor presa di un’avventura improvvisa. Giacomo Casanova è la disintegrazione di ogni vincolo, la più arcaica lotta ai retaggi, il denudarsi di un individuo che diviene esclusivamente la sua essenza. Non prospera in lui alcuna morale, neppure nella forma più leggera della nostalgia. Gabbare per non esser gabbato, gioca con la vita come con le carte, rischiando per tornare a rischiare, bruciando per tornare a bruciare. Il suo sguardo non cala mai in profondità, segue la prospettiva velleitaria e l’appagamento immediato.

Se da un lato il mariuolo veneziano si costituisce come l’essenza ultima dell’uomo nel nome del piacere, dall’altro è sostanza di un’assenza, creatura abitata dal vuoto. Voragine che nella legittimazione lo ascrive a mito. L’atto del colmare alimenta l’abisso: il circolo vizioso ripiega sul suo medesimo meccanismo. Oltre il non trascurabile dettaglio storico, in tale zona si inserisce la più importante discrepanza con l’immagine del don Giovanni. Casanova nel regalare piacere, porta la consapevolezza della voluttà al mondo femminile: dona e prende senza razziare. Don Giovanni accatasta conquiste sulla spinta di un odio, saccheggia e ferisce sapendo di farlo.

Il Casanova di Federico Fellini

Nella cinematografia, si deve a Federico Fellini il ritratto definitivo e monumentale del seduttore veneziano. Il Casanova di Federico Fellini, pellicola del 1976, interamente girata all’interno del teatro 5 di Cinecittà, descrive un’epoca attraverso una meravigliosa e inquietante galleria di quadri in movimento. Il film è claustrofobico, introspettivo e visivamente galvanizzante. Il regista non ama il personaggio. L’attore, un maestoso Donald Sutherland, patisce la parte. La critica dell’epoca boccia il film in maniera decisiva. Gli scritti di Casanova sono per Fellini solo un’occasione per mettere in scena una figura colossale. Una forma puramente junghiana che al microscopio del regista, presenta una voragine priva di anima, l’immagine più vicina alla marionetta. Fellini intriso di psicologia analitica, ma anche di un accentuato senso religioso, non nasconde il fastidio per l’avventuriero e sembra adoperarlo come opera di condanna di tutte le pulsioni umane.

La pellicola, mediante un cinema pittorico, esibisce impietosa tutti i mali di un uomo incapace di sentire. Nella lettura junghiana/felliniana, Casanova non si fa mai uomo poiché impossibilitato a lasciare l’unica radice della sua vita: l’imago materna. L’ammaliatore settecentesco è dunque una creatura infantile, vive e agisce come un bambino imprigionato nell’ambiente dell’infanzia: il grembo materno. L’incedere nel film, mostra un’assidua ricerca di gratificazione emotiva, proprio alla maniera di un fanciullo che domanda attenzione ai propri genitori. In questa prospettiva Casanova è un essere metafisico alla ricerca della propria completezza. Gli stessi rapporti sessuali si consumano nella totale indifferenza, in una sorta di rituale danza meccanica, accompagnata dal totem/carillon che suona le note di Nino Rota.

Il Casanova felliniano è dunque forma che trova la vita in una dimensione altra, quella metafisica della ÜberMarionette. Tali sono anche gli abitanti della corte di Wurtenberg, il luogo spettrale dove incontra la ÜberMarionette Rosalba, la bambola meccanica. L’incontro di due eleganti fantocci, figura il momento più romantico del film: il ritrovo di due esseri autorizzati ad amare solo in una dimensione sovrumana. L’amore appartiene a mondi altri: si afferma nella sua impossibilità. Casanova ama un’immagine artificiale all’interno di un cosmo inesistente. Tutto il film è teso a sottolineare i due piani: il reale ricostruito con minuzioso artificio e il sogno che transita dal regista al personaggio per giungere allo spettatore.

La storia e le memorie figurano come una sorta di mitobiografia. Il libertino è mito prima di finire sulla pagina: l’inchiostro conferisce eternità alla figura. Nel castello di Dux in Boemia, la scrittura è bisogno primario, antidoto alla fine ineluttabile della carne. In totale assenza di spirito, attingere al ricordo è forma vitale. Federico Fellini, sebbene in dichiarata idiosincrasia, omaggia il libertino con una pellicola tesa a suscitare, al pari dell’opera scritta, sentimenti contrastanti. Mediante una rivisitazione libera, trascina lo spettatore in un altrove ricco di contraddizioni dove l’angoscia si unisce alla tenerezza, l’eros al funereo e il sogno alla realtà. Giacomo Casanova è il fuoco fatuo che non smette di bruciare. Oltrepassa le epoche come un glorioso antieroe del ‘700.

La passione per le cosce salverà il mondo: le “Lettere alle amiche” di Céline

L’immagine by Père Ubu è concessa in licenza con 
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È nel tempo un sentimento diffuso dal sottosuolo, un’emozione scrutata dagli abissi, uno sguardo sghembo al sentimentalismo. Un pungolo al non amare che si fa assestamento di un affetto reale. Un negare che afferma in un lucido delirio. Dissolti nella contraddizione,  sussulti di cuore e carne attraversano impudentemente le Lettere alle amiche (a cura di Colin W. Nettelbeck, traduzione di Nicola Muschitiello, Adelphi, pp 257, euro 15) scritte da Louis-Ferdinand Céline.
La contraddizione è materia viva e pulsante. Accade quando la vita supera in forza l’ideale. La tensione all’idea è più debole dell’accadere. In tale superamento, l’ideale esce da quello stato di immutabilità, riprende vigore per assolvere il suo compito: essere un’antinomia. Le idee rendono compiuti, il potere della contraddizione rende liberi. Un ideale venerato diviene acquitrinoso e muore. E se Destouches cade in contraddizione, il primo impeto è quello di scrivere un’ode all’incongruenza. La coerenza è dell’individuo sociale e Céline non è l’uomo, non solo, è parte di umanità nella grandezza di artista.

Il momento è la sospensione tra Louis Destouches, Céline e Bardamu. La corrispondenza attraversa un periodo che va dal 1932 sino, nel caso di Evelyne Pollet, al 1948. Non si tratta del consueto carteggio d’amore, non figurano sentimentalismi e il cielo conserva lo stesso colore della sua opera maggiore, il Vojage. L’appuntamento è con sei donne, diverse per temperamento, posizione sociale e provenienza. Creature accomunate dalla passione per un uomo che rifugge la parola amore. Un carteggio come inno alle gambe: non la fiamma del cuore dunque, ma l’idolatria delle cosce salverà l’umanità. Ed è proprio il negare questa tensione al puro ardore carnale, secondo Céline, a portare l’individuo all’infelicità.
Alla studentessa tedesca Erika Irrgang è destinata un’esortazione definitiva: emanciparsi dal romanticismo. Lo sport, l’ordine e il perseguimento di un obiettivo sono per il medico di Meudon, i rimedi al male di esser giovani. Una sollecitazione a un asfissiante realismo, affrancato da alcun afflato sentimentale. L’auspicio al festeggiamento di una donna che non viva il momento dostoevskijano: la distruzione e la dannazione non appartengono alla creatura femminile. Un abbraccio dal sapore paternalistico è ancora il tono usato con l’insegnante di ginnastica N.. All’amore per le cosce si mescola quello per il “popo” (culetto). Un’attenzione benevola si accorda a un’importante tensione alla carne. Un trasporto lascivo allevia l’ineluttabile caduta nello sconforto.

Il ricordo delle sue cosce mi basta ancora. Sono un sentimentale. Mi racconti tutto ciò che succede. Nella sua vita e tra le sue gambe.

Tornano nuovamente le raccomandazioni alla concretezza e all’ambizione. Tra Destouches e Céline, sopravvive un uomo che non sa parlare d’amore, non alla maniera convenzionale. A N. viene richiesta l’inclinazione viziosa come antidoto al sentimento. La loro amicizia, della durata di sette anni, attraversa tre opere di Céline: Vojage au bout de la nuit, Mort à crédit e Mea culpa. Un clima di sospensione, anche per l’arrivo imminente della guerra, avvolge le lettere tra lo scrittore e la letterata belga Evelyn Pollet. L’autore del Vojage appare maldisposto nei riguardi della letteratura femminile. Se da un lato tenta la via del supporto, dall’altro la invita a un più accessibile mestiere giornalistico. Si definisce un cattivo lettore poiché un libro è come la morte. Ancora un’esortazione all’intraprendenza sessuale, all’uso della figura maschile come immagine materiale e di sostentamento. Si rinnovano in tale corrispondenza i temi cari al Vojage: l’uomo destinato al tedio, alla sopportazione possibile solo attraverso la contraffazione della vita. La presenza imperativa del romanzo muove non solo nelle tematiche ricorrenti, ma nelle parole stesse dell’autore: “noioso, insulso e da vomitare”. Una forma curva di apoteosi della vanità che non risparmia alcun essere umano, ancor meno Céline: il denigrare come forma di affermazione.

Non c’è uomo che non sia prima di tutto vanitoso. Dal Vojage.

Condanne ed epifanie: accanto al biasimo per la malinconia, si muove l’inno al vizio, il torbido e l’ignobile. Depravazioni oneste che non ingannano con false speranze. È un tornare a guardare l’abisso dall’abisso, scendere nel sottosuolo per restare. Fuggire la luce, il tempo ordinario ritmato dai suoni borghesi per accomiatarsi dall’abiezione  dell’essere umano. L’individuo è zavorra: pesa e rallenta. Pesanti sono le maschere, i ruoli e i personaggi da interpretare quotidianamente. La gelosia finisce nell’atto deplorevole. Céline abita voragini libere da assilli sentimentali sino alla comparsa di Karen. È in quell’istante che anche il bieco si fa eccezione e muta prospettiva. Il medico è geloso, a suo modo certo: mediante negazione. Karen Marie Jensen è una ballerina e Céline si fa il Degas della scrittura.

Mi piacciono sempre le ballerine. Non mi piace nient’altro, addirittura. Tutto il resto m’è orribile.

La danzatrice è l’immagine di una melodia carnale, un corpo disciplinato e leggero. Karen è sfuggente e lo scrittore è l’uomo che rincorre in un gioco vecchio quanto l’amore. Dunque anche nel più profondo dei disincanti, il disilluso può farsi illuso. Ma un disincanto che si fa beato è per Karen triste e deprimente. L’incontro scontro accade con la pianista francese Lucienne Delforge. È il rendez-vous di due inquietudini tra diversi piani artistici. Nell’avvicendarsi di musica e letteratura, per la prima volta si ode un sussulto dall’abisso, nel realismo più cupo giunge la più sonora delle grida: “ti amo”. L’allontanamento si fa liturgia e passione: “Ti amo tanto e per la vita, inevitabilmente”.
Con la giornalista Lucie Porquerol non nasce alcuna relazione amorosa. Pochissime le lettere, nuovamente testimonianza di uno sguardo impietoso sulla disperazione personale e storica.

La corrispondenza non disegna un uomo diverso dall’artista del Vojage. Esiste un filo, per nulla trasparente, tra il viaggio al termine dell’umanità e il tragitto alla fine dell’amore. Uno sguardo abissale che occhieggia la voragine dei sentimenti al netto degli “ismi”. È un amare alla fine dell’amore che è principio ed epilogo in un ventre vizioso di impossibilità. Il sentimento definitivo è carnale.

  • 29 febbraio 2016

La poesia irregolare del cineasta russo Andrej Tarkovskij

http://www.barbadillo.it/47005-poesia-cineasta-russo-andrej-arsenevic-tarkovskij/,12 settembre 2015

Consegna all’immagine una lirica esistenziale al seguito di un grande verso della poesia dissidente: contestazione che si realizza attraverso l’uso sapiente di un esclusivo linguaggio onirico. Posto a confronto con molta cinematografia russa negli anni del disgelo, il suo cinema si contraddistingue per una narrazione che non favorisce la propaganda. Non adotta la storia per mettere in scena opere retoriche ma, nel suo lavoro solitario, si allontana dal populismo per calarsi nell’abisso dell’uomo. All’ideologia dominante oppone un’altra ragione, quella della poesia in grado di superare le antinomie storiche e umane. Il motore della storia è prima di tutto l’uomo.
Andrej Tarkovskij occupa nel panorama della cinematografia mondiale un posto di assoluto rilievo. La sua opera filmica si impone con meno di dieci film, dove la seduzione operata dalle immagini, si leva con eccellenza e singolarità. La scelta ricade su un linguaggio esistenziale in cui la cultura russa si snoda come un’eco lontano, ma non per questo dimenticata. Una narrazione poetica libera che si sostituisce a ogni forma di proselitismo. Il lessico tarkovskiano è suggestivo nella misura in cui non dichiara, ma è incline a sottendere. È frammentato nell’istante in cui decide di seguire le vie impervie della visione onirica: il sogno si spoglia del sogno per rendersi realtà. Tarkovskij rende corporeo l’invisibile sommerso nell’uomo: “film d’azione interiori, western in cervelli”.
“Stalker”, film del 1979, verosimilmente il più noto insieme a “Nostalghia”, figura come la pellicola maggiormente rappresentativa nella filmografia del cineasta russo. Tratto dal racconto dei fratelli Arkadij e Boris Strungackij, “Pic-nic sul ciglio della strada”, del tutto rivisitato, è un lungometraggio perturbante che scompagina lo spettatore con la silente richiesta di molteplici visioni. Il titolo dell’opera è un termine inglese che indica colui che si avvicina di soppiatto, alludendo alla preda. Una sorta di guida che conserva come ultima destinazione la ricerca di una stanza per la realizzazione dei desideri. Si muovono lentamente all’interno delle inquadrature tre personaggi principali: uno scienziato, uno scrittore e la guida, lo stalker. Ragione e percezione emotiva, garbatamente sollecitate da un’unica tensione: l’anelare, peculiarmente tarkovskiano, a qualcosa che consenta all’uomo di vedere realizzati i propri desideri; un interrogarsi per immagini sul significato ultimo dell’esistenza; una metafora poetica e spirituale sulla vita interiore. Invero, lo sgomento umano è magistralmente concepito da una macchina da presa che, dal campo lungo, indugia sul dettaglio di una natura desolata. Sequenze che abitano il vuoto esistenziale.
Un percorso critico nel ventre di un ambiente fosco e ostile dove non si tenta la dissimulazione di un accorto autobiografismo. Il rapporto con gli eventi storici viene totalmente accantonato in favore di una ricerca sull’uomo. La finalità di questa opera, non agevolmente comprensibile, sembra essere una forte esortazione alla presa di coscienza: guardare l’ombra che abita ogni essere umano. A fronte di uomini fragili, troneggia in chiusura del film, l’immagine di una creatura: la figlia dello stalker. Una bambina malata, emblema di un candore violato. Senza osteggiare la vita e nonostante la storia, per Tarkovskij l’esistenza è un miracolo: la piccola conduce alla riappacificazione tra l’uomo e l’insopportabile peso del mondo.
Spesso ostacolato nel proprio lavoro, Tarkovskij lascia in eredità un patrimonio cinematografico e poetico di valore inestimabile. L’Italia, attraverso il suo paesaggio, la ricchezza culturale, nello specifico l’Abbazia di San Galgano in Toscana e la figura di Tonino Guerra, contribuisce a una delle sue opere più belle: Nostalghia. Un affresco pittorico e lirico sulla nostalgia che si svolge in un continuum senza tempo, tra la memoria del passato e l’incombenza del presente. Un regista importante che, in uno spazio senza confini, rappresenta l’indagine sull’universo più arduo da decodificare: quello intimo e insondabile dell’essere umano.


Non mi interessavano il movimento esteriore, l’intrigo, il complesso degli avvenimenti: di queste cose di film in film ho sempre meno bisogno. Mi ha sempre interessato il mondo interiore dell’uomo: per me è assai più naturale compiere un viaggio dentro la sua psicologia, dentro la filosofia che la nutre, dentro le tradizioni letterarie e culturali sulle quali riposano le sue fondamenta spirituali. Quello che mi interessa è l’uomo, nel quale è racchiuso l’universo, e per esprimere l’idea, il senso della vita umana non è assolutamente necessario costruire a sostegno di questa idea una trama di avvenimenti.
*Andrej Tarkovskij – Scolpire il tempo

Quell’incantevole prodigio di nome Charlotte Gainsbourg

http://www.barbadillo.it/74194-cinema-quellincantevole-prodigio-di-nome-charlotte-gainsbourg/, 19 aprile 2018

Con indosso le imperfezioni del padre e l’icastica bellezza della madre, benché dentro un talento tutto suo, consegna alla musica una voce mossa dal vento e al cinema un’interpretazione intimista che la consacra come una delle attrici più acclamate. Tra anfrattuosità e linee decise, il suo volto avvolge la pellicola per farsi musa di autorevoli cineasti.
Fille de l’artCharlotte Gainsbourg onora e travalica la stessa arte all’origine dei suoi natali. Sapiente interprete, cantante e autrice, accende con toni garbati ogni pellicola sulla quale troneggia. Tra le sembianze imperfette del padre, l’attore e chansonnier Serge Gainsbourg, e l’incanto ribelle della madre, l’attrice Jane Birkin, Charlotte si impone con un grande spazio tutto suo, dentro uno stile personalissimo. Si avvolge in una bellezza apparentemente imperfetta, ma gemicante di seduzione.
Un appel discreto quanto polarizzante, la incorona regina della settima arte: ogni film è un abito di chiffon cucito ad arte per la sua figura . Indossa tutto con disinvoltura: dalla Lolita malinconica e incestuosa de Il giardino di cemento, scritto e diretto dallo zio Andrew Birkin, sino alla dolente ninfomane di Lars von Trier. Con il regista danese si muove con il portamento lieve e potente della musa nella Trilogia della depressione. Sulle note di Lascia ch’io pianga del compositore tedesco Händel, la Gainsbourg interpreta la disperazione di una madre che è donna, amante e creatura dannata. Lars von Trier, con Antichrist, la getta in un ruolo sulfureo che restituisce il lato oscuro dell’esistenza umana. Il sesso si lega alla violenza della morte: due genitori sono nell’imminenza della carne, mentre il figlio precipita dalla finestra e muore. La neve e l’aria di Händel a contornare un dolore che scassa ogni margine sino a giungere alla vetta della psicosi. Un compito arduo per planare e infine calarsi nell’essere razionale di Melancholia. Claire, nella pellicola del regista danese è la coltre di luce nell’oblio della sorella Justine. La Gainsbourg è il basamento necessario a far esplodere la sensibilità dell’altra: è il bianco che permette al nero di divenire ancora più oscuro e concedersi il passaggio nell’altrove malato della sessualità in Nymphomaniac. In divergenza con altre interpreti, la Gainsbourg lavora in piena sintonia con il discusso Trier. Il regista viene sovente messo sotto accusa da altre attrici, non solo per le tematiche, ma anche per l’approccio presumibilmente inclemente sul set. La polemica più nota è quella con la protagonista di Dancer in the dark: Björk Guðmundsdóttir.

Il volto della figlia dell’arte è capace di muoversi da un ruolo all’altro, lavorando con diversi maestri della cinematografia. In Ritorno alla vita, film di Wim Wenders del 2015, è ancora nelle vesti di una madre fiaccata dalla perdita del figlio. Nuovamente interprete del dolore, avanza tra i panorami gelidi del Canada, tracciando tutte le tappe della disperazione sino a giungere a una dolce rinascita, scandita dal perdono e dall’accettazione. La pellicola è una lirica sul dolore che l’attrice restituisce tramite un’interpretazione cadenzata da moti intimisti e composti. L’angoscia per la scomparsa può caricarsi di varie tonalità, da quelle oscure di Antichrist, a quelle perverse de Il giardino di cemento,sino a quelle tenui di Ritorno alla vita.

Il tema della perdita ricorre in molte interpretazioni e Charlotte si ritrova nei fotogrammi di un’altra trilogia, quella appunto della morte, firmata dal regista messicano Alejandro González Iñárritu. In 21 grammi è Mary, la donna nel granitico desiderio di maternità. L’angoscia dell’esistenza viene risolta nella volontà di procreare, per quanto in prossimità della morte del coniuge. La vita è pretesa da una creatura che si avvia alla fine. Il regista si rivolge all’attrice in nome della considerazione portata alla figura del padre Serge, ma ne esce completamente conquistato dalla figlia Charlotte.

Ancora un lutto a trainare la pellicola del 2010 di Julie Bertuccelli: l’Albero. Tratto dal romanzo di Judy Poscoe, Our father who art in the tree, il film fonde elementi fantastici a caratteri inevitabilmente realistici. L’albero, da sempre simbolo del cosmo, disegna nei fotogrammi della Bertuccelli, l’incarnazione dell’anima che fatica a lasciare la vita terrena poiché trattenuta dal dolore dei cari. Simone, dopo la perdita del padre, continua a sentirlo nella maestosa presenza di un albero. La madre Dawn, nell’interpretazione di Charlotte Gainsbourg, descrive il trait-d’union tra il corso immaginario della figlia e l’accadere del quotidiano, quell’imminenza che non risparmia nessuno. Il dolore dalle radici passa alle fronde sino a raggiungere il volto di Charlotte. Solo un “terrae motus” condurrà il mondo fanciullesco dentro quello adulto, sull’onda della speranza: il rientro nella vita. La Gainsbourg riceve la candidatura al premio César, il riconoscimento francese de Académie des arts et techniques du cinéma.

In 3 coeurs film del 2014, del regista francese Benoît Jacquot, la fille de l’art descrive l’amore nell’assenza. Sylvie è il treno mancato di Marc, un ispettore delle poste. Si incontrano per caso nella provincia francese, tra dialoghi garbati e tacita attrazione, trascorrono la notte passeggiando per le vie della cittadina. Una promessa li reclama nel futuro appuntamento a Parigi, nei giardini di Tuileires. Un attacco di cuore impedirà all’uomo di raggiungere il luogo dell’incontro. Impedimento che catapulterà le vite di tre individui nel girone dell’amore mancato.

Ho perso il treno. Perdo sempre i miei treni

La dichiarazione a inizio film è presagio di un matrimonio sbagliato e di un sentimento perso. Charlotte Gainsbourg è nella sua assenza tutta la seduzione di una figura rarefatta. L’uomo sposa la sorella di Sylvie, ignorando il legame tra le due. Nell’opera 3 coeurs, l’attrice è l’espressione massima dell’amore sfiorato, dunque mancato e infine perso. Di nuovo il sentimento è legato alla morte: la fine di un legame mai iniziato, nondimeno infuocato e il decesso di Marc per un altro infarto, lo stesso male che aveva sbarrato l’accesso alla sfera del sentimento autentico.

Arretrando di qualche anno, l’immagine è quella dell’attrice franco-britannica accanto al regista Zeffirelli nella trasposizione cinematografica del primo romanzo di Charlotte Brontë: Jane Eyre. Con un volto dalle pieghe nebulose, la Gainsbourg restituisce l’effigie di una Jane intensa e salda nel proprio ruolo. Un’istitutrice, che proprio attraverso i suoi mezzi, riesce ad affascinare una nobiltà avvizzita e scorgere un pertugio nel cuore di un uomo apparentemente ruvido, ma intensamente melanconico. Quando gira il film, l’attrice ha solo venticinque anni, ma si accosta con sapienza a grandi nomi quali Maria Schneider, William Hurt, John Wood e Geraldine Chaplin.

L’uomo di neve del regista Tomas Alfredson è la pellicola del 2017 che vede la Gainsbourg al fianco di Michael Fassbender. I paesaggi ghiacciati di Bergen e Oslo richiamano il set di Wenders in Ritorno alla vita. Ugualmente, seppur in un’atmosfera cruenta, la sua interpretazione si assottiglia in una presenza sempre discreta, ma fondamentale per le sorti dell’uomo e del film.
Al 2017 è da far risalire anche l’album Rest, creato insieme a Guy-Man (Guy Manuel de Homem-Christo) dei Daft Punk. L’attrice diviene autrice e firma quasi tutti i testi con il supporto del produttore SebastiAn. Le note dell’album si snodano su un pentagramma amaro, dove la chiave di violino è disegnata dal tema della morte. Quella del padre Serge nel 1991 e quella della sorella Kate Barry, morta suicida nel 2013. Rest è un viaggio in francese dentro l’indagine delle situazioni dolorose vissute dalla bambina Charlotte sino alla donna Gainsbourg. Con la lingua francese si emancipa dall’ingombrante figura del padre e costruisce un’identità musicale personalissima.

Charlotte Gaisbourg è artista completa. Mediante una miscela di garbo e seduzione è attrice sapiente, cattura la macchina da presa e la piega al proprio volto. La sua voce è un sussurro lontano che avvolge l’ascoltatore in note intime e garbate. Icona di uno stile personalissimo, occupa il trono con una grazia priva di artificio, ma che seduce dal primo fotogramma.