Film de chevet: À bout de souffle

Consigli di stagione: consegnarsi per sempre all’opera

Foto: TGSM/Télam/jcp

Presso la virulenza di una stagione arroventata, nel tempo della canicola, cade l’appello al refrigerio, la convocazione dell’arte come balsamo rigenerante. Sospensione e salvezza giungono da lontano, rispondono all’invito per riportare gli animi in direzione contraria. Contraria a cosa? A tutto.

Quando l’arte è già passata per la rivolta, torna utile stenderla alla maniera di un velo novello in vista a folate di vento cocente. Ipotizzabile è l’obiezione che tutto, ma proprio tutto, è stato detto, scritto e pensato sul primo lungometraggio del regista francese Jean-Luc Godard. Ma se il cinema è scampo da una stagione a morsa stretta, l’auspicio è che nella ripetizione si trovi un dettaglio e, nel dettaglio, il moto vaporoso della memoria. Ricordo di stile e di vita, qui nello specifico a descrivere l’umanità.

L’incresciosa sorte dell’individuo è tutta in quel respiro: l’ultimo prima di cadere in un bacio, schiantarsi nella vita e dimettersi da un selciato a montaggio funebre. Tuttavia, affrancati dalla resa, nessun soffio al veloce passaggio del rincrescimento. Tutto brucia: la pellicola e l’individuo. Incendiare l’amore nella truffa e l’inganno nell’amore. Piani sequenza a perdere e recuperare la narrazione. Scardinare l’ordine nella ‘città lumière’ che nei passaggi furtivi smarrisce l’elemento fulgido per votarsi al noir. Parigi, dama oscura: grembo di bellezza e noncuranza. Una sagoma troppo azzimata di egotismo. Parigi ingaggiata a curare un abito di luci e caroselli. Trame di lunghi viali illuminati per l’occasione. E l’occasione è quella di bordare le vite per farsi impassibile testimonianza del principio ineluttabile. La natura donna: cristalli di tenerezza nel volto di Patricia. La lupa donna, nella gravosa soffiata contro l’amante, amato, ricusato. Il lamento dell’umanità nel filo ridanciano di due creature commutabili, immolate al gioco del nascondimento con il lato oscuro. Figure rafforzate dalla mancanza di una unica soggettività: la macchina da presa accorda, lo schermo tira via. La pellicola conferisce una identità temporanea: il tempo del film. Vince chi arriva primo al traguardo del crepuscolo. Il bianco e nero di un’opera che termina nelle righe orizzontali di un soprabito americano, quasi francese: la pelle di Patricia. E da mademoiselle Patricia a Jean, il passo è nel penoso destino fuori dalla posa, ma dalla sala sibilato. Il grigio di una sigaretta sempre accesa, corroborante compagna nel segno della fedeltà che mancò alla donna. Il vizio salva dalla virtù che non accadde.

Fino all’ultimo respiro è il film di esordio di Jean-Luc Godard, opera che nel 1960 emerge per una vera e propria riforma stilistica e un certo nichilismo di contenuto e forma. La pellicola è nel montaggio sincopato, nelle dissolvenze oscure quanto la critica alla società, sperimentazione di macchina e narrazione come scelta per sfidare le nebulose borghesi. Ma qui il fosco è forziere dell’umanità tutta, incapace di amare compiutamente poiché tarata sul vivre pour vivre.

L’amore è nello spasmo di uno sguardo, nel grido al vento di Francia e nell’esposizione fotografica di una posa assertiva. L’amore è in ogni giro d’angolo del discorso, ovunque parla nell’individuo che tace. Le parole non giungono al cuore, restano in superficie, in quella patina di rimandi letterari e dannati. Il sentimento vive nell’esilio: isolato dall’impossibilità di una condivisione.

L’appello a una ennesima visione nel nome di un’arte che si faccia ricordo del presente e scatto del passato. Morire nella pellicola per riaversi dalla vita, pronti e finiti ai piedi di un’opera, l’unico cospetto con il quale dialogare.

21 luglio 2018

Clarice Lispector – Accadere nella parola

«E la luminosità comunque oscura: questa sono io di fronte al mondo»

Clarice Lispector, Acqua viva

La vita della scrittrice Clarice Lispector (Chechelnyk 1920 – Rio de Janeiro 1977) è tutta dentro la parola. La parola è farsi parola. La parola sgorga dal suo corpo, inciampa in introspezioni e giunge sino alla pagina. L’avvenenza della Lispector si intona fedelmente con la bellezza della sua scrittura. Si apre il libro, lei è lì, sull’uscio cartonato in tutta la sua grazia a portare il lettore nelle stanze più segrete della sua penna.

La parola, sovente fintamente fuori dalla significazione ordinaria, descrive l’epifania della sua personalissima creazione. Fare artistico che nasce insieme al crepitìo della carne: seni a incorniciare aggettivi, ventre vivo nel sostantivo di una piena e, dall’inchiostro, l’arrivo dirompente del piacere. Il lemma accade nell’istante del presente, nel preciso momento in cui stabilisce di spalmarsi sulla pagina.

Clarice è scrittrice in ogni singolo nervo. Clarice è scrittrice nel midollo. Clarice è scrittrice perché intrattiene con la parola un legame carnale di reciproco amore. E nella polpa di quella passione mette nero su bianco il romanzo, i romanzi.

La straordinarietà della Lispector è dentro il foglio bianco: un cappello di carta che si schiude nel bordo. L’esistenza si protende nel ticchettìo di una tastiera laccata di rosso e, tra un bottone e l’altro, accade l’amore, la natura e il corpo che è animale e bosco.

Conscia del baleno dell’accadere, lo sente, lo ammanta e lo restituisce nell’opera attraverso un realismo carnale quanto spirituale.

Quando battezza le cose, le stesse cominciano a vivere e vivendo si incarnano nel creato di un corsiero o di una corolla. La natura si fa corpo, il momento si fa vocabolo, il trucco si fa realtà: la scrittura afferma se stessa. Dalle parole e solo dalle parole giunge il silenzio, l’ardore, la perversione, l’ombra e la luce.

Tutto l’universo mulina attorno alla voce scritta. Fiotto che crea il senso all’interno della mancanza di senso. Clarice è un’ondata travolgente di bellezza. Dal fuori tira dentro. Adopera la perfezione stilistica per condurre l’essere direttamente dentro se stessa. Donna quanto una meravigliosa pioggia di versi. Lei: il potere di confezionarli nella frase più bella. E giunti a rilegatura, possono, mediante una nuvola di tulle, atterrare soavemente sotto lo sguardo di chi legge.

La Lispector è la donna che si romanza, si basta nell’autoerotismo di scriversi, si osserva durante il toccamento e gode di ciò che redige. Un orgasmo di vocali e consonanti, che nel respiro della punteggiatura, raggiunge infine la quiete.

La parola è donna; è donna Clarice; è carne Clarice: danza sabbatica del linguaggio.

L’istante che la scrittrice muta in romanzo è il lampo all’interno del quale la donna si compie.

Tutta la scrittura è l’universo dove lei si innalza a sovrana: Clarice è purezza del lemma. Il mondo esiste perché vive dentro la scrittrice e in lei tutto si ricongiunge in un lungo coito fuoriuscito dal proprio inchiostro. L’impersonale del quale si appropria, figura l’escamotage per essere quanto più possibile personale e intima. Abdica per esserci con ancora più veemenza. Nell’opera della Lispector, la parola è tanto lucente sino al punto di rimandare all’ombra. Foschia che abita l’essere primitivo e nel primitivo vive.

La scrittrice è creatura ancestrale, voce della natura selvaggia, amazzone e lupo. Il suo animo è affine, e dentro quello di una bestia istintuale e bellissima.

Un unico metronomo a mettere il punto al periodo: il respiro. L’afflato che finge di non raccontare, ma diviene unico grido della coscienza.

Clarice Lispector è la donna fuori dalla cornice della vita e dentro quella del midollo scritturale.

(da ANIME INQUIETE – 23 storie per mancare la vittoria)

Il Malamore de Lo Spietato

Renato De Maria omaggia Enzo Carella

Lo spietato, uscito nelle sale cinematografiche per tre giorni, dall’8 al 10 aprile, ora disponibile sulla piattaforma Netflix, è un film del regista Renato De Maria, scritto insieme a Valentina Strada e Federico Gnesini, ispirato al romanzo Manager Calibro 9 di Pietro Colaprico e Luca Fazzo, libro sulla vita del pentito Saverio Morabito.

Il regista costruisce una pellicola sul valore della memoria, quella cinematografica con il fine di omaggiare il genere poliziottesco anni ’70, capeggiato da Umberto Lenzi e Fernando di Leo, solo per fare due nomi. La narrazione della vita di un malvivente permette a De Maria di mostrare il cinema nel suo farsi storia, costruendo una gangster comedy che vorrebbe strizzare l’occhio a Quei bravi ragazzi. Qui il volere non è potere. Il volere è nel fare altro. 

L’altra memoria, quella intima del ricordo dei dimenticati, evocata dalle note di Malamore dell’obliato Enzo Carella su testo di Pasquale Panella. Parole di grazia e mesto erotismo a introdurre fotogrammi legati alla donna, alle donne. La cover, rispettosamente interpretata dal cantautore Riccardo Sinigallia, si guadagna anche un meritato videoclip sempre per la regia di De Maria. La memoria è dunque tutta dentro la visione rivoluzionaria di un certo cinema e di una musica certa.

È una pellicola sulle anime smarrite nel tempo e nella morsa di una malavita già scritta nei primi anni di vita. Riccardo Scamarcio indossa perfettamente l’abito e il volto del pentito Santo Russo. La nascita nella provincia calabrese, l’arrivo a Buccinasco nella prima adolescenza, il carcere di Beccaria per uscirne infine completamente pronto ad affrontare una Milano nel pieno dello sviluppo economico e pertanto anche dell’espansione criminale.

L’attore sembra vacillare, forse volutamente, sulla modulazione milanese per riprendersi del tutto nel dialetto calabrese. Veste il volto giusto con il disincanto e l’efferatezza nello sguardo. L’approccio è carnale, non solo nelle sequenze di sesso, ma durante tutto il film. La carnalità prende ogni gesto dell’interpretazione conferendo un’andatura sicura e all’altezza del ruolo.

Il film è il malamore di uno spietato che, nella mestizia di note dimenticate, diventa il fil rouge di tutta la pellicola. L’amore è “di colpo o di corruzione”, “di febbre o di consunzione”; l’amore è il malamore che ammanta una Milano infoschita dalla violenza propria di un determinato periodo storico. L’amore è il malamore che divide un uomo tra il moto certo di una moglie (Sara Serraiocco) e il turbamento improvviso di un’amante francese (Marie-Ange Casta), ma ça va sans dire: una moglie sa quello che un’amante crede di sapere.

Il film è altresì un omaggio ai costumi del tempo, dalle automobili all’abbigliamento, una finestra che si affaccia sul dettaglio preciso della ricostruzione minuziosa. Il ritmo segue i tempi della narrazione, la velocità di un’ascesa nel mondo della malavita e le ore calme della caduta. Il verso accade all’interno dell’essere umano, il disfacimento spirituale collima perfettamente con quello ambientale.

La sapienza attoriale abbraccia tutti i protagonisti, creature trafitte da una macchina da presa che sa muoversi nelle pieghe dei volti attoriali di Alessandro Tedeschi, Alessio Praticò, Ignazio Oliva e tutti gli altri.

Da vedere e ascoltare.   

Sofia Coppola, la donna con la macchina da presa

Sofia Coppola

da http://@barbadillo.it, 16 novembre 2015

Sofia Coppola (New York, 14 maggio 1971)

Con una trasversale opera di avveniristica reinterpretazione, il titolo di un film del 1929 di Dziga Vertov, approda ai giorni nostri, nella veste de “La donna con la macchina da presa” a indicare colei che nasce dall’arte e nella stessa si incammina. Battezzata – non solo metaforicamente – dalla sapiente macchina da presa di papà Francis, nella scena del battesimo de Il Padrino. È il neonato Michael Fracis Rizzi, nella cerimonia ritmata parallelamente con lo sterminio dei capi delle cinque famiglie. Un’immigrata sulla nave che ne Il Padrino II, conduce Vito Corleone a Ellis Island. Ancora, Mary Corleone, una fanciulla innamorata del cugino Vincent, Andy García, ne Il Padrino III. Sofia Carmina Coppola, figlia degli indimenticabili fotogrammi di Francis Ford Coppola, nasce, cresce e si laurea nell’arte cinematografica.

Raffinata regista del nuovo cinema statunitense, onora il gene artistico in un personalissimo stile che avanza tra il minimal e l’intimismo. Uno sguardo che si muove tra due poli: il realismo e la magia. Cardini resi abilmente con riprese fisse, movimenti impercettibili, cadenzati da un uso nostalgico della dissolvenza. In alcune opere, l’attenzione di una misurata indagine, si posa sul tortuoso e spesso indecifrabile mondo adolescenziale. Per il tramite di una registrazione tutta femminile nella delicatezza, riprende le ansie, le paure e i dolori di un universo sovente sconosciuto al modo adulto. Violenti contrasti, giocati sul registro monocorde e incolore dell’incomunicabilità. Le figure genitoriali sono lontane assenze incolmabili e vicine presenze soffocanti: in tale nulla, si posiziona come un osservatorio privilegiato, la macchina da presa della regista.

Il primo lungometraggio

Il giardino delle vergini suicide, primo lungometraggio, tratto dal romanzo di Jeffrey Eugenides, Le vergini suicide, disegna un triste affresco poetico della cessazione ultima e definitiva della giovinezza. All’interno della narrazione, si muovono sui toni del bianco, cinque sorelle. Figure evanescenti, rallentate da un pesante fardello di isolamento e dolore, vagano come fate sul suolo di una regione lontana. Mosse dai fili di una madre ottusamente autoritaria, trovano temporanee vie di fuga nei diari, nei rari contatti con i ragazzi e nella musica. Il padre è debole immaginetta che prende vita solo nell’acquiscenza coniugale. L’eccedenza affettiva materna, fa dell’amore un sentimento malato sino alle estreme conseguenze. Le ragazze vivono segregate in una gabbia, che senza musica, non trattiene neppure le sfumature del dorato. L’ambientazione, un sobborgo del Michigan negli anni ’70, è nell’opera filmica il tempo della malinconia. Uno spleen ambientale e temporale, all’interno del quale tutto tende al tenue. Sono delle creature fiabesche, di passaggio a scuola, al ballo e sulla terra. Esistono solo nella seduzione, che la loro bellezza inaccessibile, esercita sui ragazzi. Sono delle fugaci superstiti che transitano, sopravvivendo ad adulti lontani. Permanenza che termina nel consumarsi di un unico gesto definitivo: il suicidio. Le sorelle si dirigono in un altrove che figura come l’estrema via di fuga dal silenzio adulto. La morte è l’affrancamento dalla vita. Sofia Coppola registra implacabilmente, pur senza sottrarre garbo e delicatezza al film. Un’occhiata all’interno del disinganno, diviene un’esplosione assordante che sotterra l’incanto. Disillusione che lo spettatore vive, attraverso quello che lei stessa definisce un “realismo magico”.

Il Leone d’oro con Somewhere

Il tema della solitudine adolescenziale, torna dirompente e attraverso una lirica costruita tutta sullo sguardo, in una pellicola del 2010, Somewhere. Leone d’oro a Venezia, il film mediante una camera prevalentemente fissa, sottolinea la noia irreversibile di un divo hollywoodiano: Johnny Marco. Giornate trascorse presso il noto Hotel Chateau Marmont di Sunset Bolulevard, scandite solo da un ripetersi automatico governato dall’inerzia. Vizi che non generano godimento alcuno, donne bellissime prive di un nome da ricordare, si avvicendano senza lasciare traccia. Avere tutto e non trattenere niente: l’apoteosi di un nulla che scava lentamente, preparando la strada all’ascesa del vuoto. La macchina da presa annota la condizione di immobilità psichica dell’attore, indifferente a qualsiasi stimolo esterno. La prima sensazione è che in tutto il film non succeda nulla. Tuttavia, riposta in quei movimenti impercettibili accade una deflagrazione: l’arrivo impalpabile di una fatina adolescenziale, Cleo, la figlia del divo. Silenziosa, discreta e isolata, si incunea nella impervia vacuità del padre con un tratto lento, ma definitivo. La ragazza vive nell’incomunicabilità e nell’assenza di genitori troppo impegnati a far altro. L’immagine è quella di una candela, che si fa dapprima luce, per poi rendersi faro nell’oscurità intrapresa dal padre. L’adolescenza taciuta, ignorata e isolata, diviene occasione ultima di cambiamento e rinascita. Figli che divengono genitori dei genitori. In un’opera dove i dialoghi sono ridotti al minimo, l’immagine si fa parola, verbo. Allo spettatore compete l’atto di rendersi disponibile ad accogliere eloquenti quadri in movimento. Sofia Coppola riprenderà ancora il tema del vuoto adolescenziale nel più recente Bling Ring, ancora un affresco più spietato, tratto da avvenimenti realmente accaduti.

Il cinema delicato di Lost in Translation

Nota soprattutto per un’altra opera di merito come Lost in Translation, inaugura un genere di cinema fecondato da uno sguardo garbatamente femminile. Non giudica, non condanna e non celebra un universo a scapito dell’altro. Registra, riprende, spesso con quel distacco, proprio di chi non punta a guadagnare consenso facendo leva su un carico eccessivo di commozione. Il fruitore dell’opera è libero di incamminarsi in qualunque direzione. Un cinema delicato e raffinato. Sofia Coppola, la donna con la macchina da presa: regista prima, figlia d’arte poi.

Squarci di bellezza dal Monte Terminillo

Foto di Marco Pagaria

Squarci di bellezza dal Monte Terminillo

Se la città è il luogo scandito dal moto della velocità, la montagna disegna l’urgenza della quiete. Il silenzio è principio governatore dell’altura.

Con i suoi 2217 metri di bellezza, il Monte Terminillo si rivela sin dagli anni ’30 nel verso di una nota espressione: “La montagna di Roma”. Si stima, non a torto, che l’origine dell’affermazione sia da attribuire a Benito Mussolini. Fermamente convinto dell’importanza svolta dalla vicinanza con la Capitale, il Duce pensò al Terminillo come al luogo ideale per praticare, anche a livello agonistico, gli sport invernali. Per tale motivo, nel 1933 chiese al podestà avvocato Alberto Maria Marcucci di costruire la “4 bis Salaria” per rendere percorribile l’accesso al monte. Il progetto fu affidato all’ingegnere Heinrich Gassman, padre dell’attore Vittorio. La pianificazione, portata a termine dopo due anni con la possibilità di giungere sino a Pian di Rosche (1080 Mt), determinò il passaggio a nuovi progetti che favorirono lo sviluppo turistico con la costruzione di alberghi, ristoranti e rifugi.

 Verso la fine della seconda guerra mondiale, il Terminillo divenne luogo di accoglienza per famiglie di gerarchi e sfollati facoltosi. Pochi anni ancora e visse momenti di grande turismo, favoriti dalla frequentazione di personaggi noti della nobiltà e della borghesia romana. Nel 1949, l’attrice Gina Lollobrigida sposò il produttore cinematografico Mirko Skofic presso la “Chiesetta degli Alpini”, meglio conosciuta come la chiesa di Santa Maria della Vittoria, cappella consacrata alla memoria degli Alpini caduti durante la guerra in Africa. Per la ricchezza paesaggistica divenne località privilegiata di straordinari set cinematografici, uno su tutti la pellicola “Il giudizio universale” di Vittorio De Sica.

Fin qui, parte della storia.

Oggi il Monte Terminillo, seppur con qualche irresolutezza, conserva il trono come “La montagna di Roma”. Suggestivo ed incantevole tanto nel periodo invernale quanto in quello estivo, resta la meta privilegiata sciistica dei romani. Nella bella stagione, grazie alla possibilità di effettuare escursioni nei boschi, suggerisce la condizione ideale per godere di tutta l’armonia della natura. Le guide locali organizzano interessanti giornate di trekking. In estate, la vastità del territorio permette di fare lunghe esplorazioni e percorrere il tipico sentiero planetario. Il cammino naturalistico, di circa 8 km, parte dal piazzale dei Tre Faggi e giunge sino al rifugio Angelo Sebastiani. Il tema dominante è di tipo astronomico: l’attraversamento di tutto il Sistema Solare.

La montagna vanta il suggestivo tempio votivo di San Francesco, all’interno caratterizzato da un mosaico absidale composto da più di cinquantamila tessere. Sempre dentro le mura della chiesa è possibile scorgere una cappellina laterale che conserva una reliquia di San Francesco.

In completo stato di abbandono resiste il rudere di Villa Chigi, costruita dall’ingegnere Tadolini e dove il Duce, nonostante la leggenda, non fu mai presente. Erroneamente, forse per i richiami allo stile architettonico del ventennio, viene ancora oggi definita Villa Mussolini. Ma il patrimonio più importante di questo monte resta la bellezza e i suoi numerosi richiami paesaggistici. Concedersi una sospensione dalla città per riscoprirsi creature capaci di ascoltare l’amichevole silenzio della montagna.