Clarice Lispector – Accadere nella parola

«E la luminosità comunque oscura: questa sono io di fronte al mondo»

Clarice Lispector, Acqua viva

La vita della scrittrice Clarice Lispector (Chechelnyk 1920 – Rio de Janeiro 1977) è tutta dentro la parola. La parola è farsi parola. La parola sgorga dal suo corpo, inciampa in introspezioni e giunge sino alla pagina. L’avvenenza della Lispector si intona fedelmente con la bellezza della sua scrittura. Si apre il libro, lei è lì, sull’uscio cartonato in tutta la sua grazia a portare il lettore nelle stanze più segrete della sua penna.

La parola, sovente fintamente fuori dalla significazione ordinaria, descrive l’epifania della sua personalissima creazione. Fare artistico che nasce insieme al crepitìo della carne: seni a incorniciare aggettivi, ventre vivo nel sostantivo di una piena e, dall’inchiostro, l’arrivo dirompente del piacere. Il lemma accade nell’istante del presente, nel preciso momento in cui stabilisce di spalmarsi sulla pagina.

Clarice è scrittrice in ogni singolo nervo. Clarice è scrittrice nel midollo. Clarice è scrittrice perché intrattiene con la parola un legame carnale di reciproco amore. E nella polpa di quella passione mette nero su bianco il romanzo, i romanzi.

La straordinarietà della Lispector è dentro il foglio bianco: un cappello di carta che si schiude nel bordo. L’esistenza si protende nel ticchettìo di una tastiera laccata di rosso e, tra un bottone e l’altro, accade l’amore, la natura e il corpo che è animale e bosco.

Conscia del baleno dell’accadere, lo sente, lo ammanta e lo restituisce nell’opera attraverso un realismo carnale quanto spirituale.

Quando battezza le cose, le stesse cominciano a vivere e vivendo si incarnano nel creato di un corsiero o di una corolla. La natura si fa corpo, il momento si fa vocabolo, il trucco si fa realtà: la scrittura afferma se stessa. Dalle parole e solo dalle parole giunge il silenzio, l’ardore, la perversione, l’ombra e la luce.

Tutto l’universo mulina attorno alla voce scritta. Fiotto che crea il senso all’interno della mancanza di senso. Clarice è un’ondata travolgente di bellezza. Dal fuori tira dentro. Adopera la perfezione stilistica per condurre l’essere direttamente dentro se stessa. Donna quanto una meravigliosa pioggia di versi. Lei: il potere di confezionarli nella frase più bella. E giunti a rilegatura, possono, mediante una nuvola di tulle, atterrare soavemente sotto lo sguardo di chi legge.

La Lispector è la donna che si romanza, si basta nell’autoerotismo di scriversi, si osserva durante il toccamento e gode di ciò che redige. Un orgasmo di vocali e consonanti, che nel respiro della punteggiatura, raggiunge infine la quiete.

La parola è donna; è donna Clarice; è carne Clarice: danza sabbatica del linguaggio.

L’istante che la scrittrice muta in romanzo è il lampo all’interno del quale la donna si compie.

Tutta la scrittura è l’universo dove lei si innalza a sovrana: Clarice è purezza del lemma. Il mondo esiste perché vive dentro la scrittrice e in lei tutto si ricongiunge in un lungo coito fuoriuscito dal proprio inchiostro. L’impersonale del quale si appropria, figura l’escamotage per essere quanto più possibile personale e intima. Abdica per esserci con ancora più veemenza. Nell’opera della Lispector, la parola è tanto lucente sino al punto di rimandare all’ombra. Foschia che abita l’essere primitivo e nel primitivo vive.

La scrittrice è creatura ancestrale, voce della natura selvaggia, amazzone e lupo. Il suo animo è affine, e dentro quello di una bestia istintuale e bellissima.

Un unico metronomo a mettere il punto al periodo: il respiro. L’afflato che finge di non raccontare, ma diviene unico grido della coscienza.

Clarice Lispector è la donna fuori dalla cornice della vita e dentro quella del midollo scritturale.

(da ANIME INQUIETE – 23 storie per mancare la vittoria)

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