
da http://@barbadillo.it, 16 novembre 2015
Sofia Coppola (New York, 14 maggio 1971)
Con una trasversale opera di avveniristica reinterpretazione, il titolo di un film del 1929 di Dziga Vertov, approda ai giorni nostri, nella veste de “La donna con la macchina da presa” a indicare colei che nasce dall’arte e nella stessa si incammina. Viene battezzata – non solo metaforicamente – dalla sapiente macchina da presa di papà Francis, nella scena del battesimo de Il Padrino. È il neonato Michael Fracis Rizzi, nella cerimonia ritmata parallelamente con lo sterminio dei capi delle cinque famiglie. Un’immigrata sulla nave che ne Il Padrino II, conduce Vito Corleone a Ellis Island. Ancora, Mary Corleone, una fanciulla innamorata del cugino Vincent, Andy García, ne Il Padrino III. Sofia Carmina Coppola, figlia degli indimenticabili fotogrammi di Francis Ford Coppola, nasce, cresce e si laurea nell’arte cinematografica.
Raffinata regista del nuovo cinema statunitense, onora il gene artistico in un personalissimo stile che avanza tra il minimal e l’intimismo. Uno sguardo che si muove tra due poli: il realismo e la magia. Cardini resi abilmente con riprese fisse, movimenti impercettibili, cadenzati da un uso nostalgico della dissolvenza. In alcune opere, l’attenzione di una misurata indagine, si posa sul tortuoso e spesso indecifrabile mondo adolescenziale. Per il tramite di una registrazione tutta femminile nella delicatezza, riprende le ansie, le paure e i dolori di un universo sovente sconosciuto al modo adulto. Violenti contrasti, giocati sul registro monocorde e incolore dell’incomunicabilità. Le figure genitoriali sono lontane assenze incolmabili e vicine presenze soffocanti: in tale nulla, si posiziona come un osservatorio privilegiato, la macchina da presa della regista.
Il primo lungometraggio
Il giardino delle vergini suicide, primo lungometraggio, tratto dal romanzo di Jeffrey Eugenides, Le vergini suicide, disegna un triste affresco poetico della cessazione ultima e definitiva della giovinezza. All’interno della narrazione, si muovono sui toni del bianco, cinque sorelle. Figure evanescenti, rallentate da un pesante fardello di isolamento e dolore, vagano come fate sul suolo di una regione lontana. Mosse dai fili di una madre ottusamente autoritaria, trovano temporanee vie di fuga nei diari, nei rari contatti con i ragazzi e nella musica. Il padre è debole immaginetta che prende vita solo nell’acquiscenza coniugale. L’eccedenza affettiva materna, fa dell’amore un sentimento malato sino alle estreme conseguenze. Le ragazze vivono segregate in una gabbia, che senza musica, non trattiene neppure le sfumature del dorato. L’ambientazione, un sobborgo del Michigan negli anni ’70, è nell’opera filmica il tempo della malinconia. Uno spleen ambientale e temporale, all’interno del quale tutto tende al tenue. Sono delle creature fiabesche, di passaggio a scuola, al ballo e sulla terra. Esistono solo nella seduzione, che la loro bellezza inaccessibile, esercita sui ragazzi. Sono delle fugaci superstiti che transitano, sopravvivendo ad adulti lontani. Permanenza che termina nel consumarsi di un unico gesto definitivo: il suicidio. Le sorelle si dirigono in un altrove che figura come l’estrema via di fuga dal silenzio adulto. La morte è l’affrancamento dalla vita. Sofia Coppola registra implacabilmente, pur senza sottrarre garbo e delicatezza al film. Un’occhiata all’interno del disinganno, diviene un’esplosione assordante che sotterra l’incanto. Disillusione che lo spettatore vive, attraverso quello che lei stessa definisce un “realismo magico”.
Il Leone d’oro con Somewhere
Il tema della solitudine adolescenziale, torna dirompente e attraverso una lirica costruita tutta sullo sguardo, in una pellicola del 2010, Somewhere. Leone d’oro a Venezia, il film mediante una camera prevalentemente fissa, sottolinea la noia irreversibile di un divo hollywoodiano: Johnny Marco. Giornate trascorse presso il noto Hotel Chateau Marmont di Sunset Bolulevard, scandite solo da un ripetersi automatico governato dall’inerzia. Vizi che non generano godimento alcuno, donne bellissime prive di un nome da ricordare, si avvicendano senza lasciare traccia. Avere tutto e non trattenere niente: l’apoteosi di un nulla che scava lentamente, preparando la strada all’ascesa del vuoto. La macchina da presa annota la condizione di immobilità psichica dell’attore, indifferente a qualsiasi stimolo esterno. La prima sensazione è che in tutto il film non succeda nulla. Tuttavia, riposta in quei movimenti impercettibili accade una deflagrazione: l’arrivo impalpabile di una fatina adolescenziale, Cleo, la figlia del divo. Silenziosa, discreta e isolata, si incunea nella impervia vacuità del padre con un tratto lento, ma definitivo. La ragazza vive nell’incomunicabilità e nell’assenza di genitori troppo impegnati a far altro. L’immagine è quella di una candela, che si fa dapprima luce, per poi rendersi faro nell’oscurità intrapresa dal padre. L’adolescenza taciuta, ignorata e isolata, diviene occasione ultima di cambiamento e rinascita. Figli che divengono genitori dei genitori. In un’opera dove i dialoghi sono ridotti al minimo, l’immagine si fa parola, verbo. Allo spettatore compete l’atto di rendersi disponibile ad accogliere eloquenti quadri in movimento. Sofia Coppola riprenderà ancora il tema del vuoto adolescenziale nel più recente Bling Ring, ancora un affresco più spietato, tratto da avvenimenti realmente accaduti.
Il cinema delicato di Lost in Translation
Nota soprattutto per un’altra opera di merito come Lost in Translation, inaugura un genere di cinema fecondato da uno sguardo garbatamente femminile. Non giudica, non condanna e non celebra un universo a scapito dell’altro. Registra, riprende, spesso con quel distacco, proprio di chi non punta a guadagnare consenso facendo leva su un carico eccessivo di commozione. Il fruitore dell’opera è libero di incamminarsi in qualunque direzione. Un cinema delicato e raffinato. Sofia Coppola, la donna con la macchina da presa: regista prima, figlia d’arte poi.