
Musa del canto romano, ispiratrice di una sua personalissima Odissea, Gabriella Ferri è la malinconica Calliope “testaccina”.
Romana come il primo dei sampietrini conficcato sul suolo dell’Urbe. Grazie a una meravigliosa Dove sta Zazà, inclina la sua voce anche nel verso partenopeo. E fluttuando tra la Campania e il Lazio, si fa grandezza di un patrimonio tutto italiano. La Janis Joplin dei vicoli romani è la nobile custode di un’estensione rocamente poderosa – l’allegoria dell’amica italica dello statunitense Tom Waits. Poiché se di interpretazione popolari si è sempre parlato, è nell’elemento del blues che la Ferri incunea le sue ballate; possibilità di fulgore ed espansione. In Dove sta Zazà – scritta nel 1944 da Raffaele Cutolo – “il possesso dei diavoli blu” è tutto in quel ciondolare tra un inizio lento e disperato, indugiando nel parlato sino ad arrivare alle vette di un grido lacrimante.
Gabriella Ferri è nel blues quanto nello scanzonato, nella teatralità come nell’intimismo, narra l’unione simbolica del “clown bianco” e “l’augusto”, una combinazione esplodente dove il basso e l’alto volteggiano all’unisono. Il bianco è la grazia di Remedios o di Sempre. L’augusto è descritto dal voltolarsi con Enrico Montesano nell’interpretazione de A Cammesella o dagli stornelli con Claudio Villa. Un dualismo peculiare di ogni grande artista che termina troppo spesso in una lacerazione privata. Strappo, tanto prezioso alla sua arte, ove il popolare si accomoda nel ricevimento del blues. E la vita, quella vera, fuori dal palcoscenico? La melodia blu evolve nel colore di una malinconia tutta di silenzio e vuota di versi. Dunque silente, brutalmente taciturna, mesta nondimeno detonante. La musa è quella di una mitologia; una dilatazione fatta disperazione: una presunta gloria sancita proprio dal respingimento di un Sanremo qualunque, peculiare sorte che negli anni diviene l’abbraccio caloroso nella misura della grandezza.
La Ferri donna è tutta dentro quei grandi occhi bistrati di nero, uno sguardo malinconico, talmente ripiegato su se stesso da non riuscire a scorgere la manta che è congegno di amore da qui al per sempre. Non nella morbosità di un dettaglio biografico, ancor meno nell’occupazione di una sacralità mortuaria, ma nel rendere omaggio in una piccola ode si fonda lo scritto: elegia di una barcarola controcorrente, dentro il testo Vamp di Paolo Conte e nelle corde di una ballata triste in Stornello d’estate.
Voce al sapore di miele e fiele, vigorosa nel canto, fragile al cospetto di una esistenza impietosa. Dentro una bellezza fatta di trame dorate, si incolla indosso con le oscillazioni vocali nell’immagine di un eyeliner nero quanto la sua caducità. Patrimonio italiano, popolarmente vertiginosa, amata da un amore insolvente. La musica conserva un obbligo d’amore con Gabriella Ferri.
da IlGiornaleOFF, 24 dicembre 2016
