Edificio Fellini: scommettere la testa con Edgar Allan Poe

Ad allestire la scena per un incontro giocato nelle stanze anguste della grande oscurità interviene il produttore e autore francese Raymond Eger. Nel 1968 esce Histoires Extraordinaires. Tre passi nel delirio, film collettivo nel quale il fil noir affonda le radici nel creatore del tale of terror, Edgar Allan Poe.

Per girare i tre episodi, Eger interpella i registi Roger Vadim, Louis Malle e Federico Fellini. Mai scommettere la testa con il diavolo è il racconto che ispira l’episodio del cineasta romagnolo, dal titolo Toby Dammit. È girato del tutto in notturna, modalità che permette una vera e propria epifania della visione di un sogno angoscioso quanto la vita. Ça va sans dire: l’esistenza è un incubo.

Toby Dammit, protagonista del racconto scritto da Poe nel 1841, giunge nella Roma felliniana – ancora una volta più felliniana che romana – per stabilire la prepotenza di una vocazione: la vocazione alla morte. La città è parte integrante del progetto mortuario poiché è nel suo grembo che l’uomo acquisisce la certezza di offrirsi alla morte. La Roma di Dammit è del tutto indifferente al suo dolore, lo accoglie e lo scruta da lontano, non vi partecipa se non come mera spettatrice.

Roma è una madre, ed è la madre ideale perché indifferente. È una madre che ha troppi figli, e quindi non può dedicarsi a te, non ti chiede nulla, non si aspetta niente. Ti accoglie quando vieni, ti lascia andare quando vai, come il tribunale di Kafka.

È d’uopo precisare che il rapporto di Fellini con il racconto di Poe appare del tutto alterato dall’esorbitante fantasia del regista. Forse un’occasione mancata per stabilire un’empatia artistica o forse un’occasione per tracimare: un incontro può dirsi mancato quando il regista decide di mostrarsi senza lasciare pertugi a un’ipotetica ispirazione letteraria; lo stesso incontro può definirsi riuscito nell’atteggiamento inverso, quando il regista si slega dall’opera di partenza e ne inventa un’altra.

Questo accade in parte con Toby Dammit . Fellini abbandona un approccio tipico della grande città per riprendere la sua origine provinciale, costruendo daccapo un racconto che ha poco da spartire con quello dello scrittore di Boston. Si tratta di un piccolo accostamento, limitato ai confini tracciabili di un borgo e non alla dispersione cittadina. Lo stesso Fellini dichiarerà di aver letto Mai scommettere la testa con il diavolo soltanto durante le riprese. La sensazione è infatti quella di una modesta appropriazione, il regista prende pochissimi elementi per riscrivere la narrazione e farla propria, realizzando la sua personalissima profezia artistica: lo stile, le tematiche, l’atmosfera di Toby Dammit sono elementi che torneranno assiduamente nelle opere successive.

Le luci torneranno a farsi illuminazione claustrofobica nel seguente Satyricon, dove il giallo che fuoriesce dall’oscurità di Dammit si farà cupo richiamo del destino di una certa umanità, divisa da colori che riescono nell’operazione di essere foschi e accesi allo stesso tempo.

La presenza di suore e preti, già sperimentata nelle opere precedenti e qui rimarcata, nel successivo Roma (1972) diventerà défilé; un passaggio che, nella mostra della sfilata, si arresta per immobilizzarsi e infine divenire uno degli elementi ricorrenti, sino alla ripetizione quasi ossessiva.

I lavori in corso sfiorati in Dammit simboleggiano l’imminenza del presente, dunque l’ineluttabilità di un avvento, quello della modernità, a fiaccare le esistenze del prefetto Gonnella e di Ivo Salvini nell’ultima pellicola del regista, La voce della luna.

La nebbia che avvolge Toby nella corsa verso la morte tornerà con prepotenza a bordo della macchina che sfreccia nel buio sulla quale viaggiano Snaporaz e una rappresentanza di donne, e aggiungerà in questo caso un chiaro riferimento cinematografico: il Kubrick di Arancia meccanica nella nota sequenza dei Drughi in notturna a bordo di un veicolo diretto alla villa degli Alexander. In tale personalizzazione del racconto, la pellicola felliniana sino al midollo, lontana, almeno in questi elementi ricorrenti, dalla suspence di Edgar Allan Poe. Fin qui l’incontro volutamente mancato.

Esiste poi una zona in cui Fellini raccoglie l’invito di Poe a farsi autentico narratore dell’orrore. In Tre passi nel delirio, Toby Dammit è un attore sul viale del tramonto della cinematografia, l’immagine di una profonda disperazione trainata dal vizio dell’alcol e dall’uso di droghe. Si reca a Roma per girare un film, il primo “western cattolico”, conoscere il regista e guidare una Ferrari, il suo cachet per la parte, la sua orsa tra le braccia della morte. Il protagonista, interpretato da un grandissimo Terrence Stamp, è l’effigie più che solenne del dramma dell’esistenza.

La fotografia asfissiante disegna l’assenza di alcuna possibilità di salvezza, e proprio qui accade che il regista si presti all’ascolto del grande enigma di Poe: il tema del male. Il male per lo scrittore conquista la supremazia sul bene senza lotta alcuna, non esiste battaglia tra il bene e il male poiché questo si prende tutto lo spazio e il tempo.

La corsa del Toby filmico e di quello letterario incarna l’accetazione del diavolo come creatura sovrana dell’umanità. Dammit nel film, come Poe nella vita, non crede in dio ma solo nella vita del demonio. Fellini veste il male attribuendogli le sembianze di una fanciulla bionda il cui richiamo è rappresentato da una sfera bianca; in Poe il diavolo è un anziano signore. Il film perde la suspense del racconto ma guadagna nella resa perfetta della disperazione scritta nel volto allucinato di Terence Stamp.

Antonioni aveva licenziato Terencino per Blow-up e l’attore continuava a restare a Roma, in attesa della sua prossima opportunità. Io e Bernardino Zapponi avevamo appena finito la sceneggiatura di Toby Dammit e, per caso, qualcuno mi dette una foto di Stamp con quella sua straordinaria e angelica faccia profondamente decadente: il perfetto dandy perdente, la rock star dionisiaca, l’aristocratico alcolizzato imputridito dall’interno tuttora capace di esercitare il suo monumentale fascino biondo. Sa, qualcuno che potessi identificare con il mio alter ego. Convenimmo d’incontrarci e lo scelsi subito. Un giorno, durante le riprese, mi stavo tagliando i capelli quando Antonioni entrò e si sedette sulla poltrona da barbiere vicino alla mia. “Ho sentito che lavori con Stamp”, disse, “Condoglianze”. “Grazie mille, Michelangelo,” Risposi. “Grazie a te, ho scoperto un genio”.

  • Estratto da Edificio Fellini. Anime e corpi di Federico

Gabriella Ferri – Calliope romana

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“Sampietrino” by Roberto_Ventre is licensed under CC BY-SA 2.0

Musa del canto romano, ispiratrice di una sua personalissima Odissea, Gabriella Ferri è la malinconica Calliope “testaccina”.

Romana come il primo dei sampietrini conficcato sul suolo dell’Urbe, inclina, mediante una meravigliosa Dove sta Zazà, la sua voce anche nel verso partenopeo. E fluttuando tra la Campania e il Lazio, si fa grandezza di un patrimonio tutto italiano. La Janis Joplin dei vicoli romani è la nobile custode di un’estensione rocamente poderosa, l’allegoria dell’amica italica dello statunitense Tom Waits. Poiché se di interpretazione popolari si è sempre parlato, è nell’elemento del blues che la Ferri incunea le sue ballate; possibilità di fulgore ed espansione.  In Dove sta Zazà – scritta nel 1944 da Raffaele Cutolo – “il possesso dei diavoli blu” è tutto in quel ciondolare in un inizio lento e disperato, per poi indugiare nel parlato sino ad arrivare alle vette di un grido lacrimante.

Gabriella Ferri è nel blues quanto nello scanzonato, nella teatralità come nell’intimismo, descrive l’unione emblematica del “clown bianco” e “l’augusto”, una fusione esplosiva, dentro il quale il basso e l’alto, volteggiano all’unisono. Il bianco è la grazia di una Remedios o di Sempre, l’augusto narra il rotolarsi con Enrico Montesano nell’interpretazione de A Cammesella  o gli stornelli con Claudio Villa. Un dualismo, peculiare di ogni grande artista che termina troppo spesso in una lacerazione privata. Strappo, tanto prezioso alla sua arte dove il popolare si accomoda nel ricevimento del blues. Meno alla vita, quella vera, fuori dall’occhio di bue, dove la melodia blu diviene solo il colore di una malinconia e di una solitudine priva di chitarra. Dunque silenziosa, violentemente taciturna, mesta eppur esplodente. La musa è quella di una mitologia, una dilatazione fatta disperazione di una gloria, sancita proprio dal respingimento di un Sanremo qualunque, peculiare sorte che negli anni diviene l’abbraccio caloroso nella misura della grandezza.

La Ferri donna è meravigliosamente tutta dentro quei grandi occhi bistrati di nero, lo sguardo malinconico, talmente ripiegato in se stesso da non riuscire a scorgere la manta che è congegno di amore da qui al per sempre. Non nella morbosità di un dettaglio biografico, ancor meno nell’occupazione di una sacralità mortuaria, ma nel rendere omaggio in una piccola ode si fonda  lo scritto. Elegia di una barcarola controcorrente, dentro il testo Vamp di Paolo Conte e nelle corde di una ballata triste in Stornello d’estate.

Voce al sapore di miele e fiele, vigorosa nel canto, fragile al cospetto di una esistenza impietosa. Dentro una bellezza fatta di trame dorate e uno stile unico, si incolla indosso con le oscillazioni vocali nell’immagine  di un eyeliner nero quanto la sua caducità. Patrimonio italiano, popolarmente vertiginosa, amata da un amore insolvente. La musica conserva un obbligo d’amore con Gabriella Ferri.

da IlGiornaleOFF, 24 dicembre 2016