Pierre Drieu La Rochelle – L’âme doux

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«Spesso un Narciso che sogna di possedere essendo posseduto»

(Diario, 1939 – 1945)

È nel tacito principio di delicatezza che si incorniciano le cose nel silenzio lasciando l’operato al presagio. Sul medesimo solco si racchiudono i gesti nell’aura della stasi. È un contegno di attesa nel fluire del tempo acché il momento si consegni allo sguardo interiore. L’intima bellezza viaggia su rotaie di cristallo, tutto nella cura dell’emozione di esistenze altre. La delicatezza di Pierre Drieu La Rochelle (Parigi, 3 gennaio 1893 – Parigi, 15 marzo 1945), non tocca solo un movimento estetico, ma un vero e proprio moto dell’anima. La sua scrittura è un afflato di garbo, patrimonio di un mondo perduto e custodia di un gentile palpebrare: movenza impercettibile di uno sguardo mediante il quale vedere la vita, introiettarla e stoicamente rifiutarla. Le opere di Drieu, dai romanzi sino ai diari, figurano una galleria di riflessioni sull’esistenza e sulla spiritualità. Ogni singola pagina accoglie la direzione per restituire, attraverso un aforisma, un pensiero o finanche un interrogativo, fogli pronti a trafiggere per smarrirsi nella memoria. L’opera diaristica di La Rochelle, distintamente in Journal d’un délicat e, in misura maggiore, in Journal 1939-1945, romanzo e diario postumi ambedue, si muovono sulla piega dell’attualità, custodiscono lo spirito del tempo che, per alcune trame, si espande sino al nostro. La sua Europa è forata dal refolo dell’aridità. Per quanto l’autore veda nella scrittura diaristica un modello succedaneo del lavoro più profondamente creativo, le parole sono grazia trainata dalla complessità di uno spirito sopraffatto e deluso.

Il diario è qualcosa cui dedicarsi nel tempo perso pur restando un importante forziere di quella nobiltà pessimista che si incolla su ogni singolo tendine della mano scrivente. Pulsazioni vigorose vanno incontro alla vita e dalla stessa vengono avvilite. Scoramento che non cede alla resa. Al contrario, seppur all’interno di un suolo disincantato, si edifica sopra una presa di coscienza.

Per un esteta della malia attrattiva, l’immagine della donna rappresenta la principale sorgente dalla quale gemica la creazione. Donna come natura selvaggia; impulso e creatura intellettuale in una sola eccezione: Victoria Ocampo. La passione tra Drieu e Victoria figura una straordinarietà: la Ocampo è donna di intelletto. È un coup de foudre a intiepidire una fredda giornata parigina di febbraio. Siamo nel 1929, lo scrittore è al termine del suo secondo matrimonio. L’incontro tra i due è profezia della nascita di una passione dirompente quanto dolorosa. Per quanto in conflitto su diversi argomenti, sono due creature discordanti che suonano all’unisono. Si sfidano su temi politici, religiosi, etici. Controversie sedate da una stima reciproca: due abissi che si scontrano con il solo fine di incontrarsi. Per Victoria Ocampo, primogenita di un’agiata famiglia argentina, sposata – come molte liaison di La Rochelle –  ma di fatto separata, la lettura sottolinea una condizione per giungere all’autore. Nell’opera del dandy parigino, impatta con la curiosità per l’uomo. Un viaggio inchiostrale con il fine di giungere alla meta: attraversare lo scrittore. Insieme si avvieranno a un percorso comune, quello amoroso. Nel bagaglio, la consapevolezza di non essere la sola, ma l’unica fra tante. Quello della Ocampo è un trasporto generoso da diversi punti di vista, non ultimo quello economico. Tema ricorrente nelle relazioni intrattenute dallo scrittore. Una sorta di riconosciuto mecenatismo femminile per il quale l’uomo sente la sua inadeguatezza nei confronti delle “donne da marito”. Non si sente a proprio agio con la donna casta. A tale figura preferisce la compagnia di donne ricche che possono provvedere alla propria vita e, per estensione, a quella del letterato. Drieu è pervaso da una “impotenza a tratti” che trattiene l’aria di trovare origine nello sfioramento di una vergine.

Bisogna essere molto forti per amarti senza esserne danneggiati, Drieu

Il trasporto di Drieu per Victoria appare conflittuale quanto indispensabile. La fiamma si alimenta nell’assenza. Spregiudicato e tenero, cinico e amorevole, non si risparmia per quella creatura con la quale può discorrere di Céline, Joyce, Valéry. È necessario parlare di lei e con lei. Nella privazione e nell’attesa cresce la sua fiamma. Nella volontà di negare il moto geloso, invero afferma una fermezza di possesso. Le confessa l’inconfessabile. Indugia nel gioco dell’attesa per sfuggirle e poi tornare con veemenza a cercarla. L’amore tra la Ocampo e La Rochelle, non si realizza nell’appartenenza ma nell’idea indispensabile di appartenersi.  Victoria sarà l’unica donna a custodire il privilegio e la condanna di ricevere lo scritto testamentario con i motivi del suicidio dello scrittore.

***

In Journal d’un délicat Jeanne è il disegno dell’universo femminile. Il dialogo malconcio tra l’eroico e la vita trova in lei la prima manifestazione. Una figura che lentamente si incunea nel suo rifiuto di amare; giunta troppo tardi nella vita dell’autore poiché egli si è infine disposto nel verso del divino. Ma Jeanne non nasce nel troppo tardi: il diniego di un delicato la precede. Una ripudia autoinflitta alla sessa stregua della sua autodistruzione, pertanto non sulla donna ma su ciò che rappresenta. L’intima rinuncia alla creatura femminile rappresenta il rifiuto della fine di un seduttore: Jeanne è tutte le altre e dunque lo specchio di un arresto. Un finale sigillato nel ventre della solitudine.

***

La solitudine di Drieu La Rochelle uomo e scrittore – nella caducità di un animo che svela la fragilità dell’esistenza – incede in paura e la paura in pena. Una doglianza domandata come unica sospensione da un’afflizione perenne. L’immagine femminile è il trait d’union tra Drieu e la vita.

***

La sterilità di La Rochelle si contrappone alla fertilità del mondo femmina in un fermo declino alla vita e all’amore. La sua opera impianta una preziosa occasione per sollevarsi da un caos effettivo, ubriacarsi di delicatezza e compiere una sorta di ascesi dentro la penna di uno scrittore elegante, scisso tra il grido eroico e l’autodistruzione.

 

  • Estratto da ANIME INQUIETE – 23 storie per mancare la vittoria

In memoria di Bruce Lee: il 27 novembre avrebbe compiuto 79 anni. Il Piccolo Drago nel libro di Francesco Palmieri

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Il giornalista e scrittore Francesco Palmieri forgia un’opera in omaggio alla grande figura di Bruce Lee. Tra aneddoti, divagazioni e curiosità, la grazia della sua penna scorre nella vita del Piccolo Drago con la stessa leggerezza della piuma che vive nella mano dell’icona di Hong Kong.

All’interno di un precisa circolarità, tra divagazioni, incursioni tra Oriente e Occidente ed elaborazioni sull’esistenza, Francesco Palmieri forgia un’opera legando indissolubilmente il suo nome a quello di Bruce Lee, il Piccolo Drago. È un libro che segue un movimento lento, una lettura in slow motion, proprio come l’apprendimento delle arti marziali. Dapprima alcune lettere dell’alfabeto a separare lo scritto in capitoli: le tre C di calci, cortili e cuori, le due F di fantasmi e finestre, una O per gli occhi, due S per le sfide e i sogni, una M per le mani che si avviluppa nella L del libro, quello di un mito cinese del ‘900. Le parole formano il cerchio; all’interno tutto torna a ricomporsi e con decoro entra nel flusso della memoria. In tale immagine si muove liberamente la figura più importante, quella di colui che edifica nella sua persona il legame epico tra la cultura orientale e quella occidentale: lui è Bruce Lee, il Piccolo Drago. Una star del cinema, abile marziale, ma soprattutto un rivoluzionario nella misura in cui distrugge completamente lo stereotipo razziale vigente in America, nonché il pregiudizio sul popolo cinese tutto. Diviene un’icona, un simbolo di forza e tensione fisica, di velocità e destrezza, ma anche di disciplina e duro lavoro: qualcuno che richiama le giovani generazioni a seguire un modello.

Nasce a San Francisco nel 1940, cresce a Hong Kong e come nella migliore delle leggende, a diciotto anni, con qualche dollaro in tasca, cento per l’esattezza, riparte per l’America in cerca di successo. L’autore, nella descrizione del viaggio, non manca di associazioni; la più autorevole con la Eveline di un racconto di James Joyce. La finestra è l’occasione per un legame: quella di Bruce è la sollecitazione, l’altra, in terra irlandese, è il ritorno ancor prima della partenza. E nel mezzo, la chiamata al sogno: quello ricercato e quello mancato.

È così, per proseguire il racconto, per sognarlo come durevole
illusione, ma anche per vergogna o pudore di una debolezza alla
Eveline, che alcuni abbandonano magari a malincuore o un po’ esitanti certe finestre – case, odori, certezza – per andare da qualche parte, dichiarando pretesti plausibili a chi resta: il lavoro, lo studio, nelle sincerità più azzardate una passione.

Il passaggio di Lee mostra un pionieristico percorso dove accadono molte cose, con un piede in Cina e un braccio negli Stati Uniti, la sua esistenza si avviluppa più volte con i sogni dell’autore che ne segue le tracce. Accade così con le passioni, capita di perdersi in qualcuno o qualcosa, succede che la nostra ispirazione talloni l’aura ispiratrice e la vita si muova anche in virtù di quella fiamma. Pagina dopo pagina, giunge il lampo fiabesco di un incontro, esattamente nel punto centrale di quel ponte; in quella fantasia galoppante dove il Piccolo Drago si è posizionato e appare proprio come una voce che scandisce all’autore queste parole grondanti di saggezza e trasporto. Accade inoltre che l’arte marziale di Bruce Lee sia la cosa più vicina all’atto della scrittura: dedizione, studio e ardore. Non tralasciando, a ogni modo, un distinguo: lo scrivere si cristallizza sulla pagina, l’arte marziale domanda un corpo che tramandi a un altro. Ambedue contemplano il cuore nelle mani, dita che si muovono in una danza, sollecitate dall’inchiostro o da una sfida, tirate da una preziosa tecnica, prima osservata e poi con il tempo acquisita. Mani che permettono accostamenti cinematografici: quelle del Piccolo Drago, per voce di un indimenticabile Mario Brega in Bianco Rosso e Verdone, possono essere “fero e piuma”. E nel ponte tra Oriente e Occidente, tutto il mondo è paese, quando proprio dalle mani di un parrucchiere – seppure avvezze a criniere da star- testimoni di una performance di Lee all’International Karate Tournament, passano alla bocca, nel consegnare l’importante suggerimento a un produttore televisivo. William Dozier ascolta dall’hair stylist la meraviglia del movimento di Lee: è sempre in uno spazio di chiacchiera che avvengono gli incontri e si fa la storia. E dalle mani di un coiffeur si arriva alla serie televisiva The Green Hornet che vede Bruce Lee protagonista. È curioso, ci illumina l’autore, che in cantonese un Sifu può essere un insegnante di Kung Fu e anche un parrucchiere: entrambi riservano rispetto e considerazione alle mani.

Con la serie Tv di Dozier il Piccolo Drago non decolla a Hollywood, ma entra, non senza una certa perplessità, nelle grandi dimore dei divi. E lo fa alla maniera di chi, pur avendo in qualche modo rotto gli schemi del Kung Fu classico, continua a preservarne dei principi fondamentali, nello specifico quello del Yat yaht waih sì – Jung sang waih fu, ossia Maestro per un giorno, padre per tutta la vita. Non sente di poter godere e donare tale privilegio poiché non si riconosce nell’ambiente e non abbraccia i capricci degli attori, non avverte quel legame così importante. Sulla vigorosa corda che lega i due mondi, Bruce Lee accorpa oggetti, luoghi e sensi. Nei luoghi trovano spazio i cortili: che sia un piccolo borgo in occidente o un quartiere di Hong Kong, quanta vita scorre in quel piccolo universo di spazio e tempo? L’infanzia, il sudore, le grida, i richiami, tutti a far da cornice al cortile. Laddove non si scorgono tali spazi, è possibile trovare dei terrazzi dove esercitare un’arte tesa su un’emozione che prende vita dal corpo. Una fisicità che, nel tramite di un terrazzo, porta dal fuori al dentro e torna ancora alla scrittura. La storia cinese vive nei libri, gli edifici si ricostruiscono, l’inchiostro resta. La cultura orientale non esita al nuovo edìle, il vecchio lascia il posto alla modernità, ma continua a custodire avidamente la scrittura. Poiché è sempre in quel principio di ferro e piuma che i maestri di Kung Fu vivono anche la possibilità di essere degli illustri calligrafi. Particolare non trascurabile è da ravvisare nel fatto che a soli trentadue anni, Lee possiede più di 2.500 libri.

[…] l’ideale compimento delle cose, anche marziali, tende verso la scrittura. Non il guerriero, ma un letterato è il modello esemplare. Perciò il dio taoista della guerra Guan Gong è anche patrono delle lettere effigiato non con l’alabarda, ma seduto mentre legge gli Annali Primavere e Autunni.

La passerella, il ponte o la corda che Mouth Si Duhng – Il ragazzo che non si ferma mai, nell’appellativo materno, si corroborano per il tramite di una letteratura che va da quella inglese a Cartesio, passando per Hermann Hesse per tornare al casellario dei classici cinesi. Il passaggio si fortifica finanche con le idee di un pensatore indiano, elaborazioni che Lee trascinerà nelle sue pagine del Tao of Jeet Kune Do:

Può operare liberamente e pienamente solo chi è ‘al di là del sistema’. Chi seriamente intenzionato a raggiungere la verità non ha uno stile prestabilito, vive unicamente nel reale.

Il ponte che lo stesso autore del libro percorre più volte, figura uno spazio abitato da accurate divagazioni; se da un lato sussurra di un Bruce Lee come idea di perfezione dentro una cornice imperfetta, dall’altro conduce direttamente al cospetto di un presente cinematografico particolarmente vicino. Ed ecco giungere il Tarantino che ripesca il David Carradine, un tempo preferito al Piccolo Drago nella serie Kung Fu, per la monumentale interpretazione di Bill in Kill Bill. Di nuovo tutto nel cerchio, dove il ragazzo che non si ferma mai è sempre la figura dominante. Da lui si parte e a lui si torna. Ma se di un certo cinema di Tarantino la matrice risulta presumibile, differente è l’inimmaginabile irruzione di Carl Gustav Jung, Federico Fellini ed Ernst Bernhard: il ponte si fissa mediante lo Yijing, uno dei cinque classici cinesi. Una versione, con l’introduzione di Jung non poteva sfuggire a colui che nella psicologia analitica ha cercato e trovato parte della sua ispirazione: il cineasta Fellini.

Questo libro, in buona sostanza, sogna per noi. Esprimendosi con lo stesso linguaggio simbolista, misterioso e indecifrabile dei sogni. Perciò non mi dà nessuna inquietudine, anzi mi conforta. Come se battessi dei colpi al portone di un castello…

La grandezza dell’opera di Palmieri è tutta in quella sua sapienza, accarezzata da oriente a occidente, mediante la quale conduce il lettore proprio sulla saggezza di quel ponte. Un capitanare che non avviene solo nel fine di ricordare certa cinematografia di genere che caratterizzò l’immagine di Lee, ma per omaggiare una figura aprendo le porte di una cultura che finalmente si svincola dagli stereotipi e si dona senza riserve. La penna di Palmieri scorre con grazia, la stessa che si deve adoperare nel giro di questo libro. La sua mano è piuma nel racconto e ferro nel sogno.

* Francesco Palmieri, PICCOLO DRAGO – La vita di Buce Lee, Mondadori Libri, pag.183

(28 aprile 2017)

 

 

Il giunco infuocato della Francia – Françoise Sagan

L’immagine by blacque_jacques è sotto licenza 
CC BY-NC-SA 2.0

 

«Avevo mai sentito la mancanza di qualcuno?»

Bonjour tristesse

Un versetto di corti capelli a incorniciare quel volto che coinvolge l’edonismo nell’aura tragica. L’audacia dentro il disincanto, lo stile agile a disegnare l’eleganza della scrittura. L’immagine seducente di una scrittrice troppo spesso legata al rotocalco. Lei è la creatura baciata dalla grazia della parola: Françoise Sagan (Cajarc, 21 giugno 1935 – Honfleur, 24 settembre 2004).

Penna precisa, priva di sbavature, raffinatezza di un inchiostro non disgiunto dalla vita. A soli diciotto anni, la Sagan, con un dono riservato a pochi, scrive un romanzo che, nelle pieghe minimali, si fa profezia di una tristezza certa. L’impossibilità nell’assenza di argini: l’afflizione è vita e l’esistenza vive nell’afflizione. La scrittrice maneggia con leggerezza una materia sulfurea, lo fa nel moto spensierato poiché è nelle trame di uno stato lieto che si cela il male di vivere. L’armonia nella disillusione si impianta in un rito di iniziazione della piccola sfera cinica: il fiore di una mente giovane che germoglia dalla senilità.

“Il giunco infuocato” della Francia crea dalla terza età della conoscenza dentro un carattere imminente di giovinezza. Ed è solo bellezza la schiuma di un edonismo che si disperde tra le onde personali di un romanzo, luogo dove la storia si fissa. Ed è nuovamente bellezza l’emanciparsi dai buoni sentimenti, sovente interpretati e raramente frequentati. E daccapo bellezza scovare, identificare e infine ammettere la nota meschina che suona le corde di ogni essere umano. Strappare quel pentagramma dall’individuo e renderlo sulla pagina come il più lucente dei racconti.

Alcuna scrittrice a innerbare il fuoco del rotocalco, molte donne a rinsanguare la morbosità della fotografia e quella degli schiccherafogli. Il bacio che la scrittura le pone sul dorso della mano, si fa gesto funesto nella presa del whisky e delle sostanze. Quello che sulla pagina è biancore, muta nell’oscurità che la raggiunge in ogni crepa della carne.

Attraverso stille di maestria stilistica, le pagine trafiggono il lettore: dardi che la Sagan porta a colatura del proprio cuore. Persuade nell’arte e nella dimenticanza quanto la creazione stessa sia spietata; il talento ingoia sempre i suoi demiurghi in gironi infernali di sbrancamenti. Dall’altra parte delle suggestioni, non è dato sapere se la letteratura salvi la scrittrice o la conduca direttamente nell’oblio della sua vita. In Bonjour tristesse – romanzo uscito nel marzo del 1954 e che nel 1956 ha già superato il milione di copie vendute – la Sagan nega il carattere autobiografico. Invero, la fattura letteraria appare poco ascrivibile a una diciottenne e, in tale verso di incredulità, risiede tutto il seme della scrittura. L’accuratezza è quella di una creatura sene, un essere che dentro un’infinità di vite contiene l’audacia di descrizioni che giungono nei luoghi più angusti dell’individuo. La sua penna è una fotografia avulsa dalla sgranatura, un bianco e nero dettagliato e nitido. Nella pagina il rendez-vous con un incastro: lo sguardo disincantato di colei che sa delle tare umane alla stessa stregua di chi ha già vissuto molto tempo e detiene il potere della conoscenza. Con la cipria rosa (rosa shocking avrebbe suggerito Carlo Bo), entra nel difetto strutturalmente umano, afferra la macchina di inchiostro e riprende ogni singolo moto dell’anima. I fotogrammi si allineano su un piano sequenza lungo quanto il benvenuto alla tristezza. Lo scritto diviene immagine e l’immagine rimanda dei fermi: volti e creato a sottolineare raccoglimenti.

La cipria di spensieratezza descrive una patina rosata a carpire le sagome marchiate dal godimento. L’esibizione della gioia è tutta dentro l’arte di rimandare l’ineluttabile: l’avvento della tristezza a capitanare le cose dietro il belletto. Il pensiero si allinea precisamente alla pagine e, in tale congiunzione, sgorga la filosofia delle cose.

La risata equivoca, il sesso, l’alcol: vessilli lucenti di solitudine. Isolamento che fuoriesce dal libro e si salda all’esistenza della scrittrice. Bonjour tristesse è la carta profetica di quelle lacune che, da giovani vuoti, si fanno vecchie voragini. La sospensione è nello stordimento carnale e alcolico, orgia di una vita dispersa, mai più ritrovata. E nel destino filmico del libro, voluto dal regista Otto Preminger, si incontra l’accadere di un’altra vita, quella dell’attrice Jean Seberg.

Icona della Nouvelle Vague, l’attrice muore suicida a soli quaranta anni. Nella Seberg il suicidio mostra un atto definitivo. Nella Sagan è la vita ad essere suicidale. Negli eccessi si cela una fine lenta, quella che ogni giorno brandisce un pezzetto di volto, una tessera di cuore e uno scampolo di mente. Due destini nel toccamento della tragedia.

Il mesto incantesimo della Sagan è vita e morte, ma in primo luogo è romanzo: la bellezza nel disincanto.

  • da Anime Inquiete

Vertigine della parola: Poema bianco – Pasquale Panella

 

Foto PP BN
Pasquale Panella 

Pubblicata per la prima volta e, in poche preziosissime copie, nel 2007 per le edizioni IRI, è uscita a dicembre 2017 per i tipi di Miraggi edizioni, l’opera Poema bianco di Pasquale Panella. Invero non si tratta di una riedizione, come afferma l’autore stesso, ma di una prima edizione che vede l’estensione nei capitoli E due, E tre e termina – solo sulla pagina – con Rumori, quest’ultimo in prosa. Il Bianco si intrattiene nelle comuni venature. Pasquale Panella è dentro l’impossibilità di un suono che lo definisca. È voce nel verso, silenzio nel soliloquio e poema in quel bianco che cadenza la parola. Giunge prima della poesia stessa, nel tono (suo) dell’intimità: la lirica precede la pagina. Il giro è fuori dall’umano, lontano dall’elemento di genere per compiersi in un’altra dimensione: invalidarsi per pervenire alla liberazione e far cantare il rumore. L’assenza è intima corporeità di una intesa tra due forme: il doppio trascorre nell’uno assoluto e definitivo.

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Il Poema non si legge, si ascolta. Nell’Ode si ode la vibrazione di lei in lui e il tono di lui il lei, insieme nella voce femminile.

Tu credi che tu, che io, credi

Che siamo noi i protagonisti

(ma di che, delle parole?)

Qui la protagonista è una,

è la mia voce a me

(insomma, un singolare femminile)

 

Il timbro nel tatto, il suono nello sfioramento. Scrivere negando la poesia per accordare corporeità, ossia corpo, al verso. La sagoma di una scultura friabile, posta sul frangente di un corpo armonioso: il lemma. L’altro è il sé, ovvero un luogo. Un altrove dove accadono le cose, i sentimenti nel prima degli oggetti e nel dopo dei corpi. Il midollo nella parola, sollevata dalla forma, per far fiatare solo il sangue. Rosso di cuore e rosa di carne: bianco nello stato metatemporale del compiersi. Quel che è scritto è scritto, non accaduto, ma nel futuro del possibile. Nell’aura l’afflato di una rivoluzione scandita da due offensive; l’incursione a spoetizzare la parola e l’invettiva nel poema d’amore: la guerra è amore tra i sessi. Il non esserci figura l’edificio marmoreo dell’esserci: fondamenta di vocali e consonanti a scompaginare la lirica. L’amore è ossessione fuori dal ricordo e nella memoria agita solo la costruzione della reminiscenza. L’altrove è l’oltretempo di una voce che tuona su se stessa.

È il Poema del sentire nell’assenza, di lambire nell’addio. Il congedo è testimone sensoriale del sentimento che accade. Accarezzare la possibilità, comune alla brama dell’umanità, di morire insieme nell’amore. 

La nostra non che fosse incerta,

anzi, ma sarebbe molto stupido

se ci si innamorasse per vivere

la vita

Morire insieme è il primo

Progetto sovversivo di chi

Si innamora da vivo

 

L’universale senso del patire si impone alla pagina per venirne consumato e infine espulso. Tutto si perde nell’atto del dire, rigorosamente come il libro lasciato al lettore. Il soliloquio non accade: è una storia immortale, e come tale, priva di trame. Vive per sempre nell’istante dello sguardo, nell’infinito di un’indagine all’interno dell’animo. La descrizione non abita, ma risiede nell’istantanea immortalata dalla parola.

L’amplesso di un vocabolo che si compie una sola volta: il momento eterno di Poema bianco. L’amore è nell’immobilità, all’interno di una disposizione che si strugge nel non fare: l’unico sentiero per raggiungersi. Spazio bianco a scrivere il peso della mancanza. La distanza è un cecchino caricato a passione: il solo collante ammesso. Tutto accade come non dovrebbe poiché si è dentro l’accadere. La dissolvenza è nera. Il Poema si ascolta nell’incrociata bianca. Un montaggio di negazioni autentiche sino alla purezza e feroci sino al bianco.

Scrivere, al meglio,

è finire di far testo

E il meglio di ogni testo

È immaginarlo:

sostituire la memoria

con una impalcatura ariosa in aria,

che avverrà, che avverrebbe,

ossia con l’antistoria

Con sapienza, disciplina e letizia, il giocoliere scommette con le sfere in volata. Il funambolo gioca alla vita con la corda. La poesia è in ogni luogo, latita – non qui – il poeta che è giocoliere, funambolo e infine grondaia. Sì, grondaia contenente le parole piovute dal cielo, giunte nell’inchiostro e, in questo, fluite per gemicare luce. Il silenzio custodisce una voce. Il direttore d’orchestra è Pasquale Panella. Il bacio della parola a farsi bacchetta di direzione dentro la fibra di vetro. Il soliloquio è voce silente che mormora dentro le creature. L’amore è riconoscibile poiché non gode di favori espressivi per palesarsi. L’amore è sentito nella parola “fine” poiché il sentimento è opera e nell’opera vive e trova la chiusura.

*Da tracce sparse di un ascolto.

La chiusura in un imperativo: ascoltare Poema bianco.

  • da l’Intellettuale Dissidente, 25 febbraio 2018

 

“Malacqua”, alla scoperta del romanzo ritrovato

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“Old Books” by Iguana Jo is licensed under CC BY-NC 2.0

 

Pubblicato per la prima volta  da Einaudi nel 1976, il romanzo di Nicola PuglieseMalacqua – Quattro giorni di pioggia nella città di Napoli in attesa che si verifichi un accadimento straordinario – vive una nuova alba nel 2013, grazie alla ristampa dell’editore Tullio Pironti (151 pp, 11,90 euro).

L’opera giace sotto il nascondimento della polvere per tornare a brillare molti anni dopo, non solo in patria, ma recentemente finanche in terra anglosassone dove, viene tradotto da Shaun Whiteside ed editato come Malacqua: Four days of Rain in the City of Naples, Waiting for the Occurrence of an Extraordinary Event.

Malacqua è un viaggio all’interno delle membra umide nella città di Napoli. Quattro giorni di pioggia battente avvolgono, sino a stringere, tutti gli equilibri della cittadinanza in un’atmosfera di attesa.  Il percorso è quello sinistro dell’elemento acquatico: un principio di vita evolve in sostanza di sospensione. È il cappio alla grande madre del sole, che nella contrazione, urta il cielo e raccoglie vittime. La città lacrima sulla vita degli abitanti, il pianto impatta su un asfalto distratto, penetra nel fondo della terra sino a fecondare un amalgama di fango fatale. Tutto a rendere caduca la presunta resistenza della materia cementante.

La volta è la carcassa di un ombrello torbido, privato della sua stoffa di protezione. La prima attrice della narrazione è la percezione dell’attesa, sul palco insieme alla speranza che la pioggia svanisca dietro le quinte. Un personaggio improvviso nell’interpretazione di un presagio: qualcosa deve accadere. E accade che il giornalista Andreoli Carlo diviene la voce di anime appese nella prepotenza dell’acqua; di coloro che non ce l’hanno fatta per il crollo in via Tasso e la voragine in via Aniello Falcone. I fatti prendono a muoversi nel pensiero del giornalista, a battagliarsi sulle righe di un articolo da confezionare sull’evento eccezionale, per poi rinnovarsi ancora nello sguardo su una realtà ormai fradicia.

Le gocce dal cielo scorrono sull’orlo di sagomature inconsapevoli per poi entrare nella creatura e giungere fino all’intimo più asciutto. Nel senso di attesa, ogni giorno ricorda l’altro e pertanto, il secondo non può che essere equivalente al primo: asfitticamente bagnato. La sospensione si dilata nell’acqua e l’aspettativa è nel verso della fine: l’auspicio che tutto cessi e la luce trovi un pertugio per tornare a illuminare una Napoli ormai annegata.

In un luogo di rimando, la fantasia si mescola al diluvio per creare una favola realistica dove le bambole rumoreggiano sull’uomo. L’individuo per un tramite atmosferico entra in contatto con se stesso e sembra che questo accada per la prima volta. La pioggia disegna il principio di riflessione di una o cento esistenze che improvvisamente ripiegano nel profondo: la contemplazione di altre possibilità, diversi destini mai vagliati prima.

L’acqua descrive un abito scomodo e angusto: la stoffa urticante di un presagio. Il mare appare sempre più distante: che l’acqua estrometta l’acqua?

L’attesa e il presentimento scavano come la goccia. Una Napoli fine anni ’70 resta bagnata per quattro giorni; la grande madre partenopea immobile osserva scenari di vita e di morte: incontri carnali e uffici da onoranze funebri. L’esistenza si racchiude in una patina umida, ma mai così autentica.

Accadono gli amanti segreti, la disperazione per i morti provocati dalla pioggia, una ragazza che vuol compiersi donna e “una simpatica triste bambina sempre allegra”. La fanciulla che trascina la fiaba nella realtà e muta monetine in canzoni. Il tempo si estende nell’indugio; uno stato che l’acqua pone sotto la luce di una lampada a petrolio.

Nicola Pugliese, attraverso un romanzo di rara bellezza e, scritto in una prosa suggestiva quanto mordace, offre alla letteratura un’opera originale toccata da quell’incanto capace di fondere realtà e fantasia. Una narrazione in grado di approdare dentro il respiro dell’umanità per mostrarne i vezzi e le fragilità. E lo concede grazie a una sentinella d’onore: la grande madre partenopea.

Dalle pagine de il Wall Street Journal:

Un prodotto di immaginazione lirica, caustica e fantastica di una Napoli assediata da un diluvio biblico.

Lo scrittore muore ad Avella nel 2013, luogo eletto nella persuasione di restare lontano dall’ambiente giornalistico e da qualsiasi circolo letterario.

  • da il GiornaleOFF, 14 maggio 2018

Ingmar Bergman – Un caleidoscopio in bianco e nero

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“La muerte”by vicent.girbes is licensed under CC BY-NC-ND 2.0




«Il colore sottrae qualcosa» – Ingmar Bergman, Stoccolma 1990

Scrittore, drammaturgo e acuto indagatore dell’inconscio, Ingmar Bergman (Uppsala, 14 luglio 1918 – Fårö, 30 luglio 2007) figura uno dei più autorevoli registi nella storia del cinema. La vita del cineasta svedese non ruota esclusivamente intorno alla pellicola, ma abbraccia ugualmente un filone artistico di scrittura e teatro. In Bergman, l’atto puramente inchiostrale si compie intorno ai venti anni, alla maniera di un lampo improvviso, durante la stesura di una piccola pièce teatrale. Scrittura che rappresenta il primo importante rendez-vous con la pagina. Bergman prende a gioirne sino a compiere un’attività di redazione che abbraccia una dozzina di componimenti nel breve periodo di quattro mesi. La penna trascina frontalmente al teatro; un gruppo studentesco rappresenta l’occasione per mettere in scena le proprie opere.

Nello sguardo del regista di Uppsala, le parole sostano solo momentaneamente sul foglio, per giungere in un secondo momento a muoversi sul palcoscenico prendendo vita nella figura dell’attore. La scrittura rappresenta una prima urgenza, un balsamo per tornare nei luoghi dell’infanzia e ridestarsi fanciullo. Il drammaturgo svedese Johan August Strindberg disegna il primo importante contatto tra Bergman e il mondo del teatro.

«Non voglio fare paragoni, ma Strindberg era il mio Dio e la sua vitalità, la sua rabbia, io le sentivo dentro di me, credo davvero di aver scritto una serie di pièce strindberghiane»

Il cineasta non pone la suggestione di Strinberg su un piano sistematico, non sente di comprenderlo appieno, tuttavia è consapevole di sentirlo. Intende sopra ogni cosa il furore e l’irruenza nel momento dell’ascolto musicale proprio della scrittura. L’appuntamento con il drammaturgo, oltre a rappresentare la ricerca nel teatro, mostra una ulteriore aderenza, quella con la fotografia. Strindberg, de facto, custodisce una peculiare intimità con la macchina fotografica. Legame affine all’onirico e presenza costante nella filmografia del regista svedese. Strinberg analizza l’arte fotografica alla maniera del sogno. Quella che lui definisce scrittura con la luce non è l’immagine copia del circostante, quanto il tentativo di governare la dimensione onirica dentro la realtà. Nel suo Diario dell’occulto, il drammaturgo di Stoccolma volge un vigoroso impegno nella volontà di depennare le barriere tra il sogno e la dimensione reale. Nelle pagine di questo dramma, l’autore mostra il sogno come una occasione taumaturgica e officinale per proteggersi dall’incedere del diurno. Non pensare l’immagine del sogno ma giungere a credere alla stessa attraverso una sollecitudine che si traduce in automatismo. Per Strindberg i sogni sono le sentinelle della realtà, un obiettivo finale dentro il quale l’individuo può trovare una soluzione all’incessante sensazione di colpa. Una sorta di tara che favorisce il “girare a vuoto” dell’essere umano.

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Dal teatro al cinema, il passaggio è breve seppur considerevole.

Di fatto, per Bergman l’accostamento alla pellicola sottolinea l’ambizione di una vita. Un anelito non disgiunto da una forma quasi ossessiva, una sorta di magnete nel sentiero della macchina da presa: gli attori, la troupe, l’atmosfera tutta. A metà degli anni Quaranta, muove i primi passi sul set, distintamente nel 1946 con il lungometraggio Kris (Crisi – 1946). Questa prima impresa rappresenta un copioso fallimento di pubblico.

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Prigione presenta la prima sceneggiatura del regista. Il film, girato in diciotto giorni, trascina una immagine particolarmente cupa, una sorta di pessimismo radicato nella natura dell’artista: l’impossibilità di superare i contorni tra le differenti dimensioni della realtà.

Nella sala da pranzo della nonna, A Uppsala, c’era una porta tappezzata. Quando il nonno morì, lei divise l’appartamento in due. La porta tappezzata della sala da pranzo era il passaggio chiuso che portava all’altro appartamento. O era forse soltanto la porta del guardaroba? Non lo aprii mai. Non osavo. Se penso che la frattura tra diverse realtà ha rappresentato la mia vita dall’inizio fino a oggi, trovo che i risultati della mia raffigurazione di essa siano stati relativamente magri. Soltanto poche volte sono riuscito a forzarne i mutevoli confini. In Prigione non ci riuscii affatto.

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Dal 1953, l’interesse si muove su tematiche etiche e metafisiche. Dal drammaturgo Eugene O’Neil, il cineasta afferra una dichiarazione che si farà manifesto di Det sjunde inseglet (Il settimo sigillo – 1957):

Ogni arte drammatica che non si soffermi sui rapporti tra uomo e Dio è senza interesse.

Le fondamenta sulle quali posa Il settimo sigillo sono l’atto unico Pittura su legno, redatto per la prima volta dagli studenti di Malmö. Risalente al 1955, quando Bergman lo redige per la sua compagnia di attori, custodisce alcune memorie infantili legate alla figura del padre.

Il settimo sigillo disegna una ragguardevole riflessione sulla morte impiantata dentro una cornice medievale. Durante le riprese, il regista si predispone musicalmente alle prove mediante l’ascolto dei Carmina Burana. Descrivono la preparazione del suo stato d’animo prima del film stesso: canti medievali intonati da religiosi erranti che vagano da un posto all’altro sotto la volta di un cielo oscuro rabbuiato da peste e guerra. Seguono preti e giullari. Il coro finale dei canti diviene per il regista il motivo della pellicola. La narrazione, seppur intrisa di tematiche prevalentemente religiose, risulta vigorosa e pulsante. Una frattura spirituale tra la beatificazione di origine infantile e il crudo razionalismo, attraversa tutti i fotogrammi. Non accadono contrarietà morbose tra il Cavaliere e lo Scudiero poiché la fede del fanciullo convive pacatamente con la ratio dell’uomo. In tal senso, l’opera mostra l’ultima manifestazione di credo come eredità paterna, una sorta di saluto alla preghiera, al tempo pratica quotidiana del regista. Rappresenta altresì l’addio alla paura della morte, ombra che durante tutta l’infanzia e l’adolescenza, spaventa il bambino e l’adolescente Bergman. Nel rappresentarla e nel vestirla come un clown dal volto bianco, il regista esorcizza definitivamente il demone. Comprende infine che tale paura è indissolubilmente legata alla fede religiosa. Solo dopo un piccolo intervento chirurgico, durante l’anestesia, la fine della vita si rivela proprio come il non esserci più. Un atto liberatorio dal credo e dalla paura.

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Le regie di Bergman descrivono un numero considerevole arrivando sino a quaranta pellicole in trentasei anni. L’eccezionalità espressiva dell’autore è tutta dentro quel fondersi di elementi diversi e sovente in contrasto: il realismo e l’impressionismo, la fede e il dubbio, l’isolamento e la vita comunitaria, il crollo e l’impossibilità di vivere appieno un sentimento. Ogni immagine, ogni sequenza, ogni singolo fotogramma disegnano il fardello di un significato che guarda a un altro ancora: quello indecifrabile dell’inconscio. Il volto mostra lo spazio del vuoto, di quella voragine che inesorabilmente abita l’essere umano. Bergman è la regia, la scrittura e la macchina da presa: il cineasta che nella completezza si fa scuola.

  • estratto dal libro ANIME INQUIETE – 23 storie per mancare la vittoria

Una donna alla finestra nello sguardo di Pierre Drieu La Rochelle

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Pubblicato in Francia nel 1930, tradotto per la prima volta in italiano, esce per i tipi di GOG edizioni il romanzo Una donna alla finestra di Pierre Drieu La Rochelle. 

La prima stesura dell’opera risale al 1927. L’autore è agli albori del secondo matrimonio con Olesia, Alexandra Sienkiewicz, e con ancora indosso i ricordi di un viaggio appena trascorso in Grecia. Al rientro in patria, la sua Parigi diviene il momento per la scrittura di un romanzo tra l’amore e la storia. La finestra, nel titolo, non è solo il luogo dove lo sguardo corre a realizzarsi, ma figura il momento femminile: una donna, Margot, afferra la possibilità di calare l’indagine su se stessa e infine viversi. Il varco disegna il confine tra un asfissiante cosmo borghese, del tutto chiuso sui propri vezzi e il mondo che accade sotto la volta di un fosco presagio: l’arrivo lento, ma imminente della guerra.

Margot è la sovrana di una trama che è prima intima e poi regalmente romanzesca: il conflitto del suo cuore anticipa e descrive quello venturo. Ancora un vetro, lo specchio a rimandare l’istantanea del nulla di una donna che invero è tutto. Guardarsi morire nella resa a una vita costruita sulla mancanza. E improvvisamente una fenditura fatale, una finestra a consegnare le offerte alla completezza: la scorsa sulla notte di una città dormiente per tutti, nell’eccezionalità di un rivoluzionario. Un uomo corre guardingo nell’oscurità, fugge dal mondo di Margot per giungere al cospetto dello stesso. Si fa strada nelle sue stanze, valica la finestra e perviene a una creatura isolata dall’amore, ma accogliente nella vita, fosse anche quella di uno sconosciuto.

Michel Boutros è l’urto che scombina l’esistenza di Margot, ne afferra la direzione e le restituisce la consapevolezza di un essere pieno anche fuori dal guscio borghese. Il comunista si accomoda nella borghesia della dama, sacerdotessa di calore e protezione: due estranei predestinati dalla storia. Due mondi distanti si stringono nel crescendo di una passione. Atene è lo sfondo remoto di una modernità inesorabile. Contrasti passionali, descritti dall’orlo di un suolo mitico quanto ospitale nell’avvento di uno scoppio, quello del cuore. Gli dei dell’Olimpo raggiungono il presente e, dentro il ventre nature opposte, si umanizzano nelle trame di Margot e Michel. Ogni inclinazione trova il proprio involucro e, all’interno della forma, rompe il bordo per ricomporre personalità e sfere affettive.

La Rochelle scava nell’animo umano per osare la fotografia perfetta dei moti che lo attraversano. La finestra dell’autore è l’osservatorio più in alto, tutto sul filo di uno stato dello spirito. I volti dei protagonisti, che includono anche un marito infedele e noncurante, sono ripresi sulla pagina quasi a profetizzare il film di Pierre Granier-Deferre, che nel 1976, contribuirà a conferire solennità al romanzo. Drieu è un sapiente conoscitore dell’animo femminile quanto di quello maschile, tanto da arrivare a rappresentare il maschile nel femminile e viceversa. In un processo di mutuo scambio, l’uomo e la donna si riconoscono in caratteri propri del sesso opposto. Boutros, il comunista rivoluzionario, può affidarsi a Margot solo in virtù di un principio femminile che lo abita. Margot può offrirsi a Michel in nome della natura maschile che la muove verso gli altri. Il marito Rico è l’orpello esterno, custode di una funzione importante: l’osservazione apparentemente imperturbabile. Immobile, nell’incapacità di trattenere la moglie e impedirne il sentimento per il sovversivo.

La donna è romanzo ancor prima che si scriva: impenetrabile sino all’amore, sussulto di cuore che apre e chiude l’opera. Intorno, accerchiati solo da un’accolta di cadaveri viventi, ornamenti di una storia tutta di mente e cuore. Il desiderio, corroborato dall’impossibilità, si cala nel sangue e il rosso cola sino all’esultanza del ventre. Il laccio tra gli amanti si stringe prima dell’avvento delle loro carni. Sì, poiché l’amore tra due anime dissimilmente affini, si consuma molto prima dell’incontro. L’amore si corona in quella costruzione certosina dell’altro, all’interno di un pensiero custode del senso. L’orgasmo è il naturale prolungamento della fantasmagoria: venuta di illusione e speranza. E nell’impossibilità di goderne, accade il movimento di due vite ardenti.

Margot, nell’incontro/scontro con i princìpi del comunismo, viene fuori dal suo stato marcescente; Boutros, inghiottito dall’utopia, esce dalla narcosi di una fissità immobile del verso teorico. La donna è dea, l’uomo è mito, coperti dalla polvere del tempo e dalla inerzia della loro provenienza, ritrovano il moto vitale sul ciglio di una finestra affacciata sulla notte.

Margot se ne frega dei soldi. Ciò che vuole è l’amore, quello vero.

La divergenza tra i due universi è presente in tutta l’opera, ma dalla stessa viene eclissata. Viepiù il contrasto rappresenta il mezzo che i due protagonisti, ingessati nei loro abiti sociali, utilizzano per l’indagine autoptica di ciò che è lontano, e nella lontananza, estraneo. La natura sostiene gli amanti nel progetto di fuga: via dal marito, dalla borghesia e dai fantasmi. Il silenzio del creato ripercorre l’antico pudore di un amore, dell’amore.

Il romanzo è donna e ruota, quasi in maniera ossessiva, intorno alla figura di Margot: gli uomini accadono solo perché vivono nel suo soffio vitale. Lei crea, lei distrugge. Lei è creatura della natura. Ancora, disegna gentilmente la crepa di ogni convinzione poiché è l’umano che entra nel mito. Il rivoluzionario trova nella donna la misura della debolezza, l’indicatore della fragilità di ogni costrutto. Ça va sans dire: l’ideale regge solo in assenza di umanità, ossia fuori dalla vita della creatura. La borghesia che affardella Margot, come una fosca aura finemente vestita, è nel paradosso, l’essenza dell’amore comunista. L’uomo è in grado di amarla proprio perché incipriata dalla sua classe: calze di seta a negare un altro mondo possibile. E proprio quella fibra descrive la membrana che riveste il cuore di Michel Boutros. Se anche lei, alla stessa maniera dell’uomo, fosse una comunista immolata al suo ideale, sarebbe capace di devozione? No, Margot è lontana da convinzioni storiche e può esistere solo in un mondo merlettato e, dentro lo stesso, farsi dea meritevole di adorazione.

Eppure all’amore ci ho creduto e ci credo ancora, non ho mai smesso per un istante di pensarci. È fatto per gli altri e non per me.

Boutros, il sovversivo è consapevole che le rivoluzioni più agevoli si compiono nei vicoli del mondo. Diverso è il sovvertimento dei dettami di un cuore rassegnato. Contempla l’amara possibilità di intaccare la purezza, che solo nell’ingenuità, è bellezza. Il lusso della femme è il tumulto di cuore nell’uomo, fasti abdicati in favore di chimere che impattano con la vita. La donna è afflizione nel ricordo di un Boutros che fu. È diletto in quel che sarà: la devozione totale alla rinuncia.

Le donne, il cui ruolo è quello delle opere più grandi, delle più grandi servitù della vita, non hanno affatto, come gli uomini, la paura di sporcarsi le mani, la paura del compromesso.

L’amore supera il voto all’idea. Margot è il supporto mordace e corroborante alla fuga di un rivoluzionario, presumibilmente ricercato. E dentro il fuggitivo la dea diventa umana e torna casta. Castità pietrificante sino all’imminenza della carne. Rimandare i sensi per goderne con più forza in ogni frammento di pelle. La purezza è funzionale al ricordo. Nella memoria acquista la grandezza che solo l’assenza può conferire. L’amore cresce nella vampa di una mancanza, l’impossibilità di fare progetti futuri. Nella noncuranza del giorno dopo e nell’ipotesi di una separazione si alimenta la fiamma. L’occasione di ricordare supera in forza il compimento dei corpi. Margot può essere amata solo dentro una condizione palesemente avversata da Boutros. Se lasciasse il suo cosmo di seta, abdicherebbe anche al fascino?

C’è un luogo in cui tutto può accadere: Delfi. Non serve l’oracolo a decretare l’unione di due creature in simbiosi con i miracoli della natura. Delfi è la manta che avvolge l’umano nella contezza. Coscienza che la vita, presto, molto presto, li osserverà arrangiarsi nel quotidiano e fuori dal mito.

Abbiamo paura di vivere insieme, – disse Michel, – ma al di là di questo abbiamo già paura di separarci.

La ripresa è nella finestra, quell’osservatorio dove potranno vedersi in un futuro improbabile quanto irrinunciabile. La delusione è dietro l’angolo, nel momento in cui il desiderio si scontra con il bisogno dell’avvenire quotidiano. Tutto si consuma nella tela greca, suolo che Drieu fa cantare alle corde di Boutros. Richiami che l’autore porterà con sé per tutta la vita. Anche ne Il diario di un delicato, opera pubblicata nel 1944, un anno prima del suicidio. Si legge ne Il Diario:

Sono dunque un esteta, se non posso vivere senza rivedere il Partenone? Ma sono stato toccato al cuore da quel colore di miele striato di rosa, infinitamente punteggiato di cristalli.

La Grecia è per l’autore di Una donna alla finestra il mondo dove tutto vive: l’immobilità e il moto, il passato e il presente, la mitologia e l’umano. La finestra borghese è la luce sul mondo degli uomini: i ribelli, i sovversivi, i perbenisti, gli ufficiali, tutti sotto lo sguardo dell’antichità.

Il corpo di Margot illumina le gesta dell’uomo, insieme nella storia della civiltà e in quella ancora più antica dell’amore.

Da te voglio avere soltanto ciò che domani assomiglierà ancora all’oggi.

La Rochelle costruisce un romanzo sull’intimità dei personaggi, gira un film sulle immagini interiori e, mediante la discesa nel profondo, allestisce un’opera che non dimentica la descrizione del momento storico. Sapiente e delicato, il libro si lascia guardare nel compimento di un amore avvolto dalla mitologia dell’umanità.

  • da l’Intellettuale Dissidente, 20 febbraio 2018

Figli di una letteratura superiore: il tesoro del dottor Destouches

celine

L’eccezionale saggio di Andrea Lombardi offre la rara occasione di conoscere e comprendere le molteplici e spesso contrastanti sfumature del genio di Céline attraverso una mole notevole di documenti, interviste, ricordi, lettere.

Una babilonia di questioni reali o virtuali volteggiano intorno al quesito dei quesiti: “qual è il libro che cambia la vita?” La scelta può ricadere su risposte multiple che circoscrivono il prodigio in un numero che oscilla tra il cinque e il dieci. Ma il libro che marchia è come il grande amore: uno e definitivo. Il resto è nient’altro che tributo di quell’uno, orbita del podio. La nostra risposta che risulta interessante solo per il valore inestimabile dell’opera oggetto dell’articolo, cade senza alcun dubbio su il Voyage au bout de la nuit di Louis-Ferdinand Céline. È il viaggio in quella lettura che irrompe mediante una frattura estrema; tra un prima ricolmo di allettanti verità e un dopo debordante di sconsolanti certezze. Lo smascheramento di un’umanità priva di speranza, che nello scorrere della pagina, si fa ineluttabile scoramento. Ma il viaggio diviene anche indagine sull’autore. Céline si incolla indosso, è quella realtà che più tenti di non guardare, più scava in profondità per riproporsi ogni volta nel tuo personalissimo giro di angolo. E allora succede di ritrovarsi all’interno di Mort à crédit nell’inchiostro delle prime righe già impresso sulla pelle:

«Eccoci qui, ancora soli. C’è un’inerzia in tutto questo, una pesantezza, una tristezza…»

Fardello, che ancora a conclusione della lettura, si fa nuovamente pungolo alla curiosità. Un avanzare tortuoso che passa per i discussi Pamplhet spingendosi sino alla Trilogia del Nord: le agitate acque che non si arginano. Il tomo che prendi, lasci e riprendi in una sorta di stato d’animo conflittuale, per quanto calamitante. Si resta sulla soglia di un linguaggio che non permette la via di mezzo tra l’inghiottimento e la distanza. Si rimane frastornati da quella scrittura che non è parola, misura e ancora parola. Disorientati da una punteggiatura che a scuola avresti scontato infine con la penna rossa. Ma sopravviene l’urto fragoroso di percepirne la grandezza. Si viene investiti da quel gigantesco timore reverenziale di trovarsi presumibilmente al cospetto del più grande scrittore del XX secolo. E allora la spirale è ancora nel procedere, nell’avanzare in un’insaziabilità che raramente si manifesta. Una voracità e un’ingordigia che riescono a trovare una sospensione in un meraviglioso prodigio cartaceo, tutto impregnato di Monsieur Céline. Un portento colma l’italianissimo vuoto celiniano, a cura di Andrea Lombardi e con la collaborazione di Gilberto Tura su Louis Ferdinand Auguste Destouches. È una tavola bandita a festa, un banchetto romano dove ogni appetito viene appagato. Quelle trecentodiciotto pagine dove il lettore coglie l’occasione di incontrare le numerose vite dell’autore dove, ogni contraddizione, si annienta all’inizio e al termine di ogni ulteriore esistenza. Si sosta incuriositi su un Destouches patriottico ed entusiasta di andare in guerra. La stessa che lo inghiottirà nell’orrore del suo inchiostro. Si indugia sullo svelamento che Mort à crédit riconosce un altro traduttore, oltre al noto Giorgio Caproni. Un Caproni appassionato anche nel raccontare un presunto rammarico; l’eccitazione e il dolore di aver offerto una voce all’intraducibile Céline e, insieme, a tutte le ombre che l’operazione comporta.

Si solidifica la certezza, attraverso saggi e documenti, di un monumentale innovatore linguistico e letterario. Lo scomodo latore di una frattura: la lingua scritta evolve sulla pagina in lingua parlata. La parola si fa ritmo in un cadenzare disarticolato che figura in imprecazione al reale; invettiva contro l’accadere fatale dell’istante. La martoriata mente del medico di Meudon è il luogo dove la fantasia cede fievolmente il posto a nuovi colori: fosche tinte di rancore iperrealistico.

«Mi importa soltanto lo stile», asserzione peculiarmente celiniana che tende a riproporsi come emblema di scrittura in tutto l’attraversamento del libro. E accade che quello stile, non custodisca altro nome che il suo, dentro un’unicità definitiva e inimitabile. In un’epifania di neologismi, la sua lingua si spiega all’infinito, alla maniera di un lenzuolo tirato da più parti nel cuore della vita. Una scrittura che si fa ”l’oltre-scrittura”, il superamento di quel francese che non può e non vuole essere grido di dolore fuori dall’inchiostro nero pece di Céline. E dall’altra parte della parola, giunge un “oltre- intellettuale” che per scorrere nel foglio abbisogna di insozzarsi nell’abisso, liberato dalla volontà di emanciparsi da una voragine certa. La guerra è dichiarata all’illusione. E Céline segna il foglio con tutta la repulsione che lo abita, disarciona la letteratura, getta tutto l’orrore nel ventre dell’ingiuria. Un percorso a ostacoli, che zigzagando tra i puntini, si arresta in presenza di un esclamativo; disorientamento tra l’arretrare e l’incedere tra i cadaveri e la puzza che lo scrittore mai si concede di tacere.

È il disincanto che investe l’esistenza umana in una pagina in corsa; l’addio al sogno nel benvenuto a quell’artista, quell’unico artista, che cambia la vita in un Vojage scuro quanto l’esistenza. Céline, il medico delle banlieue è la lanterna che illumina il macabro collasso dell’Europa; non pone psichiatrici “se”, mostra la tenacia della caduta. Un modus, che trova le radici nella traduzione della realtà, solo il tramite di un immediato cataclisma. Sventura, che principalmente nell’uso dell’argot, rivela il proprio naturale sviluppo. Un’attitudine a svelare la calamita della sua epoca verso l’apocalisse, attraversa tutte le preziosissime pagine del libro. La ritroviamo nelle parole di Ezra Pound in un discorso radiofonico del 1943:

«Bonjour, Ferdinand/ non credo sia il mio dovere il catalogare le

pubblicazioni francesi/ ma riconosco sempre un vero libro quando ne

vedo uno/ a prescindere dal contenuto/

Ferdinand ha saputo TROVARE la realtà/Ferdinand è uno scrittore

Il prossimo sarà l’ultimo/

Gnrr gnrrgnrrgnrr.

Suicidio della nazione.

Gnières! Gn/gn

Questo sarà il suicidio della nazione.

Non si ritornerà più al paese.

Non solo per la sua copia, l’abbondanza delle sue parole/Non solo per il

suo contenuto/ Si deve leggere Céline un giorno o l’altro. I membri attivi

del pubblico devono COMPRARE le loro copie de l’École des Cadavres/

non basta ascoltarmi per 5 minuti alla radio, o di sfogliare una delle sue

opere a casa di un amico».

 

Ancora in quelle di Pierre Drieu la Rochelle, attraverso il saggista Frédéric Saenen:

«Drieu scopre in Céline ben più che un temperamento nichilista. Comprende che il medico dà una diagnosi spietata sulla società solo per pervenire meglio a guarirla dai mali che la opprimono; e che malgrado l’onnipresenza della morte nel suo universo, è in fondo la vita che intende servire, con l’esaltazione della danza, del canto, d’una poesia dell’anima inaudita sino ad allora nella letteratura francese».

 

Un volume che, nell’impagabile cura di Andrea Lombardi, si fa prezioso forziere, messaggero di aneddoti, curiosità, vicende e storie che colmano un vuoto italiano in materia di Céline. Si mostra l’incontro di un Destouches con l’eminenza della beat generation, tutta in una curiosità: la scoperta che gli amati cani del medico servono apparentemente solo per causare fracasso. Con meraviglia si leggono e rileggono le parole di Charles Bukowski in merito al suo viaggio all’interno del Vojage. Nelle parole dell’illustratrice Eliane Bonabel irrompe un eccezionale ricordo. Una discreta amicizia della durata di trenta anni; colei che per prima lo incontra dopo il lacerante ritorno dalla Danimarca:

«L’espressione di “Céline veggente” è stata talmente usata che è divenuta quasi banale, ma di fatto esatta. Anche negli ambiti che gli interessavano poco aveva delle folgorazioni straordinarie che vedo confermate nel tempo. Non è il suo comportamento a volte pittoresco che lo rendeva unico, ma la struttura della sua mente, un tipo di rapidità d’analisi, dei lampi che non ho riscontrato in nessun altro. Non amo le espressioni magniloquenti, ma il termine di genio non mi sembra esagerato se riferito a lui. Eppure, più che l’essere eccezionale, più che lo scrittore unico, è l’amico premuroso e gentile, dalla sensibilità quasi femminile che ricordo. Il nostro rapporto è stato caloroso, ma senza mai la minima confidenza; tutto era implicito, senza pettegolezzi inutili né sentimentalismi. Sapevamo, ciò bastava».

Un saggio da dischiudere lentamente, un remoto baùle all’interno del quale i ricordi si fanno corporei in una prodigiosa danza della memoria. Una visione fantastica che contempla una delle due interviste rilasciata dalla sua unica figlia Colette Destouches-Turpin. Il medico è nello scrittore, lo scrittore è padre di puntuta distanza in un sigillo di sangue e amore:

«Eccolo da me, si getta tra le mie braccia, e allora lì lo riconobbi. È così leggero, così vecchio… Non parlammo. Le nostre lacrime che cadevano, qualche parola incoerente, ed era tutto… avevamo detto tutto…»

Nulla si può trascurare nel fondo di tale cassa, ancor meno la reminiscenza di uno degli ultimi quattro vicini del Destouches di Meudon; Pierre Duverger, tutto in un’enunciazione definitiva: «Céline? La lucidità del nostro orrore».  Un cappello magico dal quale Lombardi estrae le parole della bella romanziera Maud Sacquard de Belleroche:

«Ho avuto numerosi amanti, ho frequentato tantissimi scrittori, e ho conosciuto il successo letterario. E un giorno, leggendo Nord, mi trovo personaggio del romanzo… Quello che vi posso dire, è che in tutta la mia vita, di scrittori e uomini di successo ne ho incontrati parecchi. Ma di geni, uno solo; e quel genio era Céline. Un genio così, non si incontra tutti i giorni! Ve lo posso dire…»

E ancora foto, ricordi, lettere: il voyage nella letteratura. Un voyeurismo famelico finalmente saziato. Un vuoto colmato da quel magico scrigno che troneggia fiero in un volume da collezione. L’imperativo è nell’attraversare un libro che può farsi luce anche nella più polverosa e dimenticata delle librerie.

– Louis-Ferdinand Céline. Saggi, interviste, ricordi e lettere (Ed. Italia Storica, pp. 324) A cura di Andrea Lombardi con la collaborazione di Gilberto Tura

  • da l’Intellettuale Dissidente, 18 luglio 2016

 

 

Cinema. Pietro Germi e Gastone Moschin. Il canto del folle ne Il cinema delle stanze vuote

IL FOGLIO

[…] I luoghi del regista Germi sono regioni, province e piazze che si battezzano in nazione italiana. In Signore&Signori, film del 1965, il territorio è un’ode mortuaria alla provincia veneta. La meschineria si fa luogo, zona, terra. La fiera della vanità nella prima domenica del mese, di vanagloria nella seconda, di sfarzo nella terza e giù sino al termine dell’anno stamburato.

L’opera, divisa in tre episodi, figura l’amaro prequel di Amici miei, diretto successivamente da Monicelli a causa della morte di Pietro Germi l’anno precedente l’uscita del film.

Gli episodi non acquistano importanza per lo sviluppo della pellicola quanto per la mostra dell’empietà che prende l’essere umano tutto.

[…] L’analisi di Germi è spietata senza mai farsi moralista. Gli inquilini del palazzo di piazza Farnese in Un maledetto imbroglio, a distanza di pochi anni, evolvono nei fantocci borghesi della provincia veneta. Sono mossi dal vizio – quello più turpe fine a se stesso – da oziose infedeltà e fatui rituali simulatamente avvincenti. Maschere che tornano a mascherarsi. Non esiste alcuna ricerca di autenticità. La miseria umana è socialmente accolta. Pecunia non olet è il grande credo; il denaro è innanzitutto riparatore: tutto, anche l’azione più raccapricciante, può trovare la salvezza nei quattrini.

Lo sguardo amaro di Germi esplora una profondità che è abisso senza epilogo. La provincia è la terra del nulla. Non si odono suoni fanciulleschi a sedimentare una speranza. L’accadimento è in una singolarità: l’immagine salvifica di Gastone Moschin.

Ne Il cinema delle stanze vuote, nelle pellicole dell’abulia, ricorre un elemento che solidifica l’inclinazione allo scoramento vitale: la figura del folle.

In Signore&Signori giunge un’ improvvisa alterazione al gramo tedio che assilla l’umanità. Nella rivelazione della figura del pazzo, la malinconia passa dal Germi regista al Moschin attore. Davanti agli occhi giudicanti della moglie, Gastone Moschin, il ragionier Osvaldo Bisigato, rappresenta un sepolcro imbiancato. Invero il ragioniere è il mesto innocente che la macchina da presa immortala nella lettura de Le affinità elettive.

Il ragioniere non è il ragioniere. Il ragioniere non è disposto a calcoli o previsioni. Il ragioniere è in preda a una malinconia dell’assenza che lo rende inquieto sino all’insania. Estro moralmente inaccettabile di una passione d’amore fuori dal matrimonio. Il ragioniere è creatura nuda, un fanciullo alla riscoperta dell’innocenza, trascinato dallo sguardo verso una creatura perturbante: la cassiera Milena in tutto lo splendore di una giovane Virna Lisi.

Il ragioniere è l’urlo sopra la folla degli abietti, l’interruzione del tempo sociale nell’urto genuino di una goffa fuga d’amore. È la voce del Domenico di Tarkovskij che, sulle scale del Campidoglio, dall’opera Nostalghia, porta un’ode al grido:

Quale antenato parla in me/Io non posso vivere contemporaneamente nella mia testa e nel mio corpo/ Per questo non riesco a essere una sola persona/ Sono capace di sentirmi un’infinità di cose contemporaneamente/Il male vero del nostro secolo è che non ci sono più i grandi maestri/La strada del nostro cuore è coperta d’ombra/bisogna ascoltare le voci che sembrano inutili/bisogna che dai cervelli occupati dalle lunghe tubature delle fogne e dai muri delle scuole, dagli asfalti e dalle pratiche assistenziali, entri il ronzio degli insetti/Bisogna riempire gli orecchi e gli occhi di tutti noi di cose che siano all’inizio di un grande sogno/Qualcuno deve gridare che costruiremo le piramidi/Non importa se poi non le costruiremo/Bisogna alimentare il desiderio/Dobbiamo tirare l’anima da tutte le parti come se fosse un lenzuolo dilatabile all’infinito/ Se volete che il mondo vada avanti dobbiamo tenerci per mano/Ci dobbiamo mescolare i cosiddetti sani e i cosiddetti ammalati/Ehi, voi sani, che cosa significa la vostra salute/Tutti gli occhi dell’umanità stanno guardando il burrone dove stiamo tutti precipitando/La libertà non ci serve se voi non avete il coraggio di guardarci in faccia, di mangiare con noi, di bere con noi, di dormire con noi/Sono proprio i cosiddetti sani che hanno portato il mondo sull’orlo della catastrofe.

È il canto del folle, il remoto profeta descritto da Friedrich Nietzsche nell’aforisma 125 de La Gaia Scienza. Con la lanterna accesa, il ragionier Bisigato, vaga per la provincia veneta in cerca di autenticità, trovando infine solamente carestia morale. È colui che mediante una confessata infedeltà, tenta la via del risveglio della coscienza. Tentativo che urta una umanità votata al nichilismo dell’assenza di Dio, dove Dio è assenza di valore morale, spirituale, umano.

Gastone Moschin si muove tra i morti. Dio è morto, la provincia l’ha freddato e Bisigato è il pazzo che nel vuoto vuole risorgere come l’Oltreuomo e recuperare il candore del fanciullo. Ma la terra si fa infausta e il folle d’amore è in anticipo sul tempo. Una stagione inospitale che necessita ancora e ancora del trascorrere dei cicli temporali per poter infine guardare al grande gesto. Il ragioniere scaglia l’amore come il folle getta la lanterna: in frantumi e colmo di rassegnazione, l’uomo torna alla malinconia del vivere. La provincia si ritira nell’ordine e il canto retrocede in diceria.

Germi svela il lato più oscuro dell’umanità, donando al folle malinconico il fuoco della rinascita. Ma le cose sfuggono al pazzo. Nella mancanza di un valido sostegno, la creatura si sgretola in quel corpo che nulla trattiene. La rincorsa all’autentico porta alla frattura: più si avvicina all’umanità, più si allontana da se stesso. Il ragioniere è la lanterna nel buio di Pietro Germi.

  • Da Il cinema delle stanze vuote

Libri. Memoria di ragazza, Annie Ernaux e la scrittura nella memoria

Annie

Mémoire de fille, uscito in Italia nel maggio 2017 per L’Orma Editore con la traduzione di Lorenzo Flabbi, è l’ultimo libro della scrittrice francese Annie Ernaux.

Il tempo è quello dell’estate del 1958, qui nelle pagine a descrivere un’adolescente qualunque, dunque unica. Perché l’adolescenza è un passaggio unico e definitivo. Con passo incerto, tutto si muove verso l’età adulta. La fanciullezza è un inciampo irresoluto dal quale liberarsi. Liberazione che può avvenire soltanto a colpi di immaturità.

La storia è quella di Annie Duchesne, una giovane ragazza che, per la prima volta, si allontana dal nido familiare per lavorare come educatrice nella colonia di S nell’Orne. Il lavoro segna lo spartiacque tra le mareggiate adolescenziali e il dopo, il futuro custodito nel tempo del ripensamento. La colonia muta in luogo di passaggi inesorabili alla volta dell’avvenire. L’esposizione di un’età indugiante, diviene nell’opera della Ernaux, un’occasione per fare un viaggio a bordo della scrittura. La scrittura che mostra il suo farsi. La scrittura che, mediante la presa di una memoria da ricercare, trova la circostanza per confessarsi in tutto il suo processo.

L’idea che potrei morire senza aver scritto di colei che presto ho preso a chiamare “la ragazza del ‘58” mi ossessiona.

(…) Limitarsi a “godersi la vita” è una prospettiva improponibile, dal momento che ogni istante senza un progetto di scrittura è come se fosse l’ultimo.   

L’estate del 1958 è solo il bordo del foglio, la pavimentazione dove cade la parola, il grembo in cui si scalda la frase. Il tempo è nella sua dilatazione. L’estensione verso il ricordo di una giovane esistenza alle prese con il primo amore, il primo rapporto carnale, il primo accadimento da cercare e vivere, si collega alla mano dell’ultimo colpo di inchiostro. Scrivere figura un’urgenza quanto l’accettazione di avvenimenti accaduti e per questo irreversibili. La donna guarda la ragazza che fu e che non vorrebbe tornare a essere. L’urgenza vive anche la volontà di dimenticare. Ma dimenticare significa ricostruire il dimenticato. E ricostruire serve solo a passare la mano alla distruzione. La scrittura diviene liberazione.

Memoria di ragazza è la narrazione di una scrittrice che descrive il suo intimo rapporto con la scrittura. I dubbi, le certezze e i bisogni che l’atto favorisce. Ancora, la scrittrice è la fanciulla del 1958, la ragazza popolare della drogheria, la figlia unica, la creatura che ha bottinato il mondo attraverso i libri, l’avvicinamento inesperto al sesso. Sì, il sesso, quello dovuto per fingersi scioccamente emancipati.

L’istante della scrittura è il balsamo della memoria, un soccorso nella curiosa illusione di riviversi, un sostegno alla volontà di raccontarsi.

Il tempo del foglio diventa la dimensione neutra, quella della parola scritta. Ciò che è scritto è accaduto e l’accaduto può solo godere della certezza che non accadrà nuovamente.

Lo sguardo indietro vive il naturale imbarazzo di un passato vissuto a spinte di goffaggine, sosta nell’impossibilità di trovare un senno del prima e perdura nella frattura tra chi eravamo e chi siamo. È dentro lo scisma che nasce la scrittura. Raccontare tutto per separarsene solo dopo averlo narrato. Perché scrivere è anche distruggere, demolire l’avvenuto dentro di noi, cancellare il passato degli altri su di noi, annientare il pregiudizio nel giudizio.

Il racconto di questa opera imprescindibile per garbo, traduzione e sapienza narrativa è tutta dentro la volontà di abitare il ricordo, non nel puro atto mnemonico, ma nel farsi ricordo stesso e bruciare quell’esistenza altrimenti destinata all’oblio adolescenziale.

Il romanzo è l’essere; l’esserci: stare nel 1958 da una stanza del 2014. Il luogo è quello dei richiami letterari:

«In un ambiente intessuto di complicità di cui non fa parte, si scopre anonima e invisibile». Qui Annie, Duchesne o Ernaux, muta ne La signora Dalloway:

«Aveva la bizzarra sensazione di essere invisibile, non vista, non conosciuta»[1].

L’una e l’altra insieme a scoprirsi invisibili.

Fuori dall’inciampo vanitoso, la Ernaux dona al lettore riferimenti letterari e cinematografici: Les Amants, Ultimo tango a Parigi e Hiroshima mon amour per il cinema. Lo straniero, Memorie dal sottosuolo, il suggerito Mrs Dalloway per la letteratura.

La scrittrice passa dalla prima alla terza persona senza perdere alcuna intimità con il lettore. Nella prima resiste una donna che si interroga su una ragazza. Nella terza accade una fanciulla che indaga se stessa. Tutti i passaggi avvengono su un piano armonico, non procurando urto alcuno.

Il ricordo di ciò che ho scritto già si cancella.

Non so cosa sia questo testo.

Persino quello che inseguivo scrivendo il libro si è dissolto.

La scrittura si fa scrivendo.  

 

[1] Virginia Woolf, La signora Dalloway, Einaudi editore, Torino, 2014, pag. 11