Paul Léautaud – Un ritratto

Accade che una vasta sorgente di verde accolga il fiore della poesia nel busto di Charles Baudelaire. Succede che quel rigoglio di sentieri dilati la sua vegetazione per porre l’ascolto alla musica suggerita dal busto di Beethoven. Capita che quello stesso giardino di trentacinque ettari si distenda per ospitare il generoso incedere di un piccolo uomo con indosso due cappotti e delle grandi scarpe teatrali. E accade che quell’uomo sia Paul Léautaud, lo scrittore che consuma la sua vita tra i castagneti parigini del Luxembourg e la sua giungla personale di Fontanay-aux-Roses.

Dopo il lavoro al Mercure e prima del rientro a Fontanay, Paul Léautaud sospende il tempo presso il jardin per salvare un gatto dal freddo, un cane dalla fame, un animale da un uomo. E allora questo ami et protecteur des chats et des animaux, giunge tra i passaggi fioriti per vedere germogliare ancora una volta la vita.

Paul Léautaud è lo scrittore che frequenta la scuola della purezza. E cosa significa essere uno scrittore puro? Vuol dire ignorare la compiacenza, disinteressarsi della critica, scrivere senza pensare alla pubblicazione.

Scrivo solo per me, non ho la minima certezza di essere letto un giorno. Probabilmente non sarò più vivo. Quindi sono assolutamente sincero.

Non esiste alcuna dilazione tra lo scrittore e l’uomo: qui l’uomo è la scrittura e la scrittura è l’uomo. L’essere libero, franco fino alla spietatezza, onesto nello sguardo che si fa inchiostro e poi parola. Léautaud è un realistico corrispondente della vita: registra la realtà che si consuma davanti al suo sguardo per poi riferirla alla chiamata della pagina. L’autore non indugia sulla alterazione dei fatti, non è interessato all’esito, dunque non scrive per fare colpo sul lettore. La libertà è un valore che riporta nella scrittura, l’onestà è il solco che segue e persegue la sua penna. Una letteratura onesta che giunge diretta sino a farsi brusca perché la franchezza frequenta gli spigoli, le punte aguzze, gli aculei. L’autenticità è scomoda ma Paul non può fare a meno di incalzarla realizzando la grande fusione tra la scrittura e l’uomo.

Bisogna scrivere ciò che si è visto, ciò che si è inteso, ciò che si è provato, ciò che si è vissuto.

Con la sua andatura curiosa, Paul lambisce le strade parigine: il flâneur si perde nel grembo della città, l’unico ventre caldo capace di accoglierlo. Perché se Parigi è l’eterna presenza, la figura materna è l’eterna assenza. Paul nasce nel 1872 al 37 di rue Molière nel I arrondissement di Parigi, dall’unione tra Firmin Léautaud e Jeanne Forestier. Il 1872 è un anno bisestile: a Giverny in Normandia Claude-Oscar Monet realizza Impression, soleil levant; in Italia il Vesuvio vive un’importante eruzione; negli Stati Uniti apre il Parco Nazionale di Yellowstone e Parigi vede la nascita di uno dei più importanti autori del Novecento francese: Paul Léautaud.

Firmin Léautaud, impenitente seduttore, lavora come suggeritore presso la Comédie-Française. Jeanne Forestier è un’attrice teatrale. Paul cresce tra l’indifferenza paterna e le cure di maman Pezè, la domestica del padre. Abbandonato a cinque giorni dalla nascita, il piccolo Léautaud non conosce l’amore materno. Nel corso della sua vita incontra la madre solo quattro volte. Il ruolo che riveste la figura di Jeanne Forestier è quello della grande assente. Assenza che orienta tutta l’esistenza di Lèautaud, tanto da condurlo a una vita sentimentale recisa e manchevole, come se una sorta di epitaffio sul cuore recitasse che si ama come si è stati amati. Lo scrittore costruisce relazioni soprattutto con donne più grandi, sovente dedite alla prostituzione e mai particolarmente belle. Legami edificati sul rapporto carnale, dove il sesso rappresenta l’unico modo di amare: la carnalità si sostituisce al cuore, non c’è spazio per afflati trascendentali fuori dal corpo. L’unico turbamento che coinvolge lo scrittore è quello che sente per gli animali, stimati come dei veri amici.

E proprio in materia di diritti degli animali, Léautaud può essere considerato, non a torto, un importante precursore: già nel 1937 si schiera apertamente contro la vivisezione, battendosi in seguito contro la corrida e soprattutto contro la caccia. Finanche i villeggianti non passano indenni sotto la scure delle sue invettive, considerati esseri frivoli poiché colpevoli di sacrificare le bestie al capriccio della villeggiatura. Spende parole al vetriolo anche contro lo sfruttamento degli animali nel circo. Nel corso degli anni la sua casa di Fontenay-aux-Roses offre alloggio a più di trecento gatti, almeno centocinquanta cani, un’oca e Guenette, la scimmia salvata da un circo. Il narratore parigino dispone il suo mondo dalla parte degli animali, anteponendo i loro bisogni ai suoi. In tal modo stabilisce una grande distanza tra sé e gli uomini. La sua capacità di amare abbraccia appieno solo l’universo animale, tanto da considerare cani e gatti come delle personcine. Se proprio deve confrontarsi con degli esseri umani, predilige frequentazioni moralmente riprovevoli.

Spesso un furfante è un uomo superiore, a disagio in mezzo ai nostri pregiudizi.

Le grandi assenze si consegnano all’epidermide, narrano un profumo, reclamano un sapore, necessitano della costruzione di un ricordo che non esiste. Le grandi assenze vivono la forza che diserta la presenza, descrivono delle presenze archetipiche che custodiscono l’autorità di un lutto e il potere di una nascita. Le grandi assenze sono bellezze dolorose inguainate da tendaggi scuri, vale a dire oscuri.

Presenze dal sapore acre prosperano sino a diventare delle ossessioni. Accade con gli affetti mancati come con quelli perduti. Abbandonato dalla madre a pochi giorni dalla nascita, Léautaud matura per questa tenerezza mancata una vera e propria fissazione. Come scrittore autobiografico, porterà la figura materna in molti dei suoi scritti: da Petit ami a Lettre à ma mére. Nonostante l’abbandono, Jeanne Forestier svolge un ruolo importante tra Paul e la scrittura: è lei stessa a muoverlo al romanzo.

Se fossi in te, scriverei un romanzo sulla tua vita. È un tema fecondo, e a svolgerlo bene potresti fare la tua fortuna solo con quello. Non ci hai mai pensato?

Léautaud vive ogni istante tra l’urgenza della scrittura e il bisogno di ravvivare quel passato privo di amore per farne infine letteratura.

Le piace Proust? Con Isabella Cesarini alla ricerca della Sagan

Di  Emanuele Beluffi 28/10/2024

Il nuovo libro di Isabella CesariniLe piace Proust? (uscito per 96, rue de-La-Fontaine), è un’opera che intreccia la biografia immaginaria e il memoir, dando voce all’intensa vita della scrittrice francese Françoise Sagan. Riprendendo la struttura di un diario interiore e confidenziale, il romanzo è un affresco della Parigi del dopoguerra e della vivace scena culturale che Sagan ha frequentato, omaggiando, al contempo, le fonti letterarie che l’hanno ispirata. Attraverso l’immaginario intimo di Sagan, Cesarini offre uno sguardo ravvicinato su una delle figure più affascinanti della letteratura del XX secolo.

A partire dal titolo, Cesarini gioca con il parallelismo fra Sagan e Marcel Proust: il riferimento a Le piace Brahms? si trasforma qui in una domanda sull’autore che più ha influenzato il suo pensiero. Marcel Proust, l’artefice della Recherche, è infatti una figura chiave nella vita di Sagan, al punto che in vita rinunciò al cognome paterno Quoirez in favore di Sagan, riprendendo il nome della principessa che appare fugacemente nel capolavoro proustiano. Nella costruzione della memoria proustiana, Cesarini riscopre l’importanza di un vissuto di “corpo e carne”: un corpo segnato dal tempo ma desiderante, attraverso la scrittura.

Il basso continuo del memoir è la passione per la parola. E quella che, per mutuare un’espressione che anni e anni fa durante un ciclo di lezioni all’Università degli Studi di Milano incentrate sulle idee sensibili soprattutto in relazione a Marcel Proust e Maurice Merleau-Ponty, il prof. Mauro Carbone chiamava “idea sensibile” o “essenza carnale”. Lo possiamo riscontrare in questo passo di Cesarini/Sagan:

Ho sempre immaginato le donne capaci di scrivere come coloro che hanno esplorato intimamente la propria carne […]. Il piacere come la costruzione della frase bella sovrintende a quell’orgasmo che per un istante rende immortali”

Situata nel suo maniero in Normandia e consapevole dell’ineluttabilità della fine, Sagan ripercorre la sua vita fuori dagli schemi e i volti che l’hanno segnata, alternando i ricordi con riflessioni letterarie e sentimentali. Amici illustri come Jean-Paul Sartre e Bernard Frank, compagni di battaglia culturale come Florence Malraux e Jean Seberg, amori complessi e travagliati come quelli con Guy Schoeller, Peggy Roche e Ingrid Méchoulam si materializzano nelle pagine come tasselli di una vita vissuta con intensità, sospesa tra la passione e la ricerca continua del significato.

Con uno stile intimo ma volutamente costruito, Cesarini rende omaggio a un personaggio che è stato simbolo di un’estetica dell’eccesso, porremmo dire, magari dannunziana in senso lato: una “charmant petit monstre”, come la definivano, ma anche una donna e un’artista che ha il diritto di essere ricordata per il suo contributo letterario e, perché no, per quelli che coloro-che-ben-pensano di ieri e di oggi chiamano gli eccessi.

Isabella Cesarini riesce a costruire un’opera che fonde l’erudizione con la narrativa, e Le piace Proust? si impone come un omaggio intellettuale e poetico a una figura complessa. Dopo aver esplorato la figura di Clarice Lispector e analizzato anime inquiete e mitiche del cinema, l’autrice romana aggiunge un ulteriore tassello al suo percorso. La sua capacità di dare vita a personaggi in bilico tra realtà e finzione è chiara, così come l’intento di far riflettere il lettore sull’importanza della memoria e della scrittura come “ultima ragione di vita”, come dice la stessa Sagan.

Il libro, accompagnato da un contributo inedito di Pasquale Panella, offre una lettura coinvolgente e non si limita a essere una semplice biografia romanzata, ma si sviluppa come una vera e propria esplorazione emotiva e culturale. Le piace Proust? è un’opera destinata a chiunque desideri immergersi nella nostalgia e nei ricordi di un’epoca ormai passata, ma ancora vivissima nella mente e nella penna di una scrittrice che, come Sagan, non ha mai smesso di cercare l’infinito in ogni piccolo suono.

Libri. Memoria di ragazza, Annie Ernaux e la scrittura nella memoria

Annie

Mémoire de fille, uscito in Italia nel maggio 2017 per L’Orma Editore con la traduzione di Lorenzo Flabbi, è l’ultimo libro della scrittrice francese Annie Ernaux.

Il tempo è quello dell’estate del 1958, qui nelle pagine a descrivere un’adolescente qualunque, dunque unica. Perché l’adolescenza è un passaggio unico e definitivo. Con passo incerto, tutto si muove verso l’età adulta. La fanciullezza è un inciampo irresoluto dal quale liberarsi. Liberazione che può avvenire soltanto a colpi di immaturità.

La storia è quella di Annie Duchesne, una giovane ragazza che, per la prima volta, si allontana dal nido familiare per lavorare come educatrice nella colonia di S nell’Orne. Il lavoro segna lo spartiacque tra le mareggiate adolescenziali e il dopo, il futuro custodito nel tempo del ripensamento. La colonia muta in luogo di passaggi inesorabili alla volta dell’avvenire. L’esposizione di un’età indugiante, diviene nell’opera della Ernaux, un’occasione per fare un viaggio a bordo della scrittura. La scrittura che mostra il suo farsi. La scrittura che, mediante la presa di una memoria da ricercare, trova la circostanza per confessarsi in tutto il suo processo.

L’idea che potrei morire senza aver scritto di colei che presto ho preso a chiamare “la ragazza del ‘58” mi ossessiona.

(…) Limitarsi a “godersi la vita” è una prospettiva improponibile, dal momento che ogni istante senza un progetto di scrittura è come se fosse l’ultimo.   

L’estate del 1958 è solo il bordo del foglio, la pavimentazione dove cade la parola, il grembo in cui si scalda la frase. Il tempo è nella sua dilatazione. L’estensione verso il ricordo di una giovane esistenza alle prese con il primo amore, il primo rapporto carnale, il primo accadimento da cercare e vivere, si collega alla mano dell’ultimo colpo di inchiostro. Scrivere figura un’urgenza quanto l’accettazione di avvenimenti accaduti e per questo irreversibili. La donna guarda la ragazza che fu e che non vorrebbe tornare a essere. L’urgenza vive anche la volontà di dimenticare. Ma dimenticare significa ricostruire il dimenticato. E ricostruire serve solo a passare la mano alla distruzione. La scrittura diviene liberazione.

Memoria di ragazza è la narrazione di una scrittrice che descrive il suo intimo rapporto con la scrittura. I dubbi, le certezze e i bisogni che l’atto favorisce. Ancora, la scrittrice è la fanciulla del 1958, la ragazza popolare della drogheria, la figlia unica, la creatura che ha bottinato il mondo attraverso i libri, l’avvicinamento inesperto al sesso. Sì, il sesso, quello dovuto per fingersi scioccamente emancipati.

L’istante della scrittura è il balsamo della memoria, un soccorso nella curiosa illusione di riviversi, un sostegno alla volontà di raccontarsi.

Il tempo del foglio diventa la dimensione neutra, quella della parola scritta. Ciò che è scritto è accaduto e l’accaduto può solo godere della certezza che non accadrà nuovamente.

Lo sguardo indietro vive il naturale imbarazzo di un passato vissuto a spinte di goffaggine, sosta nell’impossibilità di trovare un senno del prima e perdura nella frattura tra chi eravamo e chi siamo. È dentro lo scisma che nasce la scrittura. Raccontare tutto per separarsene solo dopo averlo narrato. Perché scrivere è anche distruggere, demolire l’avvenuto dentro di noi, cancellare il passato degli altri su di noi, annientare il pregiudizio nel giudizio.

Il racconto di questa opera imprescindibile per garbo, traduzione e sapienza narrativa è tutta dentro la volontà di abitare il ricordo, non nel puro atto mnemonico, ma nel farsi ricordo stesso e bruciare quell’esistenza altrimenti destinata all’oblio adolescenziale.

Il romanzo è l’essere; l’esserci: stare nel 1958 da una stanza del 2014. Il luogo è quello dei richiami letterari:

«In un ambiente intessuto di complicità di cui non fa parte, si scopre anonima e invisibile». Qui Annie, Duchesne o Ernaux, muta ne La signora Dalloway:

«Aveva la bizzarra sensazione di essere invisibile, non vista, non conosciuta»[1].

L’una e l’altra insieme a scoprirsi invisibili.

Fuori dall’inciampo vanitoso, la Ernaux dona al lettore riferimenti letterari e cinematografici: Les Amants, Ultimo tango a Parigi e Hiroshima mon amour per il cinema. Lo straniero, Memorie dal sottosuolo, il suggerito Mrs Dalloway per la letteratura.

La scrittrice passa dalla prima alla terza persona senza perdere alcuna intimità con il lettore. Nella prima resiste una donna che si interroga su una ragazza. Nella terza accade una fanciulla che indaga se stessa. Tutti i passaggi avvengono su un piano armonico, non procurando urto alcuno.

Il ricordo di ciò che ho scritto già si cancella.

Non so cosa sia questo testo.

Persino quello che inseguivo scrivendo il libro si è dissolto.

La scrittura si fa scrivendo.  

 

[1] Virginia Woolf, La signora Dalloway, Einaudi editore, Torino, 2014, pag. 11