Sylvia Plath – Autopsia di un inconscio

Creación colectiva sobre la vida y obra de Sylvia Plath Temporada 2011” by matacandelas is licensed under CC BY-NC-SA 2.0.

La realtà è quella che mi invento

Un maniacale inseguimento della perfezione conduce difilato a una sanguinaria persecuzione di se stessi. In preda a un’idea fissa verso una suggestione mobile, la chimera del grande impeccabile incede nel mostro che porta la creatura dentro un vortice di afflizione. Il bello ideale conosce le regole del nascondimento: quanto più ci si avvicina tanto più l’utopia si fa distante. Ove si manca l’occasione, il patimento cresce sino alla piena. Nessun argine può contro il supplizio autoinflitto: la fotografia dello splendore massimo non trova spazio nell’elemento umano. L’affanno di un animo stanco che nel vizio rivela già la sua perfezione.

Sylvia Plath (Boston, 27 ottobre 1932 – Londra, 11 febbraio 1963) descrive la più inclemente giudice di se stessa, incalzando quel mito della perfezione che seguirà per tutta la vita. E tutta la vita di Sylvia è dentro quei trenta anni di creatività e supplizio. L’esistenza, nella grazia della natura, prende a muoversi nei versi, nelle fronde delle parole, in quel cielo screziato di sfumature e la luna, la grande madre severa, si fa sguardo imperturbabile sull’esistenza della poetessa. È la prima attrice de La Rivale, poesia dell’opera Ariel, libro postumo uscito nel 1965, due anni dopo il suicidio. La bellezza è dolorosa. Dallo spazio lunare, la bellezza illumina con fermezza annientatrice.

La scorsa di Sylvia sulla circostante distesa dell’esistenza è come quella di un esule che sosta nel perpetuo senso di abbandono. Gli esseri umani vengono al mondo con il solo fine di lasciarla, per confinarla dunque in una mordace solitudine; statuto speciale all’interno del quale la donna si dedica al suo personale sezionamento. Tante piccole tessere da indagare e resuscitare nel verso. Muove dalle sue membra per atterrare con forza all’interno dell’inconscio, operare dei tagli e infine abbattere il suo edificio vitale. Quanto più distrugge tanto più il verso rinasce. Vita e scrittura impattano in un gioco al massacro sino all’ultimo afflato.

La relazione più duratura è quella che la poetessa intreccia con il dolore. Sylvia è il suo processo: una corte marziale dove la vittima è trattata al pari del carnefice senza possibilità di appello o di assoluzione. Permeabile all’inquietudine, si dispone nella direzione di quel dardo che lei stessa prende a tirare. Esiste un monstrum, una creatura terribile e al contempo ammaliante che giace indisturbato sul fondale della sua anima. Indossa le sembianze sfocate di un dualismo che prende a vampirizzarla nel corpo per giungere più in fretta nei foschi scomparti della sua mente.

***

Risulta arduo tornare indietro dalla lettura della Plath.

Vi è un incessante flirtare con l’oblio, con un’immagine illusoria di ciò che vorrebbe essere e non sarà mai. Poiché quell’immagine non esiste se non nella costruzione certosina di un esile inganno. Il miraggio si impone nell’eccezionalità dei toni scuri sino all’ottenebramento.

***

Fortemente autobiografico, il romanzo La campana di vetro, rappresenta un percorso di scrittura dove la Plath si pone alla forsennata ricerca di un carattere ben definito. L’indagine è  importante, per tale motivo viene eseguita mediante uno pseudonimo: Victoria Lucas. L’opera ripercorre i luoghi mentali e fisici vissuti prima del tentativo di suicidio. La gestazione di uno stato d’animo spartito tra la disillusione e la mancata accettazione della sopravvivenza. Il disincanto attende ansante al termine della costruzione fantastica. Ogni uomo viene posto su un dubbio piedistallo per essere infine trangugiato da una realtà che vanifica la congerie onirica. L’elemento maschile è pertanto un portatore sano di solitudine. Le aspettative vengono puntualmente disattese, l’edificio crolla e, sfiancata dal suo lavoro di costruzione fantastica, crolla anche Sylvia. Ciascun disinganno si perde in un rivolo d’acqua esposto al gelo, vale a dire ghiaccio da sciogliere nei versi della sua lirica.  

Mi sentivo come un cavallo da corsa in un mondo senza ippodromi.

L’aspettativa gemica in ogni moto vitale.

***

Ad affastellare una mente sovraesposta al dolore, contribuisce il desiderio costante di due situazioni antitetiche e contrastanti. Da un lato vi è la ragazza destinata ad appagare i desideri dell’altro; la gigantografia rappresentata dal nucleo familiare e dalla società: esaudire un matrimonio che si faccia stabilità per la donna e la poetessa. Dall’altro sopravvive, non senza recalcitrare, la donna viva solo nella scrittura che guarda al matrimonio come un ostacolo alla realizzazione di se stessa nella parola. L’oscillazione tra i due stati è il terreno fatale di quel tormento che la seguirà per tutta l’esistenza.

***

Accade che la mente si rivolti in mondi altri e, in quell’altrove, la creatura si lasci cadere per rinascere in un essere perfetto, dunque fittizio. Sylvia è tutto questo e tutto questo è la scrittura di Sylvia: l’inclemenza di Sylvia sulla Plath.

Più sei un caso senza speranza più ti tengono nascosta

***

[…] lunghe gambe a descrivere la traballante aderenza al suolo.

Il pensiero, trascinato in vetta, soffre l’altitudine e la riduzione dell’ossigeno lo porta a una sincope tutta di mente. Il capo si fa pesante poiché trascina il fardello più pesante: l’insindacabile giudizio su se stessa.

  • da Anime Inquiete – 23 storie per mancare l’esistenza