Ingmar Bergman – Un caleidoscopio in bianco e nero

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“La muerte”by vicent.girbes is licensed under CC BY-NC-ND 2.0




«Il colore sottrae qualcosa» – Ingmar Bergman, Stoccolma 1990

Scrittore, drammaturgo e acuto indagatore dell’inconscio, Ingmar Bergman (Uppsala, 14 luglio 1918 – Fårö, 30 luglio 2007) figura uno dei più autorevoli registi nella storia del cinema. La vita del cineasta svedese non ruota esclusivamente intorno alla pellicola, ma abbraccia ugualmente un filone artistico di scrittura e teatro. In Bergman, l’atto puramente inchiostrale si compie intorno ai venti anni, alla maniera di un lampo improvviso, durante la stesura di una piccola pièce teatrale. Scrittura che rappresenta il primo importante rendez-vous con la pagina. Bergman prende a gioirne sino a compiere un’attività di redazione che abbraccia una dozzina di componimenti nel breve periodo di quattro mesi. La penna trascina frontalmente al teatro; un gruppo studentesco rappresenta l’occasione per mettere in scena le proprie opere.

Nello sguardo del regista di Uppsala, le parole sostano solo momentaneamente sul foglio, per giungere in un secondo momento a muoversi sul palcoscenico prendendo vita nella figura dell’attore. La scrittura rappresenta una prima urgenza, un balsamo per tornare nei luoghi dell’infanzia e ridestarsi fanciullo. Il drammaturgo svedese Johan August Strindberg disegna il primo importante contatto tra Bergman e il mondo del teatro.

«Non voglio fare paragoni, ma Strindberg era il mio Dio e la sua vitalità, la sua rabbia, io le sentivo dentro di me, credo davvero di aver scritto una serie di pièce strindberghiane»

Il cineasta non pone la suggestione di Strinberg su un piano sistematico, non sente di comprenderlo appieno, tuttavia è consapevole di sentirlo. Intende sopra ogni cosa il furore e l’irruenza nel momento dell’ascolto musicale proprio della scrittura. L’appuntamento con il drammaturgo, oltre a rappresentare la ricerca nel teatro, mostra una ulteriore aderenza, quella con la fotografia. Strindberg, de facto, custodisce una peculiare intimità con la macchina fotografica. Legame affine all’onirico e presenza costante nella filmografia del regista svedese. Strinberg analizza l’arte fotografica alla maniera del sogno. Quella che lui definisce scrittura con la luce non è l’immagine copia del circostante, quanto il tentativo di governare la dimensione onirica dentro la realtà. Nel suo Diario dell’occulto, il drammaturgo di Stoccolma volge un vigoroso impegno nella volontà di depennare le barriere tra il sogno e la dimensione reale. Nelle pagine di questo dramma, l’autore mostra il sogno come una occasione taumaturgica e officinale per proteggersi dall’incedere del diurno. Non pensare l’immagine del sogno ma giungere a credere alla stessa attraverso una sollecitudine che si traduce in automatismo. Per Strindberg i sogni sono le sentinelle della realtà, un obiettivo finale dentro il quale l’individuo può trovare una soluzione all’incessante sensazione di colpa. Una sorta di tara che favorisce il “girare a vuoto” dell’essere umano.

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Dal teatro al cinema, il passaggio è breve seppur considerevole.

Di fatto, per Bergman l’accostamento alla pellicola sottolinea l’ambizione di una vita. Un anelito non disgiunto da una forma quasi ossessiva, una sorta di magnete nel sentiero della macchina da presa: gli attori, la troupe, l’atmosfera tutta. A metà degli anni Quaranta, muove i primi passi sul set, distintamente nel 1946 con il lungometraggio Kris (Crisi – 1946). Questa prima impresa rappresenta un copioso fallimento di pubblico.

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Prigione presenta la prima sceneggiatura del regista. Il film, girato in diciotto giorni, trascina una immagine particolarmente cupa, una sorta di pessimismo radicato nella natura dell’artista: l’impossibilità di superare i contorni tra le differenti dimensioni della realtà.

Nella sala da pranzo della nonna, A Uppsala, c’era una porta tappezzata. Quando il nonno morì, lei divise l’appartamento in due. La porta tappezzata della sala da pranzo era il passaggio chiuso che portava all’altro appartamento. O era forse soltanto la porta del guardaroba? Non lo aprii mai. Non osavo. Se penso che la frattura tra diverse realtà ha rappresentato la mia vita dall’inizio fino a oggi, trovo che i risultati della mia raffigurazione di essa siano stati relativamente magri. Soltanto poche volte sono riuscito a forzarne i mutevoli confini. In Prigione non ci riuscii affatto.

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Dal 1953, l’interesse si muove su tematiche etiche e metafisiche. Dal drammaturgo Eugene O’Neil, il cineasta afferra una dichiarazione che si farà manifesto di Det sjunde inseglet (Il settimo sigillo – 1957):

Ogni arte drammatica che non si soffermi sui rapporti tra uomo e Dio è senza interesse.

Le fondamenta sulle quali posa Il settimo sigillo sono l’atto unico Pittura su legno, redatto per la prima volta dagli studenti di Malmö. Risalente al 1955, quando Bergman lo redige per la sua compagnia di attori, custodisce alcune memorie infantili legate alla figura del padre.

Il settimo sigillo disegna una ragguardevole riflessione sulla morte impiantata dentro una cornice medievale. Durante le riprese, il regista si predispone musicalmente alle prove mediante l’ascolto dei Carmina Burana. Descrivono la preparazione del suo stato d’animo prima del film stesso: canti medievali intonati da religiosi erranti che vagano da un posto all’altro sotto la volta di un cielo oscuro rabbuiato da peste e guerra. Seguono preti e giullari. Il coro finale dei canti diviene per il regista il motivo della pellicola. La narrazione, seppur intrisa di tematiche prevalentemente religiose, risulta vigorosa e pulsante. Una frattura spirituale tra la beatificazione di origine infantile e il crudo razionalismo, attraversa tutti i fotogrammi. Non accadono contrarietà morbose tra il Cavaliere e lo Scudiero poiché la fede del fanciullo convive pacatamente con la ratio dell’uomo. In tal senso, l’opera mostra l’ultima manifestazione di credo come eredità paterna, una sorta di saluto alla preghiera, al tempo pratica quotidiana del regista. Rappresenta altresì l’addio alla paura della morte, ombra che durante tutta l’infanzia e l’adolescenza, spaventa il bambino e l’adolescente Bergman. Nel rappresentarla e nel vestirla come un clown dal volto bianco, il regista esorcizza definitivamente il demone. Comprende infine che tale paura è indissolubilmente legata alla fede religiosa. Solo dopo un piccolo intervento chirurgico, durante l’anestesia, la fine della vita si rivela proprio come il non esserci più. Un atto liberatorio dal credo e dalla paura.

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Le regie di Bergman descrivono un numero considerevole arrivando sino a quaranta pellicole in trentasei anni. L’eccezionalità espressiva dell’autore è tutta dentro quel fondersi di elementi diversi e sovente in contrasto: il realismo e l’impressionismo, la fede e il dubbio, l’isolamento e la vita comunitaria, il crollo e l’impossibilità di vivere appieno un sentimento. Ogni immagine, ogni sequenza, ogni singolo fotogramma disegnano il fardello di un significato che guarda a un altro ancora: quello indecifrabile dell’inconscio. Il volto mostra lo spazio del vuoto, di quella voragine che inesorabilmente abita l’essere umano. Bergman è la regia, la scrittura e la macchina da presa: il cineasta che nella completezza si fa scuola.

  • estratto dal libro ANIME INQUIETE – 23 storie per mancare la vittoria

Cultura. La lunga notte degli insonni: Emil M. Cioran e Ingmar Bergman

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http://www.barbadillo.it/50388-cultura-la-lunga-notte-degli-insonni-emil-m-cioran-e-ingmar-bergman/ 9 dicembre 2015

La notte è il tempo magico dell’attesa, la discesa nel sonno e la vita nella sfera onirica. Al suo interno si incunea una sospensione, un altrove, un’oscurità singolare popolata da creature misteriose. È il cielo dei giganti: la foggia di ogni emozione prospera a dismisura sino a divenire un’entità ciclopica. È la volta nera delle ombre minacciose: angosce mutano in afflizioni inconsolabili, amori certi si fanno incerti, speranze perdono consistenza. È il clima asfissiante della “sottonotte”, una dimensione all’interno della notte stessa: il tempo dell’insonnia. Una temporalità presa da creature eccezionali, alchimiste dell’orologio, boicottatrici della lancetta. Mostri notturni che alterano minuti in ore, ore in giorni, giorni in mesi: il tetto dei giganti è un soffitto impressionante e minaccioso. Il tempo dell’insonne è una vetta alpestre priva di ossigeno, una dilatazione oltremodo infinita della durata, un desiderio di luce strozzato nel mai.

Sono le sentinelle costrette alla sorveglianza forzata, esseri condannati alla vista incessante e al girone dello sfiancamento psichico. Sono gli insonni, una sorta di pianeta segreto e segregato dall’abbraccio dannato della notte. Vivono sotto l’egemonia di uno sguardo obbligato a saldare la danza dei fantasmi sulla grande sommità: un rituale ossessivo che si ripete ogni notte. Le ombre prendono vita, a ogni passo brandiscono consistenza e l’insonne inerme può solo agognare la caduta nell’oblio. Il tempo della pena, della tortura, dello stillicidio mentale: la temporalità nemica che affligge, tra gli altri, il filosofo e l’artista dell’aforisma Emil M. Cioran.

Le tre del mattino. Percepisco questo secondo, e poi quest’altro, faccio il bilancio di ogni minuto. Perché tutto questo? – Perché sono nato. È da un tipo speciale di veglia che deriva la messa in discussione della nascita.

Qui le prime note dello scrittore ne L’inconveniente di essere nati: una lettura intima, un testo notturno che evoca il vagare buio della creatura guardinga. Le ore insonni portano alla riflessione obbligata intorno al tema tanto caro a Cioran: il perché della nascita. Aforismi foschi sezionano il tragico, esplorano il dramma della vita e contemplano il suicidio come irripetibile possibilità di esistenza. L’atroce potere che l’individuo possiede nel togliersi la vita, figura paradossalmente, come unica spinta al vivere. Nella capacità di scegliere l’interruzione dell’arco vitale, risiede la libertà di restare. La consapevolezza del male di esistere, non rappresenta il rifiuto della vita, ma un campare più potente: vivere scientemente nonostante il vivere.

Ci sono notti che il più ingegnoso dei carnefici, non avrebbe potuto inventare. Ne esci a pezzi, inebetito, sgomento, senza ricordi né presentimenti, e senza neppure sapere chi sei. Allora il giorno ti pare inutile, la luce perniciosa, e ancora più opprimente delle tenebre.

L’inconveniente di essere nati abbraccia una lettura errante: il peregrinare oscuro dell’insonne. Il poggiarsi da un sentimento all’altro nel ventre di un viaggio caotico alterato dalla veglia inflitta. La vita appare più tollerabile per coloro che riescono a dormire. Il sonno rappresenta una discontinuità, una sospensione dal ricordo che rende l’esistenza possibile e meno tragica. L’insonne auspica l’oblio, la caduta nel sonno per interrompere il fluire incessante della mente nel pensiero. Gli aforismi di Cioran scompongono qualsiasi convinzione. Non distruggono; smantellano per ricreare un terreno fertile alla riflessione illuminata e lucida.

La notte insonne di Cioran è L’ora del lupo in Ingmar Bergman: il regista indagatore dell’inconscio, il mago del volto parlante. La lirica di Bergman avanza per primi piani: un viso è un luogo abitato da contenuti eloquenti. La morsa dell’insonnia passa dal regista al personaggio, Johan Borg – Max von Sydow – in un’ isola svedese popolata da sinistre creature. Le ore di veglia del pittore rendono definitive le nevrosi, tutto prende i colori sfumati del fosco, un bianco e nero smarrito nel torbido dell’incubo. Alma – Liv Ullmann – è lucente possibilità di speranza, tutta nel suo volto. Nell’assenza di ambiguità figura la completezza, il materno ove rifugiarsi, il tempo della luce: un’immagine monumentale al pari della Giovanna D’Arco nel primo piano di Dreyer. Alma è la discontinuità, la frattura nel tempo interminabile dell’insonne. L’ora del lupo ripercorre il perpetuo sospiro dell’abbandono, la scomparsa dei confini tra incubo e realtà, la minaccia di un intelletto che va in frantumi.

Un tempo la notte era fatta per dormire… già, sonni calmi e profondi e svegliarsi poi senza terrori. Da molte sere siamo svegli fino all’alba, ma questa è l’ora peggiore. Sai come si chiama? Il popolo la chiama l’Ora del lupo, è l’ora in cui molta gente muore e molti bambini nascono, è l’ora in cui gli incubi ci assalgono e se restiamo svegli…

È un film tetro, segue l’accadere tortuoso nei meandri della mente: la rottura degli argini del pensiero. I protagonisti sono mostri generati dall’assenza di luce: la vita nell’oscurità è quella delle ossessioni e della memoria ininterrotta che torna solo per devastare. L’ora del lupo partorisce demoni minacciosi.

Le tenebre, nella voce di Alma, sono silenziose sino a farsi rimbombanti: il giorno sembra appartenere a un’altra dimensione. Così Ingmar Bergman:

Le ore peggiori sono quelle del lupo tra le tre e le cinque. Allora arrivano i demoni: l’amarezza, la nausea, la paura, il disgusto, la collera. Non serve soffocarli, s’incattiviscono. Quando gli occhi sono stanchi di leggere, c’è la musica. Chiudo gli occhi e ascolto con concentrazione, lasciando via libera ai demoni: venite pure vi conosco, so come funzionate, continuate finché non vi stancate, io non mi difendo. I demoni infuriano sempre di più, dopo un po’ ogni resistenza cessa e loro diventano ridicoli, allora scompaiono e io mi addormento per qualche ora.

Le ore degli insonni sono dunque momenti in pasto alle fauci di una bestia. Una creatura si muove faticosamente nell’oscurità, non cerca pace, ma trova tormento. L’ora del lupo non è l’insonnia d’amore, non è il collasso del corpo nel sogno surrealista di Dalí, non è lo smaniarsi nella lessinghiana attesa del piacere. È un grande altrove di immagini crepuscolari, un’estensione del sogno che sprofonda nell’incubo. La notte dell’insonne è tutta in quell’agognare il giorno per capitolare nuovamente al cospetto di un tempo ostile.