Quell’incantevole prodigio di nome Charlotte Gainsbourg

http://www.barbadillo.it/74194-cinema-quellincantevole-prodigio-di-nome-charlotte-gainsbourg/, 19 aprile 2018

Con indosso le imperfezioni del padre e l’icastica bellezza della madre, benché dentro un talento tutto suo, consegna alla musica una voce mossa dal vento e al cinema un’interpretazione intimista che la consacra come una delle attrici più acclamate. Tra anfrattuosità e linee decise, il suo volto avvolge la pellicola per farsi musa di autorevoli cineasti.
Fille de l’artCharlotte Gainsbourg onora e travalica la stessa arte all’origine dei suoi natali. Sapiente interprete, cantante e autrice, accende con toni garbati ogni pellicola sulla quale troneggia. Tra le sembianze imperfette del padre, l’attore e chansonnier Serge Gainsbourg, e l’incanto ribelle della madre, l’attrice Jane Birkin, Charlotte si impone con un grande spazio tutto suo, dentro uno stile personalissimo. Si avvolge in una bellezza apparentemente imperfetta, ma gemicante di seduzione.
Un appel discreto quanto polarizzante, la incorona regina della settima arte: ogni film è un abito di chiffon cucito ad arte per la sua figura . Indossa tutto con disinvoltura: dalla Lolita malinconica e incestuosa de Il giardino di cemento, scritto e diretto dallo zio Andrew Birkin, sino alla dolente ninfomane di Lars von Trier. Con il regista danese si muove con il portamento lieve e potente della musa nella Trilogia della depressione. Sulle note di Lascia ch’io pianga del compositore tedesco Händel, la Gainsbourg interpreta la disperazione di una madre che è donna, amante e creatura dannata. Lars von Trier, con Antichrist, la getta in un ruolo sulfureo che restituisce il lato oscuro dell’esistenza umana. Il sesso si lega alla violenza della morte: due genitori sono nell’imminenza della carne, mentre il figlio precipita dalla finestra e muore. La neve e l’aria di Händel a contornare un dolore che scassa ogni margine sino a giungere alla vetta della psicosi. Un compito arduo per planare e infine calarsi nell’essere razionale di Melancholia. Claire, nella pellicola del regista danese è la coltre di luce nell’oblio della sorella Justine. La Gainsbourg è il basamento necessario a far esplodere la sensibilità dell’altra: è il bianco che permette al nero di divenire ancora più oscuro e concedersi il passaggio nell’altrove malato della sessualità in Nymphomaniac. In divergenza con altre interpreti, la Gainsbourg lavora in piena sintonia con il discusso Trier. Il regista viene sovente messo sotto accusa da altre attrici, non solo per le tematiche, ma anche per l’approccio presumibilmente inclemente sul set. La polemica più nota è quella con la protagonista di Dancer in the dark: Björk Guðmundsdóttir.

Il volto della figlia dell’arte è capace di muoversi da un ruolo all’altro, lavorando con diversi maestri della cinematografia. In Ritorno alla vita, film di Wim Wenders del 2015, è ancora nelle vesti di una madre fiaccata dalla perdita del figlio. Nuovamente interprete del dolore, avanza tra i panorami gelidi del Canada, tracciando tutte le tappe della disperazione sino a giungere a una dolce rinascita, scandita dal perdono e dall’accettazione. La pellicola è una lirica sul dolore che l’attrice restituisce tramite un’interpretazione cadenzata da moti intimisti e composti. L’angoscia per la scomparsa può caricarsi di varie tonalità, da quelle oscure di Antichrist, a quelle perverse de Il giardino di cemento,sino a quelle tenui di Ritorno alla vita.

Il tema della perdita ricorre in molte interpretazioni e Charlotte si ritrova nei fotogrammi di un’altra trilogia, quella appunto della morte, firmata dal regista messicano Alejandro González Iñárritu. In 21 grammi è Mary, la donna nel granitico desiderio di maternità. L’angoscia dell’esistenza viene risolta nella volontà di procreare, per quanto in prossimità della morte del coniuge. La vita è pretesa da una creatura che si avvia alla fine. Il regista si rivolge all’attrice in nome della considerazione portata alla figura del padre Serge, ma ne esce completamente conquistato dalla figlia Charlotte.

Ancora un lutto a trainare la pellicola del 2010 di Julie Bertuccelli: l’Albero. Tratto dal romanzo di Judy Poscoe, Our father who art in the tree, il film fonde elementi fantastici a caratteri inevitabilmente realistici. L’albero, da sempre simbolo del cosmo, disegna nei fotogrammi della Bertuccelli, l’incarnazione dell’anima che fatica a lasciare la vita terrena poiché trattenuta dal dolore dei cari. Simone, dopo la perdita del padre, continua a sentirlo nella maestosa presenza di un albero. La madre Dawn, nell’interpretazione di Charlotte Gainsbourg, descrive il trait-d’union tra il corso immaginario della figlia e l’accadere del quotidiano, quell’imminenza che non risparmia nessuno. Il dolore dalle radici passa alle fronde sino a raggiungere il volto di Charlotte. Solo un “terrae motus” condurrà il mondo fanciullesco dentro quello adulto, sull’onda della speranza: il rientro nella vita. La Gainsbourg riceve la candidatura al premio César, il riconoscimento francese de Académie des arts et techniques du cinéma.

In 3 coeurs film del 2014, del regista francese Benoît Jacquot, la fille de l’art descrive l’amore nell’assenza. Sylvie è il treno mancato di Marc, un ispettore delle poste. Si incontrano per caso nella provincia francese, tra dialoghi garbati e tacita attrazione, trascorrono la notte passeggiando per le vie della cittadina. Una promessa li reclama nel futuro appuntamento a Parigi, nei giardini di Tuileires. Un attacco di cuore impedirà all’uomo di raggiungere il luogo dell’incontro. Impedimento che catapulterà le vite di tre individui nel girone dell’amore mancato.

Ho perso il treno. Perdo sempre i miei treni

La dichiarazione a inizio film è presagio di un matrimonio sbagliato e di un sentimento perso. Charlotte Gainsbourg è nella sua assenza tutta la seduzione di una figura rarefatta. L’uomo sposa la sorella di Sylvie, ignorando il legame tra le due. Nell’opera 3 coeurs, l’attrice è l’espressione massima dell’amore sfiorato, dunque mancato e infine perso. Di nuovo il sentimento è legato alla morte: la fine di un legame mai iniziato, nondimeno infuocato e il decesso di Marc per un altro infarto, lo stesso male che aveva sbarrato l’accesso alla sfera del sentimento autentico.

Arretrando di qualche anno, l’immagine è quella dell’attrice franco-britannica accanto al regista Zeffirelli nella trasposizione cinematografica del primo romanzo di Charlotte Brontë: Jane Eyre. Con un volto dalle pieghe nebulose, la Gainsbourg restituisce l’effigie di una Jane intensa e salda nel proprio ruolo. Un’istitutrice, che proprio attraverso i suoi mezzi, riesce ad affascinare una nobiltà avvizzita e scorgere un pertugio nel cuore di un uomo apparentemente ruvido, ma intensamente melanconico. Quando gira il film, l’attrice ha solo venticinque anni, ma si accosta con sapienza a grandi nomi quali Maria Schneider, William Hurt, John Wood e Geraldine Chaplin.

L’uomo di neve del regista Tomas Alfredson è la pellicola del 2017 che vede la Gainsbourg al fianco di Michael Fassbender. I paesaggi ghiacciati di Bergen e Oslo richiamano il set di Wenders in Ritorno alla vita. Ugualmente, seppur in un’atmosfera cruenta, la sua interpretazione si assottiglia in una presenza sempre discreta, ma fondamentale per le sorti dell’uomo e del film.
Al 2017 è da far risalire anche l’album Rest, creato insieme a Guy-Man (Guy Manuel de Homem-Christo) dei Daft Punk. L’attrice diviene autrice e firma quasi tutti i testi con il supporto del produttore SebastiAn. Le note dell’album si snodano su un pentagramma amaro, dove la chiave di violino è disegnata dal tema della morte. Quella del padre Serge nel 1991 e quella della sorella Kate Barry, morta suicida nel 2013. Rest è un viaggio in francese dentro l’indagine delle situazioni dolorose vissute dalla bambina Charlotte sino alla donna Gainsbourg. Con la lingua francese si emancipa dall’ingombrante figura del padre e costruisce un’identità musicale personalissima.

Charlotte Gaisbourg è artista completa. Mediante una miscela di garbo e seduzione è attrice sapiente, cattura la macchina da presa e la piega al proprio volto. La sua voce è un sussurro lontano che avvolge l’ascoltatore in note intime e garbate. Icona di uno stile personalissimo, occupa il trono con una grazia priva di artificio, ma che seduce dal primo fotogramma.

Film de chevet: À bout de souffle

Consigli di stagione: consegnarsi per sempre all’opera

Foto: TGSM/Télam/jcp

Presso la virulenza di una stagione arroventata, nel tempo della canicola, cade l’appello al refrigerio, la convocazione dell’arte come balsamo rigenerante. Sospensione e salvezza giungono da lontano, rispondono all’invito per riportare gli animi in direzione contraria. Contraria a cosa? A tutto.

Quando l’arte è già passata per la rivolta, torna utile stenderla alla maniera di un velo novello in vista a folate di vento cocente. Ipotizzabile è l’obiezione che tutto, ma proprio tutto, è stato detto, scritto e pensato sul primo lungometraggio del regista francese Jean-Luc Godard. Ma se il cinema è scampo da una stagione a morsa stretta, l’auspicio è che nella ripetizione si trovi un dettaglio e, nel dettaglio, il moto vaporoso della memoria. Ricordo di stile e di vita, qui nello specifico a descrivere l’umanità.

L’incresciosa sorte dell’individuo è tutta in quel respiro: l’ultimo prima di cadere in un bacio, schiantarsi nella vita e dimettersi da un selciato a montaggio funebre. Tuttavia, affrancati dalla resa, nessun soffio al veloce passaggio del rincrescimento. Tutto brucia: la pellicola e l’individuo. Incendiare l’amore nella truffa e l’inganno nell’amore. Piani sequenza a perdere e recuperare la narrazione. Scardinare l’ordine nella ‘città lumière’ che nei passaggi furtivi smarrisce l’elemento fulgido per votarsi al noir. Parigi, dama oscura: grembo di bellezza e noncuranza. Una sagoma troppo azzimata di egotismo. Parigi ingaggiata a curare un abito di luci e caroselli. Trame di lunghi viali illuminati per l’occasione. E l’occasione è quella di bordare le vite per farsi impassibile testimonianza del principio ineluttabile. La natura donna: cristalli di tenerezza nel volto di Patricia. La lupa donna, nella gravosa soffiata contro l’amante, amato, ricusato. Il lamento dell’umanità nel filo ridanciano di due creature commutabili, immolate al gioco del nascondimento con il lato oscuro. Figure rafforzate dalla mancanza di una unica soggettività: la macchina da presa accorda, lo schermo tira via. La pellicola conferisce una identità temporanea: il tempo del film. Vince chi arriva primo al traguardo del crepuscolo. Il bianco e nero di un’opera che termina nelle righe orizzontali di un soprabito americano, quasi francese: la pelle di Patricia. E da mademoiselle Patricia a Jean, il passo è nel penoso destino fuori dalla posa, ma dalla sala sibilato. Il grigio di una sigaretta sempre accesa, corroborante compagna nel segno della fedeltà che mancò alla donna. Il vizio salva dalla virtù che non accadde.

Fino all’ultimo respiro è il film di esordio di Jean-Luc Godard, opera che nel 1960 emerge per una vera e propria riforma stilistica e un certo nichilismo di contenuto e forma. La pellicola è nel montaggio sincopato, nelle dissolvenze oscure quanto la critica alla società, sperimentazione di macchina e narrazione come scelta per sfidare le nebulose borghesi. Ma qui il fosco è forziere dell’umanità tutta, incapace di amare compiutamente poiché tarata sul vivre pour vivre.

L’amore è nello spasmo di uno sguardo, nel grido al vento di Francia e nell’esposizione fotografica di una posa assertiva. L’amore è in ogni giro d’angolo del discorso, ovunque parla nell’individuo che tace. Le parole non giungono al cuore, restano in superficie, in quella patina di rimandi letterari e dannati. Il sentimento vive nell’esilio: isolato dall’impossibilità di una condivisione.

L’appello a una ennesima visione nel nome di un’arte che si faccia ricordo del presente e scatto del passato. Morire nella pellicola per riaversi dalla vita, pronti e finiti ai piedi di un’opera, l’unico cospetto con il quale dialogare.

21 luglio 2018

Sofia Coppola, la donna con la macchina da presa

Sofia Coppola

da http://@barbadillo.it, 16 novembre 2015

Sofia Coppola (New York, 14 maggio 1971)

Con una trasversale opera di avveniristica reinterpretazione, il titolo di un film del 1929 di Dziga Vertov, approda ai giorni nostri, nella veste de “La donna con la macchina da presa” a indicare colei che nasce dall’arte e nella stessa si incammina. Battezzata – non solo metaforicamente – dalla sapiente macchina da presa di papà Francis, nella scena del battesimo de Il Padrino. È il neonato Michael Fracis Rizzi, nella cerimonia ritmata parallelamente con lo sterminio dei capi delle cinque famiglie. Un’immigrata sulla nave che ne Il Padrino II, conduce Vito Corleone a Ellis Island. Ancora, Mary Corleone, una fanciulla innamorata del cugino Vincent, Andy García, ne Il Padrino III. Sofia Carmina Coppola, figlia degli indimenticabili fotogrammi di Francis Ford Coppola, nasce, cresce e si laurea nell’arte cinematografica.

Raffinata regista del nuovo cinema statunitense, onora il gene artistico in un personalissimo stile che avanza tra il minimal e l’intimismo. Uno sguardo che si muove tra due poli: il realismo e la magia. Cardini resi abilmente con riprese fisse, movimenti impercettibili, cadenzati da un uso nostalgico della dissolvenza. In alcune opere, l’attenzione di una misurata indagine, si posa sul tortuoso e spesso indecifrabile mondo adolescenziale. Per il tramite di una registrazione tutta femminile nella delicatezza, riprende le ansie, le paure e i dolori di un universo sovente sconosciuto al modo adulto. Violenti contrasti, giocati sul registro monocorde e incolore dell’incomunicabilità. Le figure genitoriali sono lontane assenze incolmabili e vicine presenze soffocanti: in tale nulla, si posiziona come un osservatorio privilegiato, la macchina da presa della regista.

Il primo lungometraggio

Il giardino delle vergini suicide, primo lungometraggio, tratto dal romanzo di Jeffrey Eugenides, Le vergini suicide, disegna un triste affresco poetico della cessazione ultima e definitiva della giovinezza. All’interno della narrazione, si muovono sui toni del bianco, cinque sorelle. Figure evanescenti, rallentate da un pesante fardello di isolamento e dolore, vagano come fate sul suolo di una regione lontana. Mosse dai fili di una madre ottusamente autoritaria, trovano temporanee vie di fuga nei diari, nei rari contatti con i ragazzi e nella musica. Il padre è debole immaginetta che prende vita solo nell’acquiscenza coniugale. L’eccedenza affettiva materna, fa dell’amore un sentimento malato sino alle estreme conseguenze. Le ragazze vivono segregate in una gabbia, che senza musica, non trattiene neppure le sfumature del dorato. L’ambientazione, un sobborgo del Michigan negli anni ’70, è nell’opera filmica il tempo della malinconia. Uno spleen ambientale e temporale, all’interno del quale tutto tende al tenue. Sono delle creature fiabesche, di passaggio a scuola, al ballo e sulla terra. Esistono solo nella seduzione, che la loro bellezza inaccessibile, esercita sui ragazzi. Sono delle fugaci superstiti che transitano, sopravvivendo ad adulti lontani. Permanenza che termina nel consumarsi di un unico gesto definitivo: il suicidio. Le sorelle si dirigono in un altrove che figura come l’estrema via di fuga dal silenzio adulto. La morte è l’affrancamento dalla vita. Sofia Coppola registra implacabilmente, pur senza sottrarre garbo e delicatezza al film. Un’occhiata all’interno del disinganno, diviene un’esplosione assordante che sotterra l’incanto. Disillusione che lo spettatore vive, attraverso quello che lei stessa definisce un “realismo magico”.

Il Leone d’oro con Somewhere

Il tema della solitudine adolescenziale, torna dirompente e attraverso una lirica costruita tutta sullo sguardo, in una pellicola del 2010, Somewhere. Leone d’oro a Venezia, il film mediante una camera prevalentemente fissa, sottolinea la noia irreversibile di un divo hollywoodiano: Johnny Marco. Giornate trascorse presso il noto Hotel Chateau Marmont di Sunset Bolulevard, scandite solo da un ripetersi automatico governato dall’inerzia. Vizi che non generano godimento alcuno, donne bellissime prive di un nome da ricordare, si avvicendano senza lasciare traccia. Avere tutto e non trattenere niente: l’apoteosi di un nulla che scava lentamente, preparando la strada all’ascesa del vuoto. La macchina da presa annota la condizione di immobilità psichica dell’attore, indifferente a qualsiasi stimolo esterno. La prima sensazione è che in tutto il film non succeda nulla. Tuttavia, riposta in quei movimenti impercettibili accade una deflagrazione: l’arrivo impalpabile di una fatina adolescenziale, Cleo, la figlia del divo. Silenziosa, discreta e isolata, si incunea nella impervia vacuità del padre con un tratto lento, ma definitivo. La ragazza vive nell’incomunicabilità e nell’assenza di genitori troppo impegnati a far altro. L’immagine è quella di una candela, che si fa dapprima luce, per poi rendersi faro nell’oscurità intrapresa dal padre. L’adolescenza taciuta, ignorata e isolata, diviene occasione ultima di cambiamento e rinascita. Figli che divengono genitori dei genitori. In un’opera dove i dialoghi sono ridotti al minimo, l’immagine si fa parola, verbo. Allo spettatore compete l’atto di rendersi disponibile ad accogliere eloquenti quadri in movimento. Sofia Coppola riprenderà ancora il tema del vuoto adolescenziale nel più recente Bling Ring, ancora un affresco più spietato, tratto da avvenimenti realmente accaduti.

Il cinema delicato di Lost in Translation

Nota soprattutto per un’altra opera di merito come Lost in Translation, inaugura un genere di cinema fecondato da uno sguardo garbatamente femminile. Non giudica, non condanna e non celebra un universo a scapito dell’altro. Registra, riprende, spesso con quel distacco, proprio di chi non punta a guadagnare consenso facendo leva su un carico eccessivo di commozione. Il fruitore dell’opera è libero di incamminarsi in qualunque direzione. Un cinema delicato e raffinato. Sofia Coppola, la donna con la macchina da presa: regista prima, figlia d’arte poi.