Jeanne Moreau – la première dame del cinema

Ascenseur-pour-léchafaud

Esiste la bellezza inconfutabile, vorticosa e travolgente di Brigitte Bardot. La solarità nelle trame dorate di capelli, l’irresistibile richiamo di labbra e sguardo in quell’ingenuo vezzoso palpebrare. Esiste poi la bellezza e il suo carico, quel peso che fa di una donna bella, una creatura bellissima. Un fardello tutto di malinconia: dal cuore allo sguardo. Esiste il nietzschiano dardo lento della bellezza, un moto latente che non rumoreggia, ma penetra in silenzio, lentamente e in maniera definitiva. Esiste la bellezza come onere di una grazia nostalgica, negli occhi che raccontano una storia inafferrabile, quella dell’attrice, cantante e regista Jeanne Moreau. Il perdersi dentro lo sguardo in uno struggimento dal sapore remoto, una seduzione innata e ignara, che rende una donna lontana da qualsiasi posto e creatura.

Similmente la si contempla in Ascenseur pour l’échafaud, nell’epica passeggiata per le strade di una città che non le appartiene. Una sorta di pedinamento dove la macchina da presa, sembra essere asservita alle dipendenze di una dama lontana e conturbante in egual misura. È l’incontro decisivo con Louis Malle, la regia d’autore che promuove un’attrice nuova e fuori dagli schemi del cinema classico. Una Moreau con il pathos nell’espressione: davanti una pellicola devota e arrendevole. Il portare in trionfo la bellezza che non invade, ma lentamente si infiltra, sino a incollarsi indosso, bruciando senza addolorare. Non un piacere gaudente, ma un lento assaporare.

Il termine divina per questa maestosa signora di ottantasette anni, non sembra mai essere abbastanza. Musa della Nouvelle Vague, con l’opera Les Amants, regala a Louis Malle un’altra interessante figura di donna. Con lo stesso sottofondo malinconico, Jeanne Tournier, porta un bottino di scandalo che supera in corsa quello di Florence de l‘Ascenseur. Fuori dal personaggio del cinema di consumo, ancora un incanto inaccessibile si muove bellamente tra gli uomini. Ne sceglie uno con il solo fine di giungere sino in fondo a una trama che non le interessa. Il destino del carico della bellezza è tutto di solitudine.

Tali figure di donne, gravate dal peso dell’attrattiva misteriosa, paiono scontrarsi con quel sentimento più in sintonia con una bellezza meno sfingea: l’amore. Fissata nel volto della Lidia di Antonioni, vi è tutta la crisi della coscienza amorosa. Una paralisi che la rende impotente all’inesorabilità di una fine: quella del sussulto di cuore. Jeanne Moreau incarna alla perfezione la donna lucida e disincantata: la disillusione è nella città, dietro l’angolo, nel volto di un uomo incapace di amarla perché irraggiungibile.

Quello della diva francese è uno charme tutto di arcani nel ventre di una bellezza laconica. Il dettaglio corre dal campo cerebrale a quello carnale sino a depositarsi nella zona del sogno. Lo stesso François Truffaut, accanto al quale l’attrice si rende memorabile nella Catherine di Jules e Jim, la racconta in queste poche righe:

Ogni volta che me la immagino a distanza la vedo che legge non un giornale ma un libro, perché Jeanne Moreau non fa pensare al flirt ma all’amore.

Quell’amore che per un donna dall’attrattiva impenetrabile, assume il volto di una tensione continua che si alimenta nella certezza di una mancanza. Esiste pertanto il carico della bellezza che poche interpreti, pensando all’Italia è d’obbligo citare Silvana Mangano, portano sullo schermo, conferendo una vera e propria identità a un’incarnazione più cerebrale e malinconica.

Barbadillo, 15 settembre 2015

Elegia (naïf) della bellezza

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“Infanzia” by paola rizzi is licensed under CC BY-ND 2.0

Esiste un punto nel tempo in cui la bellezza si consuma in un vorticoso giro di dubbi. Il dogma si fa chimera, l’armonia vive in una ricerca forsennata. La bellezza è presenza impercettibile nell’esplosione gioiosa di un gesto. Nella traiettoria incerta di un gessetto sull’asfalto, nel segno che traccia i confini di un gioco con un nome altisonante: la campana, per esempio. Una tribù di impavidi ragazzini, conferendo potere a un ciottolo, si affronta a colpi di falcate. In un moto unico, il tracciato passa dalla campana al sorriso. La bellezza è presenza impacciata nell’idillico smercio di foglietti: tra le righe il primo assordante “mi piaci”. È l’aura del primo bacio, quello provato e riprovato per giorni su tutta l’accoglienza del dorso di una mano. Un cappotto di imbarazzo in attesa della seconda effusione.

Accade la bellezza nel perpetuo incanto che, sino alla bassa stagione dell’adolescenza, non si fa mai disincanto. È liturgia vissuta nella piena fiducia in nome di un Dio trovato senza alcuna ricerca. È nella voce innocente di tutte le cose: nei racconti sulla guerra di uno zio che fu prigioniero, nella fumante cucina regionale della nonna e in quel sacchetto pieno di cancelleria profumata ottenuta con la prima paghetta. È nelle corse sbrigliate verso ginocchia sbucciate, aggiustate alla rinfusa in attesa di un nuovo inizio. Cicatrici come stampi lenitivi per il sorriso adulto. È nelle prime feste in casa a base di dolci, pizzette e quella confezione di cola prontamente svuotata per il gioco della bottiglia: bacerai tutti, tranne l’oggetto del tuo desiderio. Nel primo abito plissettato preso proprio per l’occasione. Nell’illusione che quel velo di burrocacao, steso sulle giovani labbra, sortirà lo stesso effetto di un rosso Chanel. È in quello schiudere gli occhi davanti al mondo. Nell’occhieggiare maldestro e timido a quel fanciullo, certamente il figlio di James Dean, conosciuto al mare durante una partita a bigliardino. Nel rivederlo il giorno dopo e quello dopo ancora, sino all’agognato bacio, atteso tutta l’estate e accaduto puntualmente l’ultimissimo giorno di vacanza.

Accade la bellezza nel dono del il primo animale domestico, mortificato da un nome improbabile. Appellativo che scorderà quando si perderà nei tuoi occhi. Nell’assistere con meraviglia a quel miracolo che è il parto: la creatura pelosa si moltiplica in tanti altri improbabili nomi che, naturalmente, per la gioia dei genitori, terrai tutti indistintamente. Nel costruire capanne pericolanti dove rifugiarsi, non al riparo da qualcosa, ma in nome di una magia: la prima proprietà privata della vita, custodia esclusiva di uno spazio segreto. È nelle gite scolastiche di una città che non conquista, ma nel ricordo si fa meravigliosa quanto il repertorio musicale cantato a squarciagola sul pullman. È in un prato di campagna occupato dal rudere di un casale dove, furtivamente si accede, attraverso l’esplosione di una fantasia debordante: storie di fantasmi prendono vita nel rudere. È nel primo film al cinema, nella prima scarpetta rialzata di due soli fondamentalissimi centimetri. Nel primo bikini, indossato con tanto di sfoggio di un triangolino completamente vuoto.

Accade la bellezza nello sguardo riservato ai genitori, due supereroi bellissimi e invincibili, giunti sulla terra solo per proteggerti, in quel per sempre così difficile da pronunciare: per sempre! Accade la fede sconsiderata nella bellezza: la presenza che non cerchi, ma ritrovi in tutte le manifestazioni fanciullesche. Nel tempo giunge un punto esatto in cui lei si fa lontana, remota, nascosta. Al suo posto una consapevolezza: il dovere di trattenerla. La fede si fa fioca perché a quel bacio forse non ne seguirà un altro. Perché quel primo animale domestico dovrai scortarlo sul ponte dell’arcobaleno alla fine dei suoi giorni, nella scoperta di un’ineluttabilità che abbraccia tutti indistintamente. Perché quel bikini non è più tanto speciale. Perché quel burrocacao, che si è fatto rossetto scintillante, non muove gli stessi effetti. Perché al posto del rudere, oggi c’è un alveare di cemento. Perché il pullman non passa e non cantiamo più tutti assieme la melodia di quell’elefante che si dondolava sopra il filo di una ragnatela.

E allora sull’incanto di una reviviscenza è cruciale l’improba lotta al disincanto. Disillusione che, in tutta la sua potenza distruttrice, si stanzia nei posti lasciati vuoti dalla bellezza. Lanciare il cuore e lo sguardo sotto, sopra, intorno alla superficie delle cose per ritrovarne lentamente i primi granelli. Il primo chicco in una melodia che risuona in un aggeggio. Un quadratino inserito in un altro nell’abitacolo di un’automobile, risuona melodie sull’asfalto di una strada desolata o sull’umettato di una romantica notte di pioggia. Un granello in una lettera scritta da mesi e infine spedita. Un granello nella voce di un fratello che, davanti all’ennesimo tracollo sentimentale, ridimensiona il tutto con la battuta dell’occasione: “Dai, non importa. Non a tutti può piacere Janis Joplin!”. E in quella battuta c’è il granello più importante: l’ironia salvifica. La formula magica che scaccia via l’ultima lacrima, il sorriso su quell’errare dell’impeto che proprio non riesce a correggersi. Un granello ancora nell’adunanza con le amiche di sempre, a suon di strampalate teorie filosofiche che finiranno tutte nell’oscillazione tra un irremovibile «non lo chiamo più» e un coraggioso «va beh, magari un messaggino…»

Da grandi la bellezza si fa grande e come tale inafferrabile. L’impossibilità di sintetizzarla in un siero salvavita, la difficoltà di rinchiuderla nella scatola dell’infanzia e la vita che accade indipendentemente fuori dai venti incantati, tutto a generare resistenze e scivoloni. La bellezza pone trappole, prove di coraggio e nostalgia della fede che fu. Non più presenza costante nel cielo puerile, ma altalena del tempo in stagioni fluttuanti di incertezza. È nel barcollo confuso di un’esistenza che, tra fulminee cadute e flemmatiche risalite, ogni granello si fa spinta nell’accorpare ancora e, ancora una volta, un piccolo bottino di grazia. È il mancare l’appuntamento nichilista, il tenersi lontano dallo sconforto fatto stile, evitare la via più semplice del nulla che si traveste da tutto.

Accade la bellezza. Si indossa allo scadere di ogni stagione. Nelle pieghe di una gonna scesa sotto le ginocchia, nel rossetto sbafato, nel vento che muove capelli pittati a festa, nelle fossette fatte rughe, nella melodia e nel rumore, accade la bellezza. Accade nella travolgente fede di continuare a credere, nonostante alcun messaggero abbia mai donato l’indicazione più importante: la bellezza è silente.

  • 27 aprile 2016

Di lei, i pensieri (II)

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“fu turismo ?” by PORTOBESENO is licensed under CC BY-NC-ND 2.0
  • continua da pag. 1114

[…] Solo così i vivi si mantengono sani. Se il morto non prendesse leggenda nella vita di un vivo, il vivo impazzirebbe. Ammattirebbe. Il morto si prende bellezza con la morte. Anche il morto più inviso alla vita, produce nel vivo un particolare che ne farà leggenda. Qualcuno si spara. Qualcuno si spara per affrettare la leggenda. Guarda Alain che preferisce il ferro alle pieghe della mia gonna bianco betulla. La leggenda non è vissero felici e contenti sotto un tavolo di betulla a forma di gonna. La leggenda è morirono felici e contenti.

Lascio Parigi e lo diceva uno bravo “brucio Parigi per te ma tu non bruci per me”. Lascio Parigi e faccio ritorno a Ortigia. Dimentico la fisarmonica e trovo il bel caffè. Granita di caffè, caffè alla nocciola, pistacchio nel caffè. Tutto è caffè. Caldo bollente e oscuro cristallino. Tutto è caffè e Voi. A Ortigia gli uomini mi usano il Voi. Cenni con il capo e offerte di Voi. Levito su ogni Voi afferrato. Preso nel cielo pistacchio di Ortigia. Germoglia l’addizione del voi. E l’addizione porta alla somma: trentaquattro Voi al giorno fa una donna scalza che crede di ancheggiare sui tacchi a spillo. Trentaquattro Voi al giorno fa una donna in magliettina a righe di Vestivamo alla marinara che si crede fasciata in un abito nero da sera. Il Voi è un abito di seta, una scarpa di marmo policromo, un gioiello affacciato sul barocco di un balconcino. Il Voi è un corteggiamento. Il Voi è un inchino erotico. La dama si lascia prendere dal Voi e libera dal ventre tutto l’erotismo dell’isola di Ortigia.

Il Voi è un granello di sabbia accampato su capelli bagnati da un mare rovente di cattedrali barocche. Tutto è salsedine e granita di caffè con panna senza ghiaccio. Tutto il pistacchio finisce stretto stretto nella grande brioche. Al bar non trovi la caffetteria. Al bar trovi il bar e Totò. Dimentica Alain. Totò sa che tu sei donna di continente. E contenente. Contenente tutti i caffè e gli amori mancati. Questa prepotenza degli amori mancati che torna a ripetersi. Reitera il reato di aver mancato. Stipata nel senso di colpa, scappa a reiterare. E l’amore manca.

È colpa della bellezza. Anche quella torna sempre a pesare. Chi contiene bellezza ne contiene troppa. E chi è carico di bellezza piega la schiena al fardello. Lo sguardo scivola verso il basso.  Chi è carico di bellezza non può che essere lasciato in solitudine dentro la sua bellezza chinata. Si ama meglio chi non porta bellezza. Perché la bellezza è un carico da scontare. Sei pesante! E quella è la bellezza. Si prende tutto lo spazio, lei. E loro non sanno riconoscerla. Non la vedono. Ma devono pur sentirla in qualche modo. Ne avvertono il peso. E fuggono. La bellezza nasce per creare isolamento. Non c’è spazio per l’amore. C’è lei e tanto basta. Poi quelli tornano canuti con il maglioncino ad aprire la frustrazione panciuta. Hanno avuto l’amore, forse. Ma no, la bellezza no. Sono padri e madri che dicono Beata Te! A te che parli una solitudine senza figli. Perché chi possiede amore dice Beata Te? Vogliamo fare un cambio? Ti offro una bella teca di cristallo in mezzo al deserto. La vuoi? È bellissima. Anche quando non hai nulla, dentro puoi metterci tutto il tuo nulla. Ti protegge dalla fredda notte desertica. Ti tiene al fresco. Fredda e algida. Non invecchi? Sei per sempre ragazza. Ragazza sola che vive dentro una fredda teca di cristallo. Beata te! Certo, non sono mica canuta io! E ancor meno panciuta di frustrazione. Sono adiposa di bellezza e grassa di solitudine. Uno scheletro morente. La bellezza trascina un segreto. Quale? L’inconsapevolezza. La creatura è bella perché non sa di esserlo. Qui si pianta la croce senza delizia. Qui si firma la ferita asciutta. Dall’inconsapevolezza sgorga il sangue. La bellezza sapiente non è bellezza. La bellezza sa di non sapere e fa il verso al filosofo. E il filosofo non può che volgersi al sole di Ortigia.