
L’ultima opera di Michel Houellebecq è un viaggio a ritroso tra le macerie dell’amore.
Si può morire d’amore? Secondo il dott. Azote, medico di Florent-Claude Labrouste, si può morire di tristezza: «Ho la sensazione che lei stia molto semplicemente morendo di tristezza». Serotonina, l’ultimo libro dello scrittore francese Michel Houellebecq, tradotto da Vincenzo Vega e pubblicato da La nave di Teseo nella collana Oceani, è un romanzo d’amore. Quale amore? Quello mancato, perduto, deliberatamente ricusato. Questo libro è il luogo che l’autore ha scelto per nascondere un sentimento romantico. Chi scrive si muove tra le righe sbandando, ma con esattezze di humour bretoniano, con baudeleriana derisione, progettando un involontario romanzo d’amore, come se non volesse, però lo vuole. Cosa sono, qui, le parole? Sono quello che sono, frammenti di scrittura sentimentale in rovina, macerie, schegge anche affilate per provare a ferirsi ancora o per la prima volta. Così pare le maneggi, forse fingendo rischiose distrazioni, il protagonista Florent-Claude.
Allora, essere al mondo coincide con l’essere amato, amare col dare la vita per viverla. Privo di amore, l’essere è morente. Sopravvive per automatismo o grazie a una piccola compressa bianca, ovale, divisibile, il Captorix. L’antidepressivo agevola il rilascio di serotonina, l’ormone meglio conosciuto come ormone del buonumore, una brezza sulla noia e la monotonia di una vita ordinaria, che però trascina con sé spiacevoli effetti collaterali. Tra i più fiaccanti per Florent, la scomparsa della libido, un addio definitivo all’erezione. Ma con ogni probabilità il bisogno dell’uomo è quello di dopamina, vale a dire quel mediatore chimico che, secondo alcuni studi, non ultimi quelli dell’antropologa Helen Fisher, sarebbe intimamente legato all’amore romantico.
Dall’assunzione del Captorix, una serie di eventi trascinerà Florent nell’abisso di se stesso e verso l’inevitabile distacco dal mondo. Il primo allontanamento, sostanzialmente il più rappresentativo di tutti, è dal precario universo abbozzato con Yuzu, una donna fredda e fortemente attiva nelle infedeltà. Lasciare Yuzu è lasciare il mondo sociale, la casa, la convivenza, per sopravvivere in uno spazio neutro, l’albergo. Chiusa la vita con Yuzu, concluso questo rapporto “in fase terminale”, il presente è annullato, si apre la via che riporta al grembo vivo e umido dell’amore che fu.
Florent è un uomo con un’anima incerta, del tutto non aderente alla contemporaneità in cui vive, pertanto anche a un’Europa crivellata da incertezze. Rigettare il presente corrisponde al rifiuto estremo: ricusare se stesso. Il movimento della narrazione procede per figure e ritmo di un bolero, sorpreso da improvvise incursioni post-punk, spesso fuori luogo e fuori tempo. Le descrizioni maniacali del sesso sembrano rimandare a inquietudini e turbolenze agitate da una irrisolta nostalgia dell’amore, e spesso esuberano in eccedenze gratuite, quasi caricature, vignette umoristiche più che umorali.
Un umorismo feroce, violento verso il prossimo, laddove il prossimo è l’uomo, la donna, l’Europa, il mondo tutto. È lo scorcio di Baudelaire sulla percezione della figura comica, impressione che si realizza solo quando si è scivolati molto in basso, quando si è perduta ogni possibilità di felicità e la speranza di un residuo di innocenza. Ma è anche l’esaltazione di quello humour tanto caro a Breton, una emancipazione dalla realtà e dal linguaggio verso nuove e visionarie associazioni e nuovi rapporti misteriosi tra le parole e le cose, in grado di rovesciare ogni traccia della realtà. Ai due tratti si aggiunge un’assenza, la totale mancanza di autoironia.
Le scene, che a una prima scorsa possono apparire come una replica monotona, non sono però ripetitive a ben guardarle, a leggerle bene. Non vanno allineate ma sovrapposte, e allora è visibile il disegno grottesco, la bizzarria, l’accumulo sfrenato, il sesso come confusione, una babilonia, una babele più del pensiero che del corpo. A questo punto, uno è lo scandalo: concepire un romanzo d’amore. Quel romanzo d’amore involontario, concepito come una scivolata imprevista ma incoraggiata dall’andatura che sbanda.
E l’amore, proprio come il vizio del fumo, accennato a inizio libro, si alimenta con l’eventualità di perderlo, d’averlo perduto. È in mancanza che l’essere umano comprende: l’amore è nell’assenza di amore, perché l’assenza d’amore è, come l’amore, grande. Il sentimento vive la sua piena altrove, nella perdita ineluttabile. La discrepanza tra Florent e il mondo può essere sanata solo dalla figura femminile. Ma la donna è nel ricordo e nel recupero della memoria, che per un cortocircuito di emozioni, diventa un ulteriore contributo all’abulia di vivere. Vi è un’impossibilità certa di ricreare il passato nel presente, un mal pensato balsamo, un tentativo maldestro di non essere inghiottiti dalla disperazione dell’assenza. Il viaggio tra le donne del passato si rivela un viaggio dentro le stanze anguste del proprio male di vivere. E proprio dallo scrittore ‘maschilista’ Houellebecq, giunge una pennellata luminosa di come nasce l’amore nella donna:
Nella donna l’amore è una potenza, una potenza generatrice, tettonica, quando l’amore si manifesta nella donna è uno dei fenomeni naturali più imponenti di cui la natura possa offrirci lo spettacolo, è da considerare con timore, è una potenza creatrice dello stesso tipo dei terremoti o degli sconvolgimenti climatici, è all’origine di un altro ecosistema, di un altro ambiente, di un altro universo, con il suo amore la donna crea un mondo nuovo, piccoli esseri isolati gorgogliavano in un’esistenza incerta ed ecco che la donna crea le condizioni di esistenza di una coppia, di una nuova entità sociale, sentimentale e genetica, la cui vocazione è proprio quella di eliminare ogni traccia degli individui preesistenti, tale nuova entità è già perfetta nella sua essenza, come aveva capito Platone, a volte si può complicare strutturandosi in famiglia, ma questo è quasi un dettaglio, contrariamente a ciò che pensava Schopenhauer, in ogni caso la donna si dedica interamente a questa missione, vi si immerge, vi si dedica come si suol dire anima e corpo, e comunque per lei non fa molta differenza, per lei la differenza tra anima e corpo è solo un cavillo maschile senza importanza. A questo compito, che in realtà non è tale, non essendo altro che la pura manifestazione di un istinto vitale, sarebbe pronta a sacrificare senza esitazione la propria vita.
È lo stesso misogino a descrive il differente esito che l’amore produce nella figura maschile: quel sigillo, quel punto fermo, compiuto, la finitura, l’ottusa convinzione di non poter vivere senza la donna. Se da una parte si spalanca una generazione sul mondo, dall’altra si chiude la serratura su tale creazione: armonia verso immutabilità.
Houellebecq scrive l’opera dell’amore mancato. Perduto per indolenza, per inclinazione al rinvio, per percezione adolescenziale di immortalità, e perché tutto sfugge nella convinzione di poter essere un giorno, ancora una volta, agguantato. Ma la realtà si mostra in tutta la sua precisione, custodisce delle temporalità ben definite e soprattutto non è tarata sulla fragilità. Mancare l’appuntamento con l’amore significa fissare un altro incontro, quello non rinviabile con la morte.
L’infelicità porta in seno un carico pesante, tende a sostare, a prendersi tutto e a incidersi sulla pelle per poi conficcarsi nella carne viva dell’infelice. La felicità è violenta, veloce e provvisoria. L’infelicità è per sempre come l’amore smarrito, il peso è quel fardello pesante che è la vita senza sentimento. Il viaggio a ritroso tra le macerie del sentimento che fu è un lento declivio verso la morte. Le emozioni bisogna saperle prendere, o con le parole giuste o con parole disperatamente affastellate. Houellebecq ha saputo scriverle con le une e le altre.
da l’Intellettuale Dissidente, 16 gennaio 2019