Bruno Lauzi – «[…] che la mia malinconia di adolescente si fece canzone»

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«[…] che la mia malinconia di adolescente si fece canzone» B.L.

È certo che non abbia mai percorso la strada da Megara ad Atene, pertanto è parimenti indubbia la sua assenza dal letto di Procuste: vano l’esercizio del più fervente degli stiratori, nessun brigante a piegare il suo pensiero.

Bruno Lauzi (Asmara 1937 – Peschiera Borromeo 2006), compositore, cantante/cantautore e poeta, attraversa la musica penetralmente senza mai flettersi davanti all’ingannevole piaggeria di alcuno. Fedele a se stesso, non si inganna per denaro o popolarità. Dona agli altri la sua personalissima poetica e gli altri vengono poi inghiottiti in un altrove dove sovente non viene invitato. Salotti di compiacente consenso vestiti a stoffe di ribellione. Ma Lauzi è il vero ribelle: non presenzia alle feste comandate degli anni ’60/’70, non si fa santone e si concede di rifiutare partecipazioni in luoghi ritenuti di culto. E lo fa in nome di un principio sacro: quello dell’arte. L’artista, colui che si muove solitario sulla terra impervia dell’arte, non amoreggia con la notorietà e non sale sul carro del vincitore poiché prende il bus.

Scrive testi di rara bellezza ma una sindrome ancor prima del Parkinson, si nasconde dietro il pentagramma della sua opera: la sintomatologia dell’artista invendibile. I suoi dischi, anche quando raggiungono la vetta, continuano a vendere poco. Lauzi è dunque l’uomo per pochi. In vita e dopo la sua morte, séguita a restare per pochi. Un privilegio: la massa plasma, rende nesciente simbologia, ghermisce un motivo e lo piega all’imminenza del primo bisogno. I pochi indossano il vessillo cucito nell’inchiostro di una penna sofisticata, soffiata da una voce inimitabile. Dentro un verbiloquio viene definito il piccolo uomo della canzone italiana. Se la statura è quella morale, si potrebbe guadagnare un bel titolo che superi in corsa finanche il “grande”.

Suona il banjo Lauzi e lo fa in compagnia di Tenco, quel Luigi che è al suo fianco durante gli anni del ginnasio Andrea Doria a Genova. La città nella quale giunge da piccolo e indossa come l’abito più comodo.

Genova è Luigi, Umberto, Gino e molti altri, ma non la scuola genovese che il poeta non riconosce.

[…]

  • tratto da Anime Inquiete – 23 storie per mancare la vittoria

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