Non, je ne regrette rien – Édith Piaf

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Édith Giovanna Gassion (Parigi, 19 dicembre 1915 – Grasse, 10 ottobre 1963), nota come Édith Piaf effigia Le rossignol, il piccolo usignolo dall’estensione vocale di un esemplare ciclopico. Creatura esile nelle fattezze, copiosamente imponente nel carisma, simbolo di una certa Francia e ala protettrice di amori tribolati, disegna la donna dilaniata nella vita e maestosa nell’arte.

Profilo sonoro di una cinematografica sequenza sentimentale, nel fotogramma tragico della pellicola I colori dell’anima; Amedeo Modigliani, Modì e l’amata musa Jeanne Hébuterne, danzano pressoché levitando all’appello di alcune note. Melodia che giunge da un sene grammofono, allestito sul tetto di una soffitta parigina, altrimenti in un caffè di Montmartre e ancora giù, nel tormento di una passione. 

In Natural Born Killers – Assassini Nati, opera filmica di Oliver Stone (1994), la sequenza iniziale è tutta dentro un massacro per chiudersi sulla melodia di una ballata d’amore. Il sangue dei clienti di un bar della Route 66, diviene il rosso carminio dell’ardore di Mallory e Mickey.

Billy Wilder agguanta l’aureola musicale per il rullo del 1954: Sabrina. Sentinella di un filo conduttore, rivela la chiave di violino che la incornicia in due storiche sequenze. Nella prima, Sabrina – Audrey Hepburn – incorniciata da una camera fissa, mentre seduta alla scrivania, redige una lettera:

È notte ed è molto tardi, qualcuno che attorno sta suonando “La vie en rose”; è la maniera francese per dire sto guardando il mondo con degli occhiali colorati di rosa. Ed è esattamente quello che provo io adesso. Ho imparato tante cose qui e non soltanto come si fa il canard à l’orange o la crème à la cichy, ma una ricetta più importante. Ho imparato a vivere. Ho imparato a essere qualcosa di questo mondo che ci circonda, senza stare lì in disparte a guardare. Stai pur cert che ormai non la fuggirò più la vita, e neanche l’amore. 

Ancora nella grazia vocale di Sabrina, nel verso di un seducente Humphrey Bogart, accade il richiamo al batticuore. È la cantica d’amore più celebre tra gli amanti, il guardiano in gonnella di chiffon della volta parigina nella voce del rossignol: La vie en rose. Il motivo dell’ugola dorata e tragica di Giovanna Gassion, la trama che avvolge il cieco credo degli amanti di tutto il pianeta.

Des niuts d’amour a ne plus en finir

un grand Bonheur qui prend sa place

Les ennuis, les chagrins s’affacent

heureux, heureux à morir

Quand il me prend dans se bras

il me parle tout bas

Je vois la vie en rose

La vie en rose non è l’unico brano che la “chanteuse realiste” offre al mondo del cinema. Nel 1956 giunge dalle parole di Michel Vaucaire una melodia affrettata da una timbrica nostalgica ma saldamente vigorosa: Non, je ne regrette rien. Le note trattengono il ritratto della complessa esistenza della cantante. Malinconica sonata, ripresa in dimensione “meta-musicale” anche dal gruppo metal tedesco Ramstein nella loro Frühling in Paris. La durezza della lingua tedesca si assottiglia in quella francese e nella liturgia di una primavera parigina, dentro un grido di labbra e carne, nulla si rimpiange di un sentimento tormentato. 

In Inception, pellicola firmata da Cristopher Nolan, Non, je ne regrette rien disegna una sorta di metronomo onirico: il “calcio” diretto all’allucinazione che riporta nella realtà, morire nel sogno della Piaf e destare la vita nella malombra dell’usignolo. Da ultimo la Francia, Parigi e il verso romantico scandiscono un film di azione mentale, a tratti gemicante di elementi eccessivi, alla maniera di una tregua anche per l’occhio che guarda. Si compie sulla soglia di The Dreamers, marcatura anacronistica quanto simbolica di un passato presumibilmente sbagliato. Temporalità avulsa dal rammarico, stacco nostalgico che sottolinea i titoli di coda: allegoria di una fine che è già nuovo inizio. E infine si resta al cospetto del film La vie en rose, di Oliver Dahan (2007). La Piaf, magistralmente interpretata da Marillon Cotillard che si accaparrra un meritato Oscar come attrice protagonista. 

Una veloce carrellata cinematografica e musicale per chiedersi infine: chi è le rossignol?

È la voce che tocca la gloria celestiale, il suono che giunge dal basso degli inferi di una Parigi viva nel segreto di un bordello, lo stesso dove cresce la chanteuse. Accudita dalle sottane affettuose di venti prostitute, conosce il mondo. La sua campana è di rame, ma il suo batacchio è miscela di cristallo e ferro. Dopo l’infanzia nel girone lussurioso di nonna Marie, la piccola Piaf torna al padre Jean Gassion, una sorta di Zampanò alla francese. La campana si sgretola anche nel rame, ma il suo pendolo inizia a farsi tanto più vigoroso. Il suo canto dilaniante comincia a risuonare negli arrondissements parigini; all’angolo di una via, tra una monetina e un estimatore di passaggio. Poco tempo e la piccola Giovanna diventa madre, una maternità che le scalderà il cuore per soli due anni: la bambina muore di meningite. Le vie parigine continuano a beneficiare di un eco malinconico e bellissimo sino a quando non viene notata e fatta esibire in un locale di cabaret. Il primo impresario è Louis Leplée, seguito da colui che in seguito diverrà anche il suo amante: Raymond Asso.

Voglio far piangere la gente anche quando non capisce le mie parole

Le sue interpretazioni timbrano la fotografia di una piccola creatura dall’aspetto esile, raso di curve, ma fortemente sensuale dentro un petto di suoni penetrali. Il suo canto è nell’antinomia di un tormento che oscilla tra il declivio e la rimonta. La nota malinconica è nel timbro veemente che resta incollato indosso, ancorché nella disposizione di un animo particolarmente permeabile. Sovente, la dolcezza si dissimula nella molteplicità dei toni: un usignolo canta come un esemplare cittadino costretto ad alzare il volume per superare i rumori di una metropoli chiassosa. Echi appassionati e incontenibili  fecondano temi di grazia e garbo, tutto nel compimento di una intima partecipazione. Testi che raffigurano la cartolina amara della strada, della vita presa dalla prostituzione, del ritrovo dei lestofanti; tutto sempre all’interno di una trama inquieta sotto l’ombra silente dell’amore. La sua Parigi è quella della gente, La Ville Lumiére è La Ville Populaire. Durante gli anni ’40, le esibizioni prendono a essere discontinue, conosce Jean Cocteau e si lega a Yves Montand. In una Francia post bellica, intorno al 1946, i cieli perdono il grigiore in un motivo che, prima nella Ville e poi nel mondo, figura il simbolo del ritorno in patria e di un nuovo sguardo sull’esistenza. La tragedia, che la trascina negli inferi della sua vita, si compie quando l’amato, il pugile Marcel Cerdan, nel 1948, in volo per raggiungerla negli Stati Uniti, perde la vita nell’incidente aereo. Il fardello del senso di colpa alimenta l’abuso di alcol, droghe e psicofarmaci. Alla memoria di Cerdan è legata la struggente ode Hymme à l’amour. Nel 1955, il piccolo usignolo dona finalmente il suo canto a l’ Olympia nel IX arrondissement, lo storico monumento teatrale di Parigi. Seguono anni di canzoni e dispersioni. Il 1960, dopo troppo alcol, morfina e notti insonni, il tempo è quello di una broncopolmonite dalla quale non si riprenderà più. Una ricaduta la porta alla morte nell’ottobre del 1963.

La Piaf, le rossignol’invisible, è una fiera risonanza della Francia, un lamento bukowskiano nelle pieghe di uno spleen baudelariano. La malinconia fatta amore, l’amore fatto nostalgia, la vita fatta impossibile di una piccola creatura capace di elevarsi sino all’Eden e, da lì, far grondare la passione come una tempesta di note eccezionali. Alcuni spiriti, più di altri, devono necessariamente scendere nell’Ade, insozzare sino a polverizzare il proprio cuore. Nella rimonta, perdere l’intruglio incollato alle ali e planare con l’ugola rivolta alla luce.

  • Da Anime Inquiete