Figli di una letteratura superiore: il tesoro del dottor Destouches

celine

L’eccezionale saggio di Andrea Lombardi offre la rara occasione di conoscere e comprendere le molteplici e spesso contrastanti sfumature del genio di Céline attraverso una mole notevole di documenti, interviste, ricordi, lettere.

Una babilonia di questioni reali o virtuali volteggiano intorno al quesito dei quesiti: “qual è il libro che cambia la vita?” La scelta può ricadere su risposte multiple che circoscrivono il prodigio in un numero che oscilla tra il cinque e il dieci. Ma il libro che marchia è come il grande amore: uno e definitivo. Il resto è nient’altro che tributo di quell’uno, orbita del podio. La nostra risposta che risulta interessante solo per il valore inestimabile dell’opera oggetto dell’articolo, cade senza alcun dubbio su il Voyage au bout de la nuit di Louis-Ferdinand Céline. È il viaggio in quella lettura che irrompe mediante una frattura estrema; tra un prima ricolmo di allettanti verità e un dopo debordante di sconsolanti certezze. Lo smascheramento di un’umanità priva di speranza, che nello scorrere della pagina, si fa ineluttabile scoramento. Ma il viaggio diviene anche indagine sull’autore. Céline si incolla indosso, è quella realtà che più tenti di non guardare, più scava in profondità per riproporsi ogni volta nel tuo personalissimo giro di angolo. E allora succede di ritrovarsi all’interno di Mort à crédit nell’inchiostro delle prime righe già impresso sulla pelle:

«Eccoci qui, ancora soli. C’è un’inerzia in tutto questo, una pesantezza, una tristezza…»

Fardello, che ancora a conclusione della lettura, si fa nuovamente pungolo alla curiosità. Un avanzare tortuoso che passa per i discussi Pamplhet spingendosi sino alla Trilogia del Nord: le agitate acque che non si arginano. Il tomo che prendi, lasci e riprendi in una sorta di stato d’animo conflittuale, per quanto calamitante. Si resta sulla soglia di un linguaggio che non permette la via di mezzo tra l’inghiottimento e la distanza. Si rimane frastornati da quella scrittura che non è parola, misura e ancora parola. Disorientati da una punteggiatura che a scuola avresti scontato infine con la penna rossa. Ma sopravviene l’urto fragoroso di percepirne la grandezza. Si viene investiti da quel gigantesco timore reverenziale di trovarsi presumibilmente al cospetto del più grande scrittore del XX secolo. E allora la spirale è ancora nel procedere, nell’avanzare in un’insaziabilità che raramente si manifesta. Una voracità e un’ingordigia che riescono a trovare una sospensione in un meraviglioso prodigio cartaceo, tutto impregnato di Monsieur Céline. Un portento colma l’italianissimo vuoto celiniano, a cura di Andrea Lombardi e con la collaborazione di Gilberto Tura su Louis Ferdinand Auguste Destouches. È una tavola bandita a festa, un banchetto romano dove ogni appetito viene appagato. Quelle trecentodiciotto pagine dove il lettore coglie l’occasione di incontrare le numerose vite dell’autore dove, ogni contraddizione, si annienta all’inizio e al termine di ogni ulteriore esistenza. Si sosta incuriositi su un Destouches patriottico ed entusiasta di andare in guerra. La stessa che lo inghiottirà nell’orrore del suo inchiostro. Si indugia sullo svelamento che Mort à crédit riconosce un altro traduttore, oltre al noto Giorgio Caproni. Un Caproni appassionato anche nel raccontare un presunto rammarico; l’eccitazione e il dolore di aver offerto una voce all’intraducibile Céline e, insieme, a tutte le ombre che l’operazione comporta.

Si solidifica la certezza, attraverso saggi e documenti, di un monumentale innovatore linguistico e letterario. Lo scomodo latore di una frattura: la lingua scritta evolve sulla pagina in lingua parlata. La parola si fa ritmo in un cadenzare disarticolato che figura in imprecazione al reale; invettiva contro l’accadere fatale dell’istante. La martoriata mente del medico di Meudon è il luogo dove la fantasia cede fievolmente il posto a nuovi colori: fosche tinte di rancore iperrealistico.

«Mi importa soltanto lo stile», asserzione peculiarmente celiniana che tende a riproporsi come emblema di scrittura in tutto l’attraversamento del libro. E accade che quello stile, non custodisca altro nome che il suo, dentro un’unicità definitiva e inimitabile. In un’epifania di neologismi, la sua lingua si spiega all’infinito, alla maniera di un lenzuolo tirato da più parti nel cuore della vita. Una scrittura che si fa ”l’oltre-scrittura”, il superamento di quel francese che non può e non vuole essere grido di dolore fuori dall’inchiostro nero pece di Céline. E dall’altra parte della parola, giunge un “oltre- intellettuale” che per scorrere nel foglio abbisogna di insozzarsi nell’abisso, liberato dalla volontà di emanciparsi da una voragine certa. La guerra è dichiarata all’illusione. E Céline segna il foglio con tutta la repulsione che lo abita, disarciona la letteratura, getta tutto l’orrore nel ventre dell’ingiuria. Un percorso a ostacoli, che zigzagando tra i puntini, si arresta in presenza di un esclamativo; disorientamento tra l’arretrare e l’incedere tra i cadaveri e la puzza che lo scrittore mai si concede di tacere.

È il disincanto che investe l’esistenza umana in una pagina in corsa; l’addio al sogno nel benvenuto a quell’artista, quell’unico artista, che cambia la vita in un Vojage scuro quanto l’esistenza. Céline, il medico delle banlieue è la lanterna che illumina il macabro collasso dell’Europa; non pone psichiatrici “se”, mostra la tenacia della caduta. Un modus, che trova le radici nella traduzione della realtà, solo il tramite di un immediato cataclisma. Sventura, che principalmente nell’uso dell’argot, rivela il proprio naturale sviluppo. Un’attitudine a svelare la calamita della sua epoca verso l’apocalisse, attraversa tutte le preziosissime pagine del libro. La ritroviamo nelle parole di Ezra Pound in un discorso radiofonico del 1943:

«Bonjour, Ferdinand/ non credo sia il mio dovere il catalogare le

pubblicazioni francesi/ ma riconosco sempre un vero libro quando ne

vedo uno/ a prescindere dal contenuto/

Ferdinand ha saputo TROVARE la realtà/Ferdinand è uno scrittore

Il prossimo sarà l’ultimo/

Gnrr gnrrgnrrgnrr.

Suicidio della nazione.

Gnières! Gn/gn

Questo sarà il suicidio della nazione.

Non si ritornerà più al paese.

Non solo per la sua copia, l’abbondanza delle sue parole/Non solo per il

suo contenuto/ Si deve leggere Céline un giorno o l’altro. I membri attivi

del pubblico devono COMPRARE le loro copie de l’École des Cadavres/

non basta ascoltarmi per 5 minuti alla radio, o di sfogliare una delle sue

opere a casa di un amico».

 

Ancora in quelle di Pierre Drieu la Rochelle, attraverso il saggista Frédéric Saenen:

«Drieu scopre in Céline ben più che un temperamento nichilista. Comprende che il medico dà una diagnosi spietata sulla società solo per pervenire meglio a guarirla dai mali che la opprimono; e che malgrado l’onnipresenza della morte nel suo universo, è in fondo la vita che intende servire, con l’esaltazione della danza, del canto, d’una poesia dell’anima inaudita sino ad allora nella letteratura francese».

 

Un volume che, nell’impagabile cura di Andrea Lombardi, si fa prezioso forziere, messaggero di aneddoti, curiosità, vicende e storie che colmano un vuoto italiano in materia di Céline. Si mostra l’incontro di un Destouches con l’eminenza della beat generation, tutta in una curiosità: la scoperta che gli amati cani del medico servono apparentemente solo per causare fracasso. Con meraviglia si leggono e rileggono le parole di Charles Bukowski in merito al suo viaggio all’interno del Vojage. Nelle parole dell’illustratrice Eliane Bonabel irrompe un eccezionale ricordo. Una discreta amicizia della durata di trenta anni; colei che per prima lo incontra dopo il lacerante ritorno dalla Danimarca:

«L’espressione di “Céline veggente” è stata talmente usata che è divenuta quasi banale, ma di fatto esatta. Anche negli ambiti che gli interessavano poco aveva delle folgorazioni straordinarie che vedo confermate nel tempo. Non è il suo comportamento a volte pittoresco che lo rendeva unico, ma la struttura della sua mente, un tipo di rapidità d’analisi, dei lampi che non ho riscontrato in nessun altro. Non amo le espressioni magniloquenti, ma il termine di genio non mi sembra esagerato se riferito a lui. Eppure, più che l’essere eccezionale, più che lo scrittore unico, è l’amico premuroso e gentile, dalla sensibilità quasi femminile che ricordo. Il nostro rapporto è stato caloroso, ma senza mai la minima confidenza; tutto era implicito, senza pettegolezzi inutili né sentimentalismi. Sapevamo, ciò bastava».

Un saggio da dischiudere lentamente, un remoto baùle all’interno del quale i ricordi si fanno corporei in una prodigiosa danza della memoria. Una visione fantastica che contempla una delle due interviste rilasciata dalla sua unica figlia Colette Destouches-Turpin. Il medico è nello scrittore, lo scrittore è padre di puntuta distanza in un sigillo di sangue e amore:

«Eccolo da me, si getta tra le mie braccia, e allora lì lo riconobbi. È così leggero, così vecchio… Non parlammo. Le nostre lacrime che cadevano, qualche parola incoerente, ed era tutto… avevamo detto tutto…»

Nulla si può trascurare nel fondo di tale cassa, ancor meno la reminiscenza di uno degli ultimi quattro vicini del Destouches di Meudon; Pierre Duverger, tutto in un’enunciazione definitiva: «Céline? La lucidità del nostro orrore».  Un cappello magico dal quale Lombardi estrae le parole della bella romanziera Maud Sacquard de Belleroche:

«Ho avuto numerosi amanti, ho frequentato tantissimi scrittori, e ho conosciuto il successo letterario. E un giorno, leggendo Nord, mi trovo personaggio del romanzo… Quello che vi posso dire, è che in tutta la mia vita, di scrittori e uomini di successo ne ho incontrati parecchi. Ma di geni, uno solo; e quel genio era Céline. Un genio così, non si incontra tutti i giorni! Ve lo posso dire…»

E ancora foto, ricordi, lettere: il voyage nella letteratura. Un voyeurismo famelico finalmente saziato. Un vuoto colmato da quel magico scrigno che troneggia fiero in un volume da collezione. L’imperativo è nell’attraversare un libro che può farsi luce anche nella più polverosa e dimenticata delle librerie.

– Louis-Ferdinand Céline. Saggi, interviste, ricordi e lettere (Ed. Italia Storica, pp. 324) A cura di Andrea Lombardi con la collaborazione di Gilberto Tura

  • da l’Intellettuale Dissidente, 18 luglio 2016

 

 

La passione per le cosce salverà il mondo: le “Lettere alle amiche” di Céline

L’immagine by Père Ubu è concessa in licenza con 
CC BY-NC 2.0

È nel tempo un sentimento diffuso dal sottosuolo, un’emozione scrutata dagli abissi, uno sguardo sghembo al sentimentalismo. Un pungolo al non amare che si fa assestamento di un affetto reale. Un negare che afferma in un lucido delirio. Dissolti nella contraddizione,  sussulti di cuore e carne attraversano impudentemente le Lettere alle amiche (a cura di Colin W. Nettelbeck, traduzione di Nicola Muschitiello, Adelphi, pp 257, euro 15) scritte da Louis-Ferdinand Céline.
La contraddizione è materia viva e pulsante. Accade quando la vita supera in forza l’ideale. La tensione all’idea è più debole dell’accadere. In tale superamento, l’ideale esce da quello stato di immutabilità, riprende vigore per assolvere il suo compito: essere un’antinomia. Le idee rendono compiuti, il potere della contraddizione rende liberi. Un ideale venerato diviene acquitrinoso e muore. E se Destouches cade in contraddizione, il primo impeto è quello di scrivere un’ode all’incongruenza. La coerenza è dell’individuo sociale e Céline non è l’uomo, non solo, è parte di umanità nella grandezza di artista.

Il momento è la sospensione tra Louis Destouches, Céline e Bardamu. La corrispondenza attraversa un periodo che va dal 1932 sino, nel caso di Evelyne Pollet, al 1948. Non si tratta del consueto carteggio d’amore, non figurano sentimentalismi e il cielo conserva lo stesso colore della sua opera maggiore, il Vojage. L’appuntamento è con sei donne, diverse per temperamento, posizione sociale e provenienza. Creature accomunate dalla passione per un uomo che rifugge la parola amore. Un carteggio come inno alle gambe: non la fiamma del cuore dunque, ma l’idolatria delle cosce salverà l’umanità. Ed è proprio il negare questa tensione al puro ardore carnale, secondo Céline, a portare l’individuo all’infelicità.
Alla studentessa tedesca Erika Irrgang è destinata un’esortazione definitiva: emanciparsi dal romanticismo. Lo sport, l’ordine e il perseguimento di un obiettivo sono per il medico di Meudon, i rimedi al male di esser giovani. Una sollecitazione a un asfissiante realismo, affrancato da alcun afflato sentimentale. L’auspicio al festeggiamento di una donna che non viva il momento dostoevskijano: la distruzione e la dannazione non appartengono alla creatura femminile. Un abbraccio dal sapore paternalistico è ancora il tono usato con l’insegnante di ginnastica N.. All’amore per le cosce si mescola quello per il “popo” (culetto). Un’attenzione benevola si accorda a un’importante tensione alla carne. Un trasporto lascivo allevia l’ineluttabile caduta nello sconforto.

Il ricordo delle sue cosce mi basta ancora. Sono un sentimentale. Mi racconti tutto ciò che succede. Nella sua vita e tra le sue gambe.

Tornano nuovamente le raccomandazioni alla concretezza e all’ambizione. Tra Destouches e Céline, sopravvive un uomo che non sa parlare d’amore, non alla maniera convenzionale. A N. viene richiesta l’inclinazione viziosa come antidoto al sentimento. La loro amicizia, della durata di sette anni, attraversa tre opere di Céline: Vojage au bout de la nuit, Mort à crédit e Mea culpa. Un clima di sospensione, anche per l’arrivo imminente della guerra, avvolge le lettere tra lo scrittore e la letterata belga Evelyn Pollet. L’autore del Vojage appare maldisposto nei riguardi della letteratura femminile. Se da un lato tenta la via del supporto, dall’altro la invita a un più accessibile mestiere giornalistico. Si definisce un cattivo lettore poiché un libro è come la morte. Ancora un’esortazione all’intraprendenza sessuale, all’uso della figura maschile come immagine materiale e di sostentamento. Si rinnovano in tale corrispondenza i temi cari al Vojage: l’uomo destinato al tedio, alla sopportazione possibile solo attraverso la contraffazione della vita. La presenza imperativa del romanzo muove non solo nelle tematiche ricorrenti, ma nelle parole stesse dell’autore: “noioso, insulso e da vomitare”. Una forma curva di apoteosi della vanità che non risparmia alcun essere umano, ancor meno Céline: il denigrare come forma di affermazione.

Non c’è uomo che non sia prima di tutto vanitoso. Dal Vojage.

Condanne ed epifanie: accanto al biasimo per la malinconia, si muove l’inno al vizio, il torbido e l’ignobile. Depravazioni oneste che non ingannano con false speranze. È un tornare a guardare l’abisso dall’abisso, scendere nel sottosuolo per restare. Fuggire la luce, il tempo ordinario ritmato dai suoni borghesi per accomiatarsi dall’abiezione  dell’essere umano. L’individuo è zavorra: pesa e rallenta. Pesanti sono le maschere, i ruoli e i personaggi da interpretare quotidianamente. La gelosia finisce nell’atto deplorevole. Céline abita voragini libere da assilli sentimentali sino alla comparsa di Karen. È in quell’istante che anche il bieco si fa eccezione e muta prospettiva. Il medico è geloso, a suo modo certo: mediante negazione. Karen Marie Jensen è una ballerina e Céline si fa il Degas della scrittura.

Mi piacciono sempre le ballerine. Non mi piace nient’altro, addirittura. Tutto il resto m’è orribile.

La danzatrice è l’immagine di una melodia carnale, un corpo disciplinato e leggero. Karen è sfuggente e lo scrittore è l’uomo che rincorre in un gioco vecchio quanto l’amore. Dunque anche nel più profondo dei disincanti, il disilluso può farsi illuso. Ma un disincanto che si fa beato è per Karen triste e deprimente. L’incontro scontro accade con la pianista francese Lucienne Delforge. È il rendez-vous di due inquietudini tra diversi piani artistici. Nell’avvicendarsi di musica e letteratura, per la prima volta si ode un sussulto dall’abisso, nel realismo più cupo giunge la più sonora delle grida: “ti amo”. L’allontanamento si fa liturgia e passione: “Ti amo tanto e per la vita, inevitabilmente”.
Con la giornalista Lucie Porquerol non nasce alcuna relazione amorosa. Pochissime le lettere, nuovamente testimonianza di uno sguardo impietoso sulla disperazione personale e storica.

La corrispondenza non disegna un uomo diverso dall’artista del Vojage. Esiste un filo, per nulla trasparente, tra il viaggio al termine dell’umanità e il tragitto alla fine dell’amore. Uno sguardo abissale che occhieggia la voragine dei sentimenti al netto degli “ismi”. È un amare alla fine dell’amore che è principio ed epilogo in un ventre vizioso di impossibilità. Il sentimento definitivo è carnale.

  • 29 febbraio 2016